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Cronisti di guerra. La vita che fanno

Riprendo da Professione Reporter l’annuncio di questo libro “Cronisti in guerra” che domenica 21 maggio viene presentato al Salone del libro a Torino. Il libro che contiene dodici interviste a inviati in Ucraina, viene presentato da Lucia Visca, editrice di All Around e da Andrea Garibaldi, direttore di professionereporter.eu. Le interviste sono di Sofia Gadici e Alberto Ferrigolo. Gli intervistati Fausto Biloslavo, Alfredo Bosco, Lorenzo Cremonesi, Emma Farnè, Francesca Mannocchi, Azzurra Meringolo, Ilario Piagnerelli, Daniele Piervincenzi, Nello Scavo, Francesco Semprini, Marta Serafini, Giammarco Sicuro

Prima di dar seguito alla prefazione che Andrea Garibaldi ha fatto al libro voglio ricordare la frase che il collega Claudio Lazzaro mi disse quando eravamo entrambi al Corriere arrivati da poco dopo la chiusura dell’Europeo una volta che era di ritorno dal Kosovo che aveva raggiunto via Macedonia dotato di un telefono satellitare allora raro e approdato poi a Pristina. “Lì ero l’unico che non fosse armato…”.
Leggendo la prefazione di Andrea Garibaldi ho ritrovato poi alcune condizioni che sono di tutti i cronisti spediti in situazioni “difficili”. Ho sorriso dunque all’idea del cronista di guerra che anche al suo ritorno continua a vivere come al fronte, pronto per ogni evenienza. Al Corriere ricordo il mio ritorno a casa dalle zone del terremoto umbro del ’96 dove coprii la situazione per oltre un mese e mezzo, di stanza a Foligno. Tornai dunque col terremoto dentro di me e dormivo quindi per un po’ semivestito sopra le coperte del letto, pronto a schizzare via al minimo tremito…Ridicolo, vero? Eppure così per un po’ di tempo allora.
Ma ecco la prefazione di Andrea Garibaldi a “Cronisti in guerra”..


ANDREA GARIBALDI
Improvvisamente, la guerra in Ucraina fece tornare importanti i giornalisti. Affascinanti quasi, non più detestabili.
Sono stati e sono loro, spesso giovani donne e giovani uomini, a raccontare cosa accade laggiù.
Improvvisamente, non basta TikTok, non basta Facebook, né Twitter. Occorre qualcuno che metta in fila le cose, disegni un contesto, tenti di spiegare. Gli strumenti sono quelli classici dei giornalisti, che “vanno dove le cose accadono, può essere il Consiglio Comunale del proprio paese, il cantiere stradale, come la grande cronaca internazionale” (Nello Scavo, Avvenire).
Per il sito professionereporter.eu (che da tre anni e mezzo informa sul giornalismo e l’editoria in Italia e nel mondo), Sofia Gadici e Alberto Ferrigolo hanno intervistato dodici “cronisti in guerra”. Quattro donne e otto uomini, tre freelance, quattro televisivi, una radiofonica, quattro della carta stampata. Esordienti e veterani.
ARMI PESANTI
Parlano di una guerra diversa da ogni altra prima. Una guerra novecentesca, con le armi pesanti, due eserciti schierati, le prime linee e una guerra moderna con i droni, i satelliti, l’elettronica, l’informatica. Ma anche modernissima, con un uso nuovo della propaganda -presente in tutte le guerre- propaganda in rete. “Infowar e fienili”, ha sintetizzato Scavo.
Perché i giornalisti vanno in guerra? Non ci vanno tutti, di solito partono i volontari, quelli che si specializzano sulle guerre e le seguono in tutto il mondo, quelli che ci vanno sul serio. Perché se si va sul serio e non si sta rintanati ad ascoltare la radio della Bbc, si rischia la vita, sul serio. Chi ha paura non va, oppure parte e torna subito. Eppure, la paura, come testimoniano gli intervistati, ce l’hanno tutti, sul terreno, soldati, infermieri, civili, e giornalisti. Ti si mette accanto, ti toglie il fiato, dice il freelance Piervincenzi, ti permette di essere più sveglio dice il fotografo Bosco, ti fa stare un passo prima dell’incoscienza, dice Francesca Mannocchi (La7, La Stampa). ”Il coraggio è avere paura”, sosteneva Marie Colvin, giornalista americana uccisa in Siria, citata da Marta Serafini del Corriere della Sera.
UN MODO DI VIVERE
Quelli che vanno, spesso si ammalano, dice Ilario Piagnerelli del Tg3. Nel senso che la guerra diventa un modo di vivere, poi un bisogno. C’era un inviato di fine secolo scorso che anche nella sua città viveva come in albergo in mezzo alla guerra, chiuso in una stanza, col frigo bar, i giornali, il telefono. Vestito e con le scarpe, pronto a uscire in qualsiasi momento.
“Ogni tanto si deve tornare a casa, per non perdere lucidità”, dice Giammarco Sicuro, Tg2. C’è il protagonismo, l’adrenalina, ma c’è anche l’attenzione per chi soffre, la sensazione di poter essere utili. E chi torna -apprezzato il caffè al bar senza sirene e spari- pensa a quelli che ha lasciato nei guai, si chiede cosa sarà successo nel frattempo. Ha voglia di ripartire.
Ci si prepara, per andare in guerra, in due modi: studiando a fondo cosa è successo e cosa succede dove si combatte e imparando a comportarsi se si finisce nel fuoco, se si viene feriti, cosa ci si deve portare dietro, di chi ci si può fidare. Trovarsi guide locali, seguire gli eserciti, ma non sempre, comprendere sopratutto dove ci si trova, perché si può morire non solo per le bombe, ma per una parola sbagliata, un passo che non andava fatto.
DOVE ABITARE
Il giornalista è in un punto, mentre la guerra si svolge in un ampio territorio. Come far diventare quel punto il centro di tutto (nel momento in cui si stampa l’articolo o va in onda il servizio)? Come si rispetta chi legge, o guarda, o ascolta, dichiarando ciò che si è visto di persona, ciò che si è controllato e quello che si è solo sentito dire? Abitare in hotel o invece in una casa, come suggerisce Lorenzo Cremonesi del Corriere? Come si scopre chi ha lanciato il missile di Kramators’k, contro tutte le versioni ufficiali? Con un lungo e faticoso lavoro, dice Semprini de La Stampa. Dare conto delle strategie o dare voce agli ultimi, investiti e devastati dal conflitto? Emma Farné di RaiNews 24 narra la vita dei civili e non si toglie dalla testa l’immagine del cadavere di una ragazza morta con lo stesso tipo di scarpe che portava lei.
Nelle risposte a queste domande, gli strumenti del mestiere dei cronisti in guerra, di quelli che sono stati -prima di arrivare in Ucraina- in Afghanistan, in Iraq, in Medio Oriente e dei giovani che cominciano da qui.
PREPARAZIONE E TUTELE
In Ucraina ci sono la preparazione e le tutele con cui la Rai spedisce in giro i suoi. La discrezione con cui la radio può creare fiducia nei protagonisti della cronaca, secondo Azzurra Meringolo, RadioRai. E c’è chi arriva senza assicurazione e senza la sicurezza che il lavoro sarà riconosciuto e remunerato, come Piervincenzi e Bosco. Freelance e fotografi, che sono stati stavolta presenti in grande numero e hanno mostrato un giornalismo prezioso, incosciente, spesso sfruttato.
Scavo ricorda il consiglio di Egisto Corradi, un inviato d’altri temi: “Camminare, camminare tantissimo”. Dice che vanno ascoltate tante voci, quelle ufficiali e quelle sul terreno, che il compito dell’inviato è “ricomporre il puzzle”.
Cremonesi risponde a quella domanda di prima (perché i giornalisti vanno in guerra?) così: “La guerra è la forma più appassionante del giornalismo, perché nel conflitto l’uomo è nudo, autentico, mette in gioco tutto”. Qualcun altro va per far emergere, attraverso le storie, che “la guerra fa schifo”, dice Sicuro.

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