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Beppe Ramina e la grande storia del Cassero a Bologna

Beppe Ramina (nella foto a dinistra con Bruno Giorgini alla oresentazione di un altro libro)

ha scritto questa storia del Cassero, a Bologna. Il titolo è “Ha più diritti Sodoma di Marx?”. Va dal 1977 al 1982. Lo pubblica Pendragon ed è una ristampa aggiornata. Ho chiamato Beppe e mi sono fatto mandare la sua prefazione al tutto, penso sia esauriente e invogliante a leggere il suo bel testo. La pubblico nel giorno in cui Trudeau al G7 ha giustamente rimproverato Giorgia Meloni per quello che il suo governo fa sulla materia. Lei ha reagito con una smorfietta di disappunto. Farebbe meglio a uniformarsi alle democrazie. Ma ecco la prefazione di Beppe Ramina al suo libro:

“Ci fu, eccome, la presa del Cassero. A sancirla fu un contratto firmato il 24 giugno del 1982 dal Comune di Bologna e dal presidente del Circolo di cultura omosessuale XXVIII giugno Antonio Frainer, ma la questione fu tutt’altro che burocratica e scontata. Fino all’ultimo fu in bilico e i quotidiani, dal Manifesto a l’Avvenire a il Resto del Carlino, davano già per scontato che, infine, le ragioni della Chiesa cattolica e le rimostranze del cardinale Antonio Poma avrebbero avuto il sopravvento sulle nostre ragioni e che ci sarebbe stata assegnata una sede, ma altrove.
Furono necessari due anni di movimento in una città e in un paese, l’Italia, che spesso per la prima volta vedeva in faccia frocie, trans, lesbiche, come ci chiamavamo allora, che prendevano parola in pubblico e si facevano soggetto attivo, non più oggetto, della storia, con orgoglio delle proprie identità multiformi e rivendicando spazi e diritti in modo astuto, brillante e perentorio. Battendoci, assieme a una larga e significativa parte della città, contro la pretesa clericale di negarci il Cassero di Porta Saragozza di Bologna, già sede di un circolo Arci e di una polisportiva ma che mai e poi mai, sostenevano cardinali e benpensanti, sarebbe potuto venire assegnato alle checche.
Edificio con lapide nel fronte sui viali che lo dedica alla Madonna di san Luca, protettrice di Bologna. Vietato alle frocie cattive e coruttrici. Con anche un liceo, il Righi, lì vicino. E un giardino pubblico con altalene e bimbi. Roba inimmaginabile. Scandalo nello scandalo: uno spazio pubblico assegnato, per la prima volta in Italia, a un gruppetto di svergognate, notoriamente dedite a spacciare droghe, e per di più in un luogo dalla Curia considerato sacro. Da una giunta guidata dal comunista Renato Zangheri nella città, allora, descritta come la più comunista d’Europa. Non si può. La città ne morirebbe.
Eppure non ne morì, anzi. Oggi Bologna sarebbe impensabile senza l’ampia e variegata presenza lgbtqiap+ e il Cassero, tra queste, è una realtà solida, che offre servizi e socialità, cultura e fa politica, che ha saputo cambiare spesso presidentesse e direttive, pelle e politica senza essere feudo personale di questa o quel leader. Allora per la stampa fu una manna, riempirono pagine. Ne scrissero i giornali di tutta Italia, se ne scrisse in Europa, vennero le tv a documentare. Uno scandalo, una novità, una rottura culturale. Tutta Bologna – e ovunque – ne parlava. Un dibattito che coinvolse ognuno, spinse a cambiare percezioni, punti di vista, idee. Eravamo i busoni, ma ora eravamo noi a raccontarci, a dare il ritmo, a creare alleanze, innanzitutto con i movimenti femministi e con le donne, a costruire consenso, a prendere parola e a costruire il nostro agio nella storia.
Qualcuno avrebbe preferito che occupassimo quel luogo e la facessimo finita così, togliendo le castagne dal fuoco della politica che avrebbe evitato di prendere posizione e decidere, tollerando, allontanando un contrasto tutt’altro che locale tra Partito Comunista e Chiesa cattolica; altri chiesero che fossimo noi a rinunciare e saremmo state premiate con una sede prestigiosa. Ma avevamo un altro obiettivo: non il luogo (anche il luogo) ma che fosse l’amministrazione pubblica, per la prima volta in Italia, a riconoscere la nostra esistenza, umana e politica. Volemmo quel riconoscimento che non istituzionalizzasse noi e frocializzasse la politica e tenemmo il punto.
A distanza di quarant’anni si può solo immaginare quale clamore abbia accompagnato quella vicenda. Le frocie erano quelle del vizio nascosto, con lo sguardo ferito (come scrisse Allen Ginsberg a proposito della situazione precedente ai moti di Stonewall). Non c’erano Mahmood e Blanco a vincere il festival di Sanremo mettendo in scena un amore sensuale tra due ragazzi, al massimo in tv comparivano Paolo Poli e Don Lurio (non era un sacerdote, ma un coreografo e ballerino), ma nessuno lo avrebbe detto, non si percepiva la loro frociaggine, non esisteva la capacità culturale di decodificarli. Lo sguardo non ci vedeva. Allora le frocie, le lesbiche, le trans decisero che era tempo di creare il mondo. E lo fecero. In poche, senza mezzi, ma lo fecero.
Contrastando chi ci e si definiva (e, ahinoi!, tuttora si definisce e percepisce) come “una minoranza” alla quale andrebbero riconosciuti pezzi di welfare o di diritto e affermando,invece, di esprimere delle soggettività comuni a tutte le persone, ma represse, educastrate attraverso una serie di performatività imposte. Non ci battemmo solo per noi, ma cercammo generosamente di mettere in discussione ogni persona. E venne ben inteso. Perché tutte, tutti e tuttu al fondo desiderano autenticità, libertà, piacere. Rileggendo oggi questa ricostruzione ragionata di quelle vicende e l’appendice è evidente
come in quarant’anni sia mutato il contesto sociale e politico e come sia cambiata la soggettività frocia declinandosi in tanti modi diversi a partire dal linguaggio. Attualmente sono infiniti e assai stimolanti i contributi analitici e teorici e altrettante sono le declinazioni e le autorappresentazioni delle soggettività di quella che Antonia Caruso nel suo libro “LGBTQIA+” della Eris edizioni chiama la Sigla.
Il linguaggio è quello degli anni Ottanta e inizi Novanta del Novecento quando ancora una serie di questioni, di termini, di autoidentificazioni erano solo marginalmente presenti nel discorso pubblico, anche in quello delle persone lgbtqia+. Ci si riconosceva come frocie e si utilizzava il femminile estensivo senza troppo curarsi delle desinenze. Frocie, trans, lesbiche, femminelle, baffe, checche condividevano gli stessi (pochi) spazi, facevano parte di un unico e caotico movimento, partecipavano alle stesse riunioni, ai campeggi organizzati da Lambda, praticavano la democrazia diretta e non delegavano nulla.
Nel tempo molte cose sono cambiate, anche il linguaggio. Ciò che non cambia è l’irriducibilità dei desideri che riguarda ogni essere umana. E il fatto che Sodoma abbia la sua rivincita su Marx.
Infine. Esaurito da tempo – come, del resto, la gran parte dei volumi che con la cura di Stefano Casi composero la collana dei Quaderni di critica omosessuale edita dal Cassero – questa ristampa può essere di qualche utilità per le generazioni che non hanno vissuto in prima persona quell’entusiasmante, divertente e impegnativo percorso che dal 1980 al 1982 portò a ottenere la prima sede di proprietà pubblica autogestita da persone lgbtqiap+ in Italia.
Grazie alla disponibilità del Cassero, dell’editore Pendragon, Antonio Bagnoli, alle affettuose e competenti cure di Elisa Manici, al sostegno di Sara De Giovanni, responsabile del Centro di Documentazione, e di Giuseppe Seminario, presidente del Circolo il Cassero quando è stata decisa questa riedizione, a Camilla Ranauro, attuale presidentessa, è stato possibile ristampare questo volumetto a 28 anni dalla sua prima edizione.
Ringrazio Francesco Bruno, mio compagno di chiacchiere, di impegno politico e di vita, e mio figlio Milo Paolone Ramina per il sostegno che sempre mi offre con fiducia e amore.
Grazie alla vasta tribù che costituisce l’ampia, larghissima famiglia, quella d’origine inclusa, di persone variamente ribelli della quale sento di fare parte da tanti, forse troppi, anni”.

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