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Povero Pinelli: un libro ne deturpa la memoria

Non mi aspettavo certo che l’editore Castelvecchi con cui ho pubblicato il mio libro “Pinelli, l’innocente che cadde giù”  mandato in libreria con l’impegnativo sottotitolo “Dalle carte sugli Affari Riservati nuova luce su depistaggi e montature”, facesse poi uscire nella stessa collana (Nodi) un testo basato, tra tante altre convinzioni decisamente  sballate, sul coinvolgimento dell’anarchico negli attentati di cui – l’autore afferma perentorio – Pinelli “era al corrente” e sulla gratuita banalizzazione del ruolo degli Affari Riservati. E’ la convinzione da cui parte il libro di Aurelio Grimaldi “Fango. L’omicidio Calabresi e la sinistra italiana“. L’operazione è affidata a un usurato canovaccio già strapazzato relativo alla teoria delle due bombe, quella anarchica e quella stragista, teorema a sostegno del quale l’autore non rinuncia a forzature a carico degli anarchici come ha opportunamente rilevato nel suo blog sull’Huffington Post Paolo Morando, conoscitore della materia e autore del libro base sulla montatura contro gli  anarchici  “Prima di Piazza Fontana. La prova generale”.  Il giornale ha titolato la sua recensione “Arriva il cinquantenario dell’omicidio Calabresi, ecco le prime fake news”. Cioè, riferendosi al testo di Grimaldi, un libro “stracolmo di falsificazioni”.

Basterebbe sul tema anarchici quanto scritto dunque da Morando, a cui rimando (https://www.huffingtonpost.it/entry/arriva-il-cinquantennale-dellomicidio-calabresi-ed-ecco-le-prime-fake-news_it_61b07a0fe4b0f76117b5d7b8?utm_hp_ref=it-homepage), ma voglio aggiungere qualcosa anch’io nei confronti delle sgradevoli affermazioni che Grimaldi dà sul mio libro “Pinelli, l’innocente che cadde giù” relativamente al processo subito dagli anarchici nel 1971 e al suo verdetto che avrei riportato in modo “omertosino”, scrive Grimaldi. Analoghi concetti sullo stesso tema sono gratuitamente spesi contro anche Enrico Deaglio per il suo libro “La bomba. Cinquant’anni di Piazza Fontana”. Ma vediamo: quel processo grazie all’intelligenza di un pm come Antonino Scopelliti si risolse  infatti con l’assoluzione degli anarchici per le bombe del 25 aprile 1969 alla Fiera di Milano e all’ufficio italiano cambi della Stazione Centrale – le bombe “vere” per le quali saranno condannati poi Freda e Ventura – e con la condanna a pene minori per altri attentati “dimostrativi” a carico di tre imputati su otto, essendo ben cinque gli assolti. E questo è quanto ho scritto. Ma ripercorriamo sinteticamente l’iter di quel processo. I dieci imputati in istruttoria si erano ridotti a otto, col proscioglimento di Giovanni Corradini ed Eliane Vincileoni. Su otto i condannati alla fine furono dunque solo tre, Paolo Braschi, Angelo Della Savia e Paolo Faccioli. Le pene furono poi ridotte in appello, 3 anni e 2 mesi per Braschi, 3 anni e 4 mesi per Della Savia, 1 anno e 4 mesi per Faccioli. (E non  pene tra i 3 e i 7 anni come scrive invece Grimaldi che evidentemente avrebbe voluto di più). E nessuna relazione fra quel genere d’attentati e quelli già cruenti, e preparatori della strage, commessi dagli ordinovisti.

Conclusione: come si può non definire tutto ciò se non un “bigné vuoto” e il definitivo svuotamento del teorema cosiddetto anarchico?

Ma come era stata condotta l’inchiesta? E’ forse vero come afferma perentorio Grimaldi che nessun anarchico aveva denunciato violenze prima della morte di Pinelli? Le avevano denunciate, eccome, ma non era scattata nessuna inchiesta. Braschi e Faccioli ne avevano parlato con i magistrati in maggio e poi di nuovo a novembre del 1969 di fronte al giudice istruttore. In particolare Paolo Faccioli aveva messo a verbale di essere stato malmenato in Questura a Milano. E questo un mese prima della morte di Pinelli.

Tralascio poi lo svarione allarmante sulla morte di Della Savia, anarchico, liquidato dall’autore come ritrovato morto con ecchimosi sul volto. Della Savia è vivo e vegeto. Qui il problema di Grimaldi è di essersi rifocillato alla prima edizione di un libro che riportava questa fake news, senza accorgersi che poi l’autore aveva fatto sparire la circostanza nella terza edizione.

Grimaldi affezionato al suo canovaccio procede intanto a gamba tesa contro Pinelli. Eccolo alle prese con  l’alibi di Pinelli nelle ore del 12 dicembre. Non disse tutto, è vero, ma non perché c’entrasse con Piazza Fontana. Pinelli aveva omesso di parlare dell’incontro con Nino Sottosanti che era venuto a Milano per testimoniare in favore dell’anarchico Tito Pulsinelli incarcerato. In mano alla polizia era il libretto degli assegni dal quale quel giorno Pinelli aveva staccato e firmato il rimborso del viaggio di Sottosanti. Sono fatti ormai noti e stranoti su cui c’è poco da ricamare. L’autore non crede neanche alla frase riportata da Licia Pinelli quando poté finalmente parlare al telefono col commissario Luigi Calabresi e gli chiese perché non l’avessero avvertita (“avevamo cose più importanti da fare”), frase che Licia Pinelli ha confermato in aula nel corso del processo Calabresi-Lotta continua, di fronte allo stesso Calabresi e al suo avvocato che non si sognarono di smentire. Grimaldi cerca poi di scavare in eventuali responsabilità di Pinelli per le bombe ai treni dell’8 agosto 1969. Peccato che non abbia neanche visto quanto sulla materia è conservato all’Archivio Centrale dello Stato da me riportato nel mio libro. E’ un appunto in cui Silvano Russomanno, il vice di Federico Umberto D’Amato nella Divisione Affari Riservati del Viminale, constata che per gli orari del treno Milano-Roma preso da Pinelli l’ipotesi Bologna non funziona (Pinelli che scende dal suo treno alla stazione di Bologna, deposita una bomba sul treno appena arrivato da Bari e diretto a Venezia, e poi risale sul suo treno per Roma). “Tale treno – si legge nell’appunto di Russomanno – non ha potuto incrociare a Bologna il Bari-Venezia perché giunse a Bologna alle 5.16…”. L’altro proveniente da Bari, quello con la bomba, era transitato alle 2.34.

Grimaldi non se ne cura. E non si cura neanche della discesa in campo del Quirinale dodici anni fa nel Giorno della Memoria con la solenne dichiarazione del presidente Giorgio Napolitano su Giuseppe Pinelli, “figura di un innocente che fu vittima due volte prima di pesantissimi, infondati sospetti e poi di un’improvvisa, assurda fine”.  Quel giorno del 2009 Napolitano aggiunse: “Qui si rompe il silenzio su una ferita, non separabile da quella dei diciassette che persero la vita a piazza Fontana e su un nome, su un uomo, di cui va riaffermata e onorata la linearità, sottraendolo alla rimozione e all’oblio”.

Quanto agli Affari Riservati, il servizio segreto del Viminale, credo di aver riportato nel mio libro sufficiente materiale ricavato dai verbali “dimenticati” degli anni ’90 e che sono stati riscoperti per primi dall’avvocato Gabriele Fuga e dall’anarchico Enrico Maltini. Quando? Il primo libro Fuga-Maltini risale al 2013, il loro secondo al 2016, il mio al 2019. Al loro materiale io ho aggiunto anche Il verbale da me ritrovato in cui il caposezione Francesco D’Agostino spiega come Russomanno e lui sbarcarono a Milano subito dopo la strage di piazza Fontana portando la lista degli anarchici (“portai io quella lista di anarchici”). Un verbale sufficientemente illuminante.  

Come si fa allora a dire che la presenza degli Affari Riservati nella Questura di Milano in quei giorni era “nota già a suo tempo”? Quale tempo? Seppellita nel silenzio per oltre quaranta anni, quella presenza riscoperta nove anni fa propone  invece la questione di chi effettivamente gestì le indagini. Sempre a patto di voler fare i conti con l’esistente, costituito anche dalle grandi fonti a carico degli anarchici, da Rosemma Zublena (alla base del teorema anarchico) ad “Anna Bolena”, nome d’arte di Enrico Rovelli (alla base della tesi della responsabilità anarchica nella strage di Piazza Fontana). L’autore neanche li cita.

E dunque? Si continua a rimestare nella vita e nella morte di Pinelli con una sciattezza deprimente, dandolo perfino come “uscito cadavere dalla Questura”. Pinelli morì due ore dopo, all’1.50, in ospedale…

E come si fa a ritenere “legale” quel fermo durato oltre tre giorni? Grimaldi invoca l’articolo 238 del c.p.p, ma è esattamente per lo stravolgimento di quell’articolo del codice che Gerardo D’Ambrosio, la cui inchiesta è peraltro definita dal Grimaldi “impeccabile”, ha scritto nella sua sentenza parole nette sul reato commesso da Antonino Allegra. Scrive D’Ambrosio: “L’accusa mossa dalla Procura Generale al dott. Allegra, dirigente al tempo dell’Ufficio Politico della Questura di Milano, è quella di aver trattenuto, in qualità di fermato, dalla sera del 12 dicembre alla mezzanotte del successivo giorno 15, cioè per un tempo di gran lunga superiore a quello strettamente necessario per il suo interrogatorio Giuseppe Pinelli e di aver omesso di farlo tradurre, immediatamente dopo l’interrogatorio stesso, nelle carceri giudiziarie a disposizione del Procuratore della Repubblica, agendo in aperta violazione di quanto disposto dall’ari. 238 c.p.p.2 e quindi con abuso dei poteri inerenti alle sue funzioni di Ufficiale di P.G. Non v’è dubbio che il dott. Allegra commise i fatti a lui addebitati”. Più avanti D’Ambrosio ha aggiunto: “Non solo, ma non può mettersi in dubbio che egli (Allegra ndr), violando l’art. 238 c.p.p., abusò ancora dei propri poteri allorché dispose che il Pinelli venisse trattenuto in Questura, dopo aver appreso della deposizione resa da Gaviorno Pietro e del nuovo interrogatorio reso dal Pinelli al dott. Pagnozzi”. E ancora: “Egli quindi non poteva in quel momento ignorare che Pinelli era ormai fermato da più di 48 ore, termine massimo entro il quale la Magistratura doveva essere messa in grado, a norma dell’art. 238 c.p.p., di verificare la legittimità del fermo”.

Un reato dunque che nel dispositivo della sentenza viene comunque riassunto così da D’Ambrosio: “Ciò posto osserva che l’azione penale per tale reato non può più essere esercitata. Esso infatti è rimasto estinto per effetto dell’amnistia concessa con D.P.R. 22-5-70 n. 283”.

Reato estinto dall’amnistia, altro che fermo legale. Ma lasciamo perdere. L’ideologia fa brutti scherzi. Ripercorrendo la campagna contro il commissario Calabresi su cui l’autore non può avere novità essendo già stato detto di tutto ivi compresa la netta acquisizione della presa di distanza dalle parole più sbagliate e l’assunzione di responsabilità che Grimaldi non può negare, si prendono comunque  a bersaglio via via oltre a Lotta continua tutto il ’68, l’Espresso, Camilla Cederna, Leonardo Sciascia ecc. Per la qualità di questa diffusa requisitoria vorrei citare soltanto come l’autore riferisce della morte dell’agente del reparto celere Antonio Annarumma avvenuta durante una manifestazione a Milano nel 1970. L’ha già osservato anche Morando. Ma vale la pena leggere quanto scritto da Grimaldi. “Muore l’agente Antonio Annarumma di appena 22 anni…Chi ha sparato? Qualcuno di sinistra…In questa guerriglia civile qualcuno irrimediabilmente di sinistra ha sparato e ucciso…”.

L’agente Annuramma morì per essere stato colpito da un tubo di ferro prelevato da un cantiere e lanciato nel corso della manifestazione. Si era discusso a lungo però se la jeep col giovane agente non fosse andata a sbattere contro l’impalcatura di tubi. Al processo si precisò il diametro (48 mm) del manufatto. Come si fa scrivere che era stato ucciso da un colpo d’arma da fuoco? Piove sul bagnato e tralascio tutto il resto di questo libro compilato così…

Tra pochi giorni è un nuovo 12 dicembre a cui seguirà un altro 15 dicembre. A Milano ci saranno iniziative e celebrazioni. La memoria va difesa. Un abbraccio ai partecipanti. E un abbraccio a Licia, Claudia e Silvia Pinelli in particolare.

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