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Il milite ignoto, l’invenzione del colonnello Douhet

Gli undici militi ignoti

Mentre l’Italia usciva faticosamente dalla Grande Guerra il colonnello Vincenzo Paladini di Onorcaduti (l’Ufficio centrale delle cure e onoranze ai caduti in guerra), con un seguito di 150 ufficiali e di 35 cappellani oltre a settemila soldati, si mise alla testa di una vasta opera di ricerca delle salme insepolte e di una più generale operazione riordino dei cimiteri di guerra esistenti. Erano 760 i cimiteri da dismettere, altri 1400 quelli da ampliare, 30 quelli da fare nuovi di zecca. Furono così recuperate 70 mila salme sepolte al di fuori delle aree cimiteriali segnalate dai cappellani militari, altre 150 mila furono estumulate da piccoli cimiteri di prima linea e trasportate in altri cimiteri più facilmente raggiungibili, circa 200 mila sepolture vennero assestate e ad oltre duemila tombe di senza nome venne dato un nome. E tutto il resto? I senza nome rimasti tali andarono a far parte della categoria “dispersi”. E questo era stato il lavoro preliminare.Fu un colonnello dell’aeronautica, Giulio Douhet, a farsi venire l’idea di decretare solenni onoranze a un soldato senza nome in rappresentanza un po’ di tutti i caduti. Una riedizione in termini militari e nazionali dell’everyman di medievale e più pietosa tradizione.Il paese in effetti stava contando i suoi infiniti morti, i 680 mila deceduti in guerra dell’elenco ufficiale, e non c’era comune che non stesse costruendo il suo monumento ai caduti con liste sterminate di concittadini scomparsi. Quelle pietre un po’ annerite sono lì nelle piazze d’Italia con i loro ordini alfabetici di povera gente morta al fronte.Ed ecco all’improvviso questa idea di Douhet. Era il luglio 1920 e l’ex colonnello di origine nizzarda, da poco riabilitato dopo la condanna a un anno di prigione poi scontato nel carcere militare di Fenestrelle nel 1916 per aver passato all’on Bissolati notizie contro il comandante in capo Luigi Cadorna, aveva raccolto unanimi consensi nel corso di una riunione dell’Associazione Reduci con la sua proposta considerata “splendida”: onorare un soldato sconosciuto qualunque in rappresentanza di ogni soldato del Paese. Douhet ce l’aveva certamente ancora con Cadorna, non aveva mai mandato giù il disinvolto modo con cui l’ideatore delle decimazioni per far osservare la disciplina aveva poi addossato il disastro di Caporetto – l’aveva scritto in quel famoso Bollettino – più ai soldati che alle negligenze e alle manchevolezze invece del Comando supremo. Douhet spiegò infatti in quei giorni su “Il Dovere” che la vittoria era venuta dal soldato italiano “gettato nudo ed inerme contro il cemento armato ed il filo d’acciaio, a far da facile bersaglio alle armi nemiche”. Douhet era un ufficiale d’aviazione, nutriva un’altra concezione della guerra, diciamo più cavalleresca, meno carneficina di massa. La sua attenzione al povero soldato carne da macello ed eroe simbolo da riscattare piacque subito innanzitutto alle organizzazioni combattentistiche e patriottiche ma anche oltreconfine a una serie di paesi (Francia, Belgio, Inghilterra e Stati Uniti) che la fecero propria e la realizzarono a tempi di record ancor prima che il Parlamento italiano legiferasse in proposito.La proposta di legge fu presentata infatti nell’agosto del 1921, relatori al Senato il senatore Del Giudice e alla Camera Cesare De Vecchi. L’11 agosto il provvedimento – diventato la legge 1075 – veniva promulgato, al ministro della Guerra veniva demandata la definizione di come procedere. In quel gabinetto retto dal socialista Ivanoe Bonomi il ministro era Luigi Gasparotto, interventista ed ex combattente.originario di Sacile in Friuli.Il ministro costituì subito un Ufficio dedicato e inviò una lettera al Comando del Corpo d’Armata di Trieste e all’Ispettore per le onoranze alle Salme dei caduti di Gorizia. Per conoscenza le disposizioni furono inviate anche a tutti gli Alti Comandi Militari e ai sindaci di Udine e di Aquileia.A presiedere la Commissione fu chiamato il tenente generale Giuseppe Paolini, Ispettore per le Onoranze ai Caduti di Gorizia nonché una delle 367 medaglie d’oro assegnate durante il conflitto. Suo braccio destro era il colonnello Vincenzo Paladini. Partecipavano al lavoro di ricognizione l’ufficiale medico maggiore Nicola Fabrizi e il cappellano militare don Pietro Nani. Il sindaco di Udine secondo la legge era chiamato poi a designare quattro militari che dovevano completare la commissione. I nomi, si apprese in seguito, gli erano stati “caldeggiati” dal ministro Gasparotto. Erano il tenente degli Arditi Augusto Tognasso, di Milano (mutilato con trentasei ferite), il sergente Giuseppe De Carli di Azzano Decimo (medaglia d’oro), il caporal maggiore Giuseppe Sartori di Zuliano (medaglia d’argento e di bronzo), il soldato Massimo Moro di Santa Maria di Sclaunicco (medaglia d’argento).Le ricerche dovevano essere condotte “nei tratti più avanzati” dei principali campi di battaglia: San Michele, Gorizia, Monfalcone, Cadore, Alto Isonzo, Asiago, Tonale, Monte Grappa, Montello, Pasubio, Caposile. In ogni campo doveva essere riesumata la salma di un caduto non identificato. Le undici salme dovevano essere sistemate in casse di eguali dimensioni fatte allestire a Gorizia e poi entro il 27 ottobre traslate nella cattedrale di Aquileia.Ad Aquileia la madre di un caduto in guerra avrebbe scelto il “milite ignoto” indicando una delle undici casse. La cassa scelta doveva essere popi rinchiusa in una di zinco e il tutto infilato infine in una terza cassa di legno lavorato. A quel punto il feretro sarebbe stato trasportato su un apposito convoglio ferroviario a Roma. Le altre dieci casse sarebbero invece rimaste ad Aquileia dove poi il 4 novembre in contemporanea con la cerimonia di Roma sarebbero state tumulate nel camposanto retrostante la basilica. A Roma la cerimonia prevedeva un passaggio da Santa Maria degli Angeli e poi il trasporto fino al Vittoriano in quel 4 novembre del 1921, terzo anniversario della vittoria. Già il Vittoriano: il posto del Milite Ignoto sarebbe stato quel mausoleo finora inutilizzato, quello costruito con grande lentezza a partire dal 1884 su progetto dell’architetto marchigiano Giuseppe Sacconi e inaugurato finalmente nel cuore di Roma nel 1911, rimasto da allora vuoto. Poco importava ora che sul suo progetto si fossero scannati decine di architetti e che sull’esecuzione gravasse l’ombra nepotista di Zanardelli che al vicino ed economico marmo “peperino” delle colline intorno a Roma aveva preferito il “botticino” assai più costoso fatto venire dalla “sua” Brescia.In quel Mausoleo imponente che era infilato nel centro Roma dove mettere però il feretro del soldato sconosciuto? Il generale Fochetti incaricato dal ministro studiò allora il Vittoriano e ne ricavò quattro possibili sacelli, due interni (che vennero esclusi proprio perché interni al monumento) e due esterni. Uno era tra le statue che rappresentavano le città liberate – poi sostituite da are -, l’altro che alla fine prevalse era ai piedi della statua della Dea Roma. E lì sotto sarebbe finita la cassa del soldato sconosciuto, dietro una lastra di marmo “botticino” con su scritto in latino “Ignoto Militi”.Ora però bisognava trovare i soldati. Il 3 ottobre iniziarono le ricerche. Il tenente Tognasso ne tenne un prezioso diario, da cui sono ricavate anche queste successive note.La Commissione partì dunque dalla zona di Rovereto. Si cercò in giro, fuori dei cimiteri, ma non furono trovati soldati ignoti insepolti. Allora si riesumò una salma di ignoto nel cimitero di Lizzana che guarda verso la Val Lagarina. Su 7849 caduti, gli ignoti di quel camposanto erano ben oltre 3800.Scavarono e alla fine apparve un fante con la divisa addosso e le giberne. Don Nani benedì la salma, che fu poi introdotto in una cassa di legno. Per cuscino sotto la testa gli furono messi da un soldato alcuni ramoscelli di abete. Il feretro fu avvolto nel tricolore e portato via.Poi via via furono riesumati gli altri dieci che mancavano all’appello. Il secondo milite fu cercato sul Pasubio, in un piccolo cimitero non molto distante da Porte del Pasubio, dove la Commissione andò a scavare tra le 164 tombe esistenti. Il terzo fu trovato sull’Altiopiano di Asiago, sul monte Ortigara, dove c’erano tredici cimiteri di guerra. Ma il soldato ignoto fu scelto tra due salme che riparate da un groviglio di filo spinato erano rimaste insepolte: ne fu scelta una, forse fu tirato a sorte tra i due corpi. Per il quarto soldato si andò sul Monte Grappa. Non c’era ancora il Mausoleo, solo una dozzina di piccoli cimiteri. Ma la salma venne fuori di nuovo da una tomba isolata, in una valletta, la cassa poi fu portata giù a dorso di mulo. La quinta salma era sul Montello, stavolta proveniente dal cimitero di quota 176 di Collesel delle Zorle. Dal territorio del Piave venne la sesta e di nuovo da un cimitero, quello di Ca’ Gamba. A quel punto con sei casse la commissione fece sosta a Udine. Poi la ricerca riprese e la settima salma fu cercata nel Cadore, in un altro piccolo cimitero non distante da Cortina d’Ampezzo. Le sette salme raggiunsero Gorizia. Ora si poteva puntare all’Alto Isonzo e in particolare al Monte Rombon, che restituì l’ottava salma nascosta dietro una parete di roccia. Fu il Monte San Michele a fornire la nona salma, quella di un soldato sepolto sotto un piccolo strato di terra con in mano ancora il moschetto. Le ricerche per la decima salma furono condotte nei pressi di un ossario nella zona di Castagnevizza del Carso. Il soldato era ricoperto da una piramide tronca di pietre. L’ultimo soldato sconosciuto venne dalle fonti del Timavo. A farlo individuare fu un pezzo di elmetto che fuoriusciva dal terreno. In realtà quel soldato era sepolto in una sorta di fossa comune, con una decina di altri commilitoni. La Commissione provvedette allora a dare sepoltura a tutti. Era il 24 ottobre e la ricerca era finita. A questo punto bisognava scegliere tra gli undici resti. La scelta sarebbe stata compiuta dalla madre di un caduto. Certo, ma quale mamma prescegliere? Circolarono allora i nomi di una friulana, Anna Vicentini vedova Feruglio, due figli e un genero caduti. Poi si accennò a una livornese indigente che scomparso il figlio era andato a cercarlo tra centinaia di esumazioni, nei cimiteri del fronte, ma invano. Poi si ipotizzò una popolana di Lavarone. La scelta infine cadde su una triestina, che aveva perso il suo unico figlio. Era Maria Bergamas, madre di Toti che aveva disertato l’esercito austriaco per arruolarsi in quello italiano e ed era andato a morire il 18 giugno 1916 sul Monte Cimone. Il suo corpo però non era mai stato identificato, anche Toti Bergamas era diventato un milite ignoto. Forse il suo corpo, così pensavano nella sua famiglia, era stato sepolto nel bosco delle Marcesine, solo che quel piccolo cimitero era stato poi sconvolto dai tiri dell’artiglieria austriaca. E così chi meglio di sua madre, la mamma di uno scomparso, avrebbe potuto indicare la cassa giusta?Venne quel giorno. Il 28 ottobre appena terminato il rito religioso Maria Bergamas avanzò da sola sotto la navata della cattedrale di Aquileia gremita come non mai. Era diretta verso le undici casse allineate di fronte all’altare. La donna avanzava oscillando sul corpo vestito di nero e prese a passare in rassegna i feretri. Quando arrivò davanti alla penultima cassa, la decima, lanciò allora un grido, pronunciò il nome del figlio, poi si inginocchiò ad abbracciare il feretro. La scelta era compiuta. Il convoglio ferroviario col Milite Ignoto impiegò quattro giorni per arrivare a Roma dove fu accolto il 1° novembre con oltre 1500 corone depositate sul treno stazione dopo stazione (120 le soste effettuate) nel viaggio dal nord alla capitale.La cerimonia finale avvenne il 4 novembre. Le bande, i Savoia, i gerarchi e tutti gli alti gradi militari, i decorati, le bandiere dappertutto, solo il cielo sembrava non collaborare granché perché rimase coperto tutto il giorno. Fu suonata anche l’Ave Maria di Gounod. Salve di artiglieria furono sparate da tutti i forti di Roma. A Piazza Venezia il re e la corte furono accolti dal governo, Ivanoe Bonomi in testa. Non era previsto nessun discorso. Quando l’affusto di cannone con la bara arrivò ai piedi del Vittoriano furono ordinati l’”attenti”ed il “presentatarm”. Le regine (Elena e la Madre) e le principesse piangevano. Il feretro fu infine infilato nel sarcofago approntato, mentre i tamburi rullavano.Alle 10,36 del 4 novembre 1921 il sacello fu finalmente chiuso.Il re chiese allora al generale Paolini se il segreto del luogo da cui era stata prelevata la salma era da ritenersi ben custodito. Il generale rispose che al corrente c’era solo un militare, il tenente degli arditi Augusto Tognasso. Allora il re lo avvicinò chiedendogliene conto. Ma Tognasso gli rispose: “Mi dispiace, ma ho dato la mia parola di ufficiale”.Ivanoe Bonomi scrisse poi che la cerimonia del milite ignoto aveva provocato “la trasformazione spirituale della Nazione, perché non imprecava più contro tutto ciò che le ricordava la guerra, ma si raccoglieva commossa e riconoscente attorno ai suoi morti”.Il Corriere della Sera il 1° novembre del 1921 annotava sull’ala di popolo che a Roma aveva accolto il carro-feretro: “E’ sfilato tra due ali di gente prona, tra cui erano i fascisti in giubba nera, cattolici con il nastrino tricolore…e socialisti con i distintivi della falce e martello”. Il quotidiano socialista “Avanti!” ricordava a sua volta il 4 novembre 1921 che quel milite ignoto era certamente un proletario e l’articolista se la cavava con l’invito: “Onoratelo maledicendo la guerra!”.(Da “Eroi e poveri diavoli della Grande Guerra” di Paolo Brogi, Imprimatur, 2015)

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