Quand’è che l’Olivetti è di fatto scomparsa dalla balconata d’onore del capitalismo internazionale? Quando è scattata la sua eclisse?
Una mostra alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, concepita per illustrare i successi dell’azienda, serve però anche a riproporre alcuni grandi interrogativi.
L’Olivetti era certamente all’avanguardia nell’office automotation e nello sviluppo dei computer quando qualcosa all’inizio degli anni ‘60 cominciò ad andare di traverso…
Una interpretazione della crisi Olivetti scarica sul buon Adriano, fautore di un capitalismo di comunità e dal volto umano, l’elemento di debolezza che avrebbe poi minato l’azienda decretandone la caduta.
Olivetti che puntava a rapporti sociali “umani” e a salari accettabili era certamente assai diverso dai capitalisti che gli succedono, a partire da quell’Eugenio Cefis poi a capo della neonata Montedison che qualcuno pone al vertice della P2, anzi come il vero vertice nascosto dietro il prestanome Gelli.
Ma non è questa la ragione della crisi improvvisa dell’Olivetti all’inizio degli anni ’60. Non è il capitalismo buono a farla inceppare…
In realtà il ridimensionamento dell’Olivetti è riconducibile a poche mosse strategiche che vanno ricordate.
La prima mossa: le banche chiesero all’improvviso il rientro dei capitali prestati all’Olivetti. Perché?
Nel 1962 la presidenza Kennedy aveva notato l’intraprendenza di questi italiani che avevano il predominio dell’office automation nel mondo e miravano al controllo dell’elettronica per entrare nell’era informatica. In Italia addirittura si puntava a elaborare il primo personal computer, qualcosa di maneggevole al posto dei grandi complessi informatici esistenti allora. Questo riferivano allarmati i servizi alla presidenza Usa.
Inoltre non sfuggiva a Kennedy che in Italia si stessero per formare i primi governi di centrosinistra. Detto fatto: le banche italiane furono mobilitate a chiedere alla Olivetti Divisione Elettronica il rientro immediato dei capitali. L’Olivetti fu così costretta a “svendere” alla General Electric la sua Divisione Elettronica, con tutta la rete di assistenza. Ma a precedere questa situazione ci fu un altro fatto assai grave, un’altra mossa:
la morte in un incidente stradale, dell’ingegnere Mario Tchou, un grande ricercatore geniale che stava elaborando per conto di Olivetti il primo personal computer della storia. Tchou morì nell’auto su cui viaggiava e che si scontrò con un grosso furgone. Il suo lavoro fu poi continuato da Pier Giorgio Perotto, che dopo l’ingresso della General Electric riusci comunque a ritagliarsi un piccolo spazio in cui continuare a lavorare. E fu da lì che poi uscì il P101. Ma ormai il mercato era dominato dall’americana Ibm…
Mario Tchou
La morte di Mario Tchou fu un incidente? Solo un maledetto incidente? Mario Tchou aveva preso le mosse dal laboratorio di Ricerche Elettroniche Olivetti di Pisa, situato in una villa nel quartiere di Barbaricina. Il laboratorio era diretto da lui.
Tchou era nato a Roma nel 1924, da un cinese funzionario dell’ambasciata presso la Santa Sede e da una inglese, aveva studiato al liceo Tasso, poi era diventato ingegnere, si era specializzato negli Stati Uniti, era infine approdato all’Olivetti nel 1954.
Nel laboratorio di Pisa aveva coordinato la messa a punto della “macchina zero”, ovvero il prototipo dell’Elea 9003, poi aveva preso a studiare i passaggi verso il personal computer, studi proseguiti a Borgolombardo dove il gruppo di ricerca si era trasferito nel 1960. Non fece in tempo a concludere il suo lavoro. Il 9 novembre 1961 a Santhià la sua vita fu stroncata di colpo, a soli 37 anni. Con lui morì anche l’autista, che stava effettuando a quanto pare un sorpasso. Pochi mesi prima era comunque morto per un infarto anche Adriano Olivetti.
Certo è che in poche mosse l’Olivetti si ritrovò in ginocchio. In poco tempo il mercato mondiale dell’informatica sarebbe passato definitivamente di mano, finendo all’Ibm. Lo sarebbe restato per oltre un decennio. La ricostruzione di quella fase capitalistica in Italia, che ha visto amputare in rapida successione tutte le valenze autonomistiche dall’Olivetti all’Eni di Mattei (morto di lì a poco in un altro incidente, stavolta aereo), è ancora tutta da fare. Un fatto è certo: si trovarono di colpo a prevalere dentro il capitalismo italiano le forze “atlantiche” in rappresentanza della prepotenza Usa con cui i capitalisti tradizionali, dagli Agnelli ai Pirelli, si misero rapidamente a rapporto. L’autonomia del capitalismo italiano era tramontata.
Nella foto il gruppo di ricerca dell’Olivetti guidato da Mario Tchou:
(da sinistra a destra e dal basso in alto): in prima fila: Giancarlo Galantini, Giorgio Maddalena, Giorgio Sacerdoti, Mario Tchou, Ettore Sottsass Jr.; in seconda fila: Remo Galletti, Franco Filippazzi, Edmund Schreiner, Paolo Grossi, Giuseppe Calogero; in terza fila: Gianni Bertolini, Giampiero Riannetti, Pier Giorgio Perotto, Gianfranco Raffo, Sergio Benvenuti; in quarta fila: Sergio Sibani, Martin Friedmann, Simone Fubini, Mariano Speggiorin, Sante Caenazzo; in quinta fila: Douglas Webb, Ottavio Guarracino, Giuseppe Tarchini, Amedeo Cerrai, Lucio Libero Borriello, Albano Guzzetti