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La guerra e la sofferenza mentale: in Vallarsa nel Trentino il 22 agosto a Sant’Anna

La sofferenza mentale e la guerra. Col mio “Eroi e poveri diavoli della Grande Guerra” partecipo il 22 agosto all’incontro del Festival “Tra le rocce e il cielo” che si svolge in Vallarsa, Trentino.

La conferenza di sabato 22 agosto delle ore 15.00 si svolgerà al Teatro di S. Anna e ha per titolo “Sopravvivere al trauma, la sofferenza mentale dalla Grande Guerra ai conflitti di oggi”. Intervengono con me Manuela Bailoni, Gregorio Pezzato, Brian Ramsey, Andrea Scartabellati, Max Scudeler, Lazlo Urban. Coordina Nicola Spagnolli, introduce Giuseppe Ferrandi. L’iniziativa è promossa col Museo Storico del Trentino e la Cri. A seguire la proiezione del film “Scemi di guerra”, presente l’autore Enrico Verra.

Domenica 23 al mattino presentazione dei libri sulla Grande Guerra a Forte Pozzacchio che si raggiunge a piedi in 20 minuti lungo una strada di montagna non impegnativa.

VettoriWEB

 

 

Qui di seguito ripropongo il capitolo del mio libro sui soldati finiti negli ospedali psichiatrici. La ricerca è relativa al “manicomio” di Cogoleto, in Liguria.

 

Scemi di guerra

 

“Ero sfinito, ma non riuscivo a prendere sonno. Il professore di greco venne a  trovarmi. Egli era depresso. Anche il suo battaglione aveva attaccato, più a sinistra, ed era stato distrutto, come il nostro. Egli mi parlava con gli occhi chiusi. – Io ho paura di diventare pazzo, – mi disse. – Io divento pazzo. Un giorno o l’altro, io mi uccido. Bisogna uccidersi. Io non seppi dirgli niente. Anch’io sentivo delle ondate di follia avvicinarsi e sparire. A tratti, sentivo il cervello sciaguattare nella scatola cranica, come l’acqua agitata in una bottiglia…”.

E’ questo passaggio di Emilio Lussu, in Un anno sull’Altipiano, a fotografare lo stato d’animo più diffuso tra i soldati della Grande Guerra. E ad annunciare quello che sarebbe stato il tragico esito  per decine di migliaia di loro, di tutti quelli che non hanno retto a quell’immane stress, scivolando nella follia da guerra.

La follia da guerra, un fenomeno a lungo nascosto e dimenticato che ha colpito gli eserciti di tutte le nazioni in guerra, con un numero impressionante di malati mentali che è stato quantificato in altri paesi (313.399 in Germania, 80 mila in Gran Bretagna di cui poi 30 mila internati nei manicomi, 97.556 per gli Stati Uniti entrati in guerra solo nel ’17…) ma che in Italia non è mai stato quantificato ufficialmente anche se per molti storici gli “scemi di guerra”, termine coniato allora per definire il fenomeno, sarebbero almeno 40.000 se non di più.

Il  fenomeno che è conosciuto anche come shell shock, dall’impatto devastante che lo scoppio di una granata nelle vicinanze poteva lasciare nella testa di un soldato, fu all’inizio gestito a mezzadria con le manifestazioni della simulazione che insieme a quelle dell’autolesionismo da guerra venivano contrastate con ferocia dall’organizzazione militare. Prima di prendere atto che i poveri alienati di trincea troppo spesso non simulavano un bel niente ci sono voluti lunghi mesi.

Alla fine, nel primo dopoguerra, era già il 1920, l’alienista Giuseppe Pellicani, docente a Bologna di malattie nervose, avrebbe ammesso: “Il numero di alienati è stato superiore ad ogni previsione”. E sì che già dalla guerra in Libia c’era stato chi come Gaetano Funaioli aveva messo in guardia sui traumi da guerra. Ma già nella guerra russo-giapponese il fenomeno doveva essere particolarmente visibile se si rileggono le parole di Leonid Andreev in Il riso rosso: “Fantasmi laceri e lugubri attraverso le colline, andando innanzi e indietro, in tutte le direzioni, senza uno scopo, senza un asilo. Fanno dei gran gesti, ridono, schiamazzano, cantano e quando li incontriamo vogliono battersi oppure non vedono nessuno e passano…”.

Nella Grande Guerra il problema di fondo, per l’alto Comando italiano e per le sue ramificazioni, soprattutto in epoca Cadorna quando la truppa era assimilabile a semplice carne da macello, era di riavere al fronte al più presto questi soldati “malati” perché la trincea era lì con la sua vorace necessità di soldati da utilizzare nelle azioni, un bisogno impellente e continuo nei 42 mesi della guerra.

Gli stessi psichiatri non militari che pian piano andavano raccogliendo dall’organizzazione psichiatrica militare questa crescente massa di soldati alienati si trovavano in difficoltà nel riconoscimento delle varie forme di malattia mentale che si presentavano con questi giovani soldati, perlopiù contadini, in preda a profondi sconvolgimenti irriferibili e spesso sprofondati nel mutismo e nell’afasia, compresi lo stupore, la sitofobia, i tic di ogni genere, l’insonnia prolungata, la demenza, gli istinti suicidi e il totale disinteresse per l’ambiente.

I medici oscillavano nelle loro teorie tra l’’invocazione di una certa predisposizione alla malattia mentale da parte dei soggetti interessati e la sconvolgente novità di nuove sindromi derivanti dagli effetti devastanti della guerra finora mai visti in questi termini.

La pressione dei comandi militari che di continuo bombardavano le direzioni dei manicomi con richieste imperiose di chiarimento su questo o quel ricoverato contribuivano a rendere ancor più difficile il lavoro degli psichiatri negli ospedali italiani e a spingerli verso soluzioni non sempre corrette, compresa la dichiarazione di “non alienato” appioppata alla fine a questi nuovi pazienti giunti dal fronte. Un modo come un altro di sbarazzarsene.

C’erano stati poi direttori di manicomio, come a Roma Giovanni Mingazzini, che erano stati oggetto di violentissime campagne denigratorie con l’accusa di “disfattismo” per l’alto numero di riformati tra i loro assistiti. Contro Mingazzini, illustre neuropatologo e professore sia alla Sapienza che alla Gregoriana, era sceso in campo Napoleone Colajanni interventista che lo aveva accusato per il suo lavoro sugli internati militari, dicendo in sostanza di stare dalla parte degli imboscati. Nella polemica Mingazzini era stato accusato peraltro di avere rapporti con professori esteri (nemici) e di essere ammogliato con una tedesca. Benedetto Croce aveva risposto in merito avvertendo il fronte interventista di lasciar stare mogli e amanti, che era meglio per loro…

 

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Mi sono ricordato di tutto questo quando nella primavera del 2014 ho visitato l’archivio dell’ospedale psichiatrico di Cogoleto, Genova, il manicomio ligure che durante la Grande Guerra ha rivestito con altre strutture analoghe del nord del paese un ruolo dedicato e rilevante, fingendo da  snodo sanitario per questa crsecente truppa di matti da trincea.

Ho trovato scatoloni in cui sono conservati falconi di cartelle poco o niente consultate, salvo qualche ricerca che Antonimo Gibelli ha fatto in passato per il suo L’officina della guerra.

E sono entrato in un territorio di sofferenza finora poco indagato come lo è stato in generale tutto il delicato fronte dei malati di mente prodotti dal fronte: poche le ricerche sulla materia, a parte lo storico La follia e la fuga, nevrosi di guerra, diserzione e disobbedienza nell’esercito italiano 1915-1918 della storica Bruna Bianchi, anche se di recente si registrano studi come la recente pubblicazione sul manicomio di  Teramo che accolse 260 soldati, Ammalò di testa., Storie del manicomio di Teramo 1880-1931, di Annacarla Valeriano, o “Scemi di guerra”, la bella tesi di dottorato all’università di Parma di Ilaria La Fata sul manicomio di Colorno, pubblicata sul web, che richiamo più avanti, o ancora lo studio sugli internati militari di Roma da parte di Lisa Roscioni e Luca Des Diorides, Il manicomio e la Grande Guerra.

L’archivio di Cogoleto è conservato a Genova in un capannone della Scuola Edile di Sampierdarena ed è gestito da una società di backoffice sotto la direzione dell’Asl.

Visitarlo ed occuparsi delle cartelle tra il 1915 e il 1918 è come ripiombare in un lontano passato di grande sventura, dove s’intuiscono tutti i limiti del tempo, dalla prepotenza del sistema militare in quel momento in guerra alla difficoltà della scienza medica ad inquadrare correttamente la malattia di nuovo tipo.

Fa innanzitutto impressione vedere che cosa contengono i faldoni fino al 1914 e quelli invece degli anni della Grande Guerra. Nei primi si trova la documentazione di una serie di ricoverati affetti per lo più dalle malattie legate alla povertà e alle condizioni sociali più disagiate, dall’alcolismo alle demenze di vario tipo, con particolare affluenza di malati dal territorio rurale.

Il panorama che si affaccia col 1915 ed esplode l’anno successivo, il 1916, è quasi interamente invece all’insegna di una nuova leva di malati mentali, i soldati provenienti dal fronte, giovani e giovanissimi, che vanno ad occupare con le loro nuove cartelle la quasi totalità degli incartamenti riducendo in un angolo i casi di alienazione tradizionali che il mondo rurale e contadino continuavano comunque a produrre.

Maggio del 1916, ecco la data di ricovero di Giovanni G., contadino, soldato, un caso indefinibile tanto che il direttore scriverà al questore di Genova, il 6 giugno del 1916, che il soldato “è in uno stato confusionale tale che è impossibile avere da lui alcuna notizia…”-. E’ la cartella 197 di quell’anno.

Il marasma. Difficilmente decifrabile. Lo scrivono i medici dell’Ospedale di Savona che mandano a Cogoleto il fante Giustino C., un emiliano del 58° Fanteria. “Ha manifestato propositi di suicidio, ha contegno strano…”. Insomma vedete voi.

La diagnosi di Cogoleto prende forma così: “Sindrome isteroide, crisi depressive, emotività, impressionabilità esagerata, suggestionabilità…”. Di questo ricoverato s’interessa un deputato, da Roma, che chiede notizie. L’Ufficio notizie per le famiglie dei militari di terra e di mare, la sottosezione del suo paese nel modenese in Emilia, presenta varie istanze. Scrivono anche i suoi. Resta questo quadro complicato, per cui il paziente sarà  poi dimesso in novembre. Si ignora diretto a dove.

Altrettanto complesso è il quadro proposto dal siciliano Omero P., cameriere, arrivato il 4 giugno 1916, che sul più bello scrive alla madre chiedendo dal manicomio se gli può inviare dalla Sicilia “due maiali, una capra per il latte e due agnelli perché sto matto. Ti faccio sapere che mi sono messo in mezzo a delinquenti…”.

La cartella contiene le lettere allarmate dei genitori, la richiesta del prosindaco del suo paese nel messinese e poi le parole del direttore, che mostrano un certo impaccio nel descrivere la situazione mentale del giovane: “Sindrome amenziale (demenza precoce) che si va svolgendo da tempo, alla quale sarebbero da attribuirsi la sua strana condotta e gli atti stravaganti, anche pericolosi, segnalati nei vari ospedali nei quali fu in osservazione e durante la licenza passata in patria. Durante il periodo di osservazione trascorso qui presentò leggeri stati di eccitamento psichico, manierismi verbali, delirio fatuo di grandezza. E’ tuttora indifferente all’ambiente, non mostra nessun interesse alla famiglia, si riterrebbe inadatto al servizio militare…”.

Il condizionale tradisce la cautela del medico psichiatra, che avverte sul collo il fiato delle richieste dei vari organismi militari, continue per ogni ricoverato. Il povero Omero non è da meno, anche se invece di un salame ha chiesto due maiali ai suoi, forse l’unico modo che ha lì a Cogoleto di ricostituire nella sua mente il mondo dal quale è venuto e che cerca di ricreare intorno a quel sé così circondato da esseri strani (delinquenti, dice).

Ma il condizionale è d’obbligo in queste conclusioni anamnestiche dello psichiatra.

Come per Giuseppe R, bresciano, arrivato il 25 giugno del ’16.

“E’ in stato melanconico – scrive il direttore del paziente cartella 223 -, caratterizzato da depressione sentimentale,  episodi di ansia, idee deliranti di autoaccusa, di spossesso, allucinazioni uditive, insonnia…Non si riterrebbe prudente il ritorno al servizio militare e si giudicherebbe prudente la riforma…”.

Il condizionale comunque deve aver vinto perché poi Giuseppe fu trasferito al manicomio di Brescia.

Per Giacomo P., inviato poi al manicomio di Alessandria, il problema non si pone perché, ricorda  stavolta il vicedirettore del manicomio, il soldato non appartiene più all’esercito dato che “è stato riformato il 5 agosto del 1916”.

Le sue condizioni vengono così descritte: “Stato depressivo caratterizzato da umore solitamente triste, taciturnità, impressionabilità, facilità di pianto, cefalee ecc”.

E’ riformato anche Angelo B., contadino, dell’189 Battaglione M.T. Arrivato da Firenze sarà poi inviato al manicomio di Quarto dei Mille. In che stato versava?

“E’ sitofobo – si legge nella sua cartella -, sudicio, ha stato ansioso, presenta disturbi neuropsichici a carattere maniaco depressivo, è sempre depresso e preoccupato, tardo nel prendere il cibo”.

A Luigi A., carrettiere, dell’84° Fanteria, ricoverato il 25 giugno ’16, devono mettere la sonda per alimentarlo. “Non ha mangiato il caffè e latte – si legge nel suo resoconto nosografico -, non risponde alle domande, passa notti inquiete, emette grida di quando in quando, si lamenta…”. Il 26 settembre: “Ha tendenze suicide, mutacismo, umore triste”. Il direttore chiede una prima proroga per lui, torna a chiederne un’altra finché il fante non viene riformato il 9 ottobre. Già, le proroghe. Perché? Segno evidente che questi malati venivano affidati temporaneamente dai comandi militari. La cartella contiene solo schede con le richieste di proroga. Il 24 luglio del ’17 sarà finalmente dimesso per quattro mesi. Poi non se ne sa più nulla.

“E’ totalmente passivo – scrivono anche di Giuseppe Z:, del 78° Fanteria di Bergamo, ricoverato il 2 giugno ’16 -, tanto che occorreva stimolarlo perché prendesse gli alimenti…”.

Prima di rinviarlo al manicomio di Bergamo il direttore butta giù un’anamnesi storica, dice che il giovane “è caduto in un fiume da ragazzo, sconcertato tanto da ritenersi quasi scemo….”. A Cogoleto ha mostrato poi “un episodio stuporoso e indifferenza all’ambiente”. Per questo soldato come per tutti gli altri la direzione ha chiesto poi notizie ai regi carabinieri del posto di origine. Le risposte sono tipicamente poliziesche, sui soggetti come sulle loro famiglie, ma non aiutano di certo gli psichiatri se non mettendo a disposizione qualche episodico infortunio precedente come il quasi annegamento di Giuseppe Z.

Gli psichiatri sono in affanno, sembra vederli tirare un sospiro di sollievo quando i loro soldati sono finalmente “riformati”. Le cartelle cliniche non raccontano tutto, ma la dicitura “riformato” suona come un primo snodo liberatorio. Ammalati sì, ma non più per il fronte.

Di Luigi F. della 4° Compagnia di Sanità ricoverato a giugno, prima si legge: “Ricorrenti attacchi epilettici, cefalee, depressione umore, irascibilità”. Poi una nota più avanti taglia corto: “Riformato il 9 ottobre”.

Riformati Ferruccio P:, Giuseppe Z:, Cesare P: Come spiega ujn maggiore medico del Reparto missionari delle malattie da guerra “non sono più soldati”. Leggendo il quadro del soldato Cesare P. si capisce anche perché: “Sindrome depressiva istero-nevrastiforme caratterizzata da depressione minore, emotività esagerata, tic facciale, deperimento psicofisico…”.

Intanto le gerarchie militari incalzano. Spesso nelle cartelle sono conservate le richieste dal tono “seccato” che ufficiali di vari comandi continuano a recapitare all’ospedale psichiatrico. Si chiede conto di questo o quel soldato. Ferruccio P: del 90 Reggimento Fanteria, ricoverato nel maggio del 1916, viene dichiarato “non alienato” l’8 agosto del 1916. Ma poi che succede? C’è un colonnello che continua imperterrito a chiederne conto ancora nel 1923, con due missive del 9 gennaio e del 3 febbraio. Il fante era stato ricoverato per “balbuzie, paralisi facciale con perturbamento della facoltà mentale”. In uno scritto il direttore scrive pure che tutto questo “è dipendente da causa di servizio”.

Sono soldati che neanche più le famiglie sanno dove sono. A Giovanni B:, marinaio, del 90° Reggimento di Fanteria, ricoverato il 23 giugno ’16, scrive la moglie Vincenza amareggiata e sorpresa: “Mio carissimo marito, ti ho scritto una lettera e sono rimasta meravigliata, fino a questo momento non ho nessuna risposta…”. La lettera è ancora lì, ingiallita, conservata nella cartellina del numero 239.

“Non è alienato”, è vergato frettolosamente il 10 luglio da qualche medico psichiatra, Già, ma dove sarà finito poi?

Al manicomio di  Napoli spediscono invece da Cogoleto il marinaio Antonio I., del quale si apprende che ha avuto “grave eccitazione psichica, con disordine negli atti, confusionismo, insonnia”

Anche la moglie Rosa chiede con deferente insistenza dove sia il marito Giuseppe V., dell’81° Battaglione di Fanteria, saponaio di professione. Il fante è stato ricoverato d’urgenza il 2 giugno del ’16. “Lieve stato depressivo confusionale da probabile esaurimento psico-organico”. Intanto però non si è mai fatto vivo con la famiglia, e neanche lo farà dopo stando alla sua cartella clinica, la  195.

Poi ci sono anche le famiglie che non ne vogliono più sapere nulla del loro congiunto ricoverato. Cartella 222: riguarda il povero Evaristo B., contadino,  ricoverato il 19 settembre del ’16 in “stato amenziale, periodi di stupore, fotofobia susseguita da periodi di eccitazione psichica con disordini di contegno”. L’uomo è stato ferito in guerra, ha la mano destra offesa. C’è una lettera nella quale la sorella si rifiuta di prenderlo in consegna e chiede di lasciarlo lì in deposito. Come un pacco, ormai inutile e inservibile. Povero Evaristo.

Che fine avrà fatto poi Luigi V., manovale, del 2° Genio? E’ arrivato a Cogoleto dal manicomio di Alessandria il 24 agosto del ‘16, con “stato malinconico caratterizzato da umore depresso, turbe cenestesiche, atti stereotipati ed immotivati,. Parziale episodica sitofobia, insonnia…”. La cartella non riporta altro.

Giusto F., cameriere, ricoverato il 4giugno e poi riformato il 7 dello stesso mese? “Sindrome istero-nevratenica”.

Per Angelo P:, contadino emiliano, soldato poi riformato, il direttore scrive: “Demente precoce, tranquillo, mutavista, non presenta impulsi pericolosi ed è facilmente remissivo…”.

Perciò, suggerisce il direttore, se lo volete a San Lazzaro di Reggio Emilia, lo potremmo spedire per ferrovia “con un solo infermiere”. Sarà arrivato nel suo paese?

Ecco Adolfo C:, vetturino, del I Reggimento Fanteria, rinchiuso il 19 giugno: era stato colto da una crisi di epilessia durante un trasferimento della truppa diretta a Venezia…

Ecco il fabbro tornitore Luigi M., depressione, cefalee, violenza…

C’è posto infine nel  manicomio di Cogoleto anche per un prigioniero di guerra, l’austro-ungarico Fodor M., di Makò, 46° Fanteria asburgica.

E’ stato catturato il 19 marzo del ’16 ad Urzl, prima è finito a Udine, poi l’hanno portato nel Forte di Begato, dove ha dato di testa, allora l’hanno trasferito all’ospedale militare di Riserva Missionari di Genova, ora è approdato al manicomio di Cogoleto.

Lo segue un vaglia di servizio dove si dà conto di una spesa di 5 lire per il prigioniero, delle 20 stanziate dal Comando dell’8° Gruppo.

Il 30 giugno del 1916 un maggiore medico ha scritto: “Intoppo psichico, atteggiamenti negativistici, idee deliranti, tendenza ad impulsi tali da esigere d’urgenza ricovero al manicomio”.

A Cogoleto Fodor M. resterà fino al 29 settembre. E poi?

Poi fu consegnato al Console generale di Spagna a Genova. Fine della cartella del numero 248.

 

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Le parole non bastano certo a mostrarci questo fenomeno così sconvolgente che prendeva di sorpresa un po’ tutti, all’inizio creando grandi diffidenze e diffusa incredulità. Ma basta guardare quei pochi documenti filmati che ci sono sull’argomento, in gran parte raccolti però in ospedali psichiatrici di altri paesi a partire dalla Francia, per rendersi conto di quale fosse la condizione più frequente per questi malati speciali.

Il documentario “Scemi di guerra” realizzato nel 2008 da Enrico Verro mostra alcune scene di soldati alienati. Sono persone incapaci spesso di muoversi perfino, se non a scatti o con l’aiuto di quale sostegno. Sono volti con occhi stralunati e sbarrati, facce percosse da continui tic nervosi, a volte sono ritratti nudi mentre percorrono in fila dei cerchi, in altre occasioni sono alle prese con fare maldestro e soccombente con esercizi perfino con pesi. Si tenta insomma di riabilitarli verso un ipotetico ritorno alla guerra, alla vita militare, al fronte.

Povere marionette in mano agli alienisti che in camice bianco cercano una soluzione introvabile. L’elettricìtà, con i suoi vari stimoli, rappresenta in qualche immagine l’indicibilità di alcune pratiche “riabilitative” condotte qua e là su queste misere cavie umane, totalmente indifese.

Dietro c’è stato il fronte, il carnaio delle trincee, la follia è stata una reazione al senso di oppressione. A questi soldati, ha spiegato la storica  Bruna Bianchi, è stata chiesta l’indifferenza alla morte, di essere crudeli, di saper uccidere, di saper morire. E’ stato chiesto di dimenticare il passato, di distaccarsi da tutto il proprio mondo di affetti…

Sono stati inseguiti dal manifesto di guerra che puntando l’indice contro chi guarda ha chiesto perentorio: “Fate tutti il vostro dovere!”. E’ un manifesto che con differenti sembianze ma analogo atteggiamento è stato fatto in tutti i paesi belligeranti.

Nessuno ha potuto sottrarsi a questa mobilitazione. Sono partiti, non sapevano dove dovevano andare. Milioni di contadini, soprattutto, strappati al loro piccolo mondo sono stati spostati e spersonalizzati in un nuovo mondo che non conoscono, un mondo di morte.

Padre Agostino Gemelli, psicologo e consulente del ministero della guerra, ha disegnato il loro nuovo ruolo. Ha scritto che non c’è bisogno di eroi, ma di automi. Compito della disciplina è accelerare il processo di impoverimento della vita mentale del soldato, fino a condurlo a uno stato di torpore e di indifferenza.

Questo ha scritto Padre Gemelli, che non aveva messo però in conto l’esito della follia. Il suo scritto Il nostro soldato  redatto per il Comando Supremo resta un documento agghiacciante. La sua analisi della psicologia del soldato, utile per fornire indicazioni precise a Cadorna e al suo stato maggiore, distaccandosi dalle teorie mediche del momento, punta tutto sulla “spersonalizzazione” dei soldati dove il restringimento del campo di coscienza» era necessario sia alle esigenze della

disciplina militare che, di conseguenza, alle dinamiche della guerra di massa:

“L’educazione militare – ha scritto Gemelli – tende ad abolire l’esercizio della volontà, che, sottomessa com’è al giuoco dell’emozione, potrebbe, al momento opportuno, mancare. La disciplina militare, l’esercizio militare hanno lo scopo di sostituire qualche cosa di automatico, di riflesso, di meccanico, all’esercizio della volontà”.

Secondo Gemelli, l’operazione disciplinare da portare in porto era quella di ridurre e impoverire la vita mentale dei soldati affinché essi potessero adattarsi a una dimensione automatizzata priva di individualità, soprattutto in un contesto, come quello della guerra, massicciamente e modernamente industrializzato.

Erano teorie totalitarie che però non avevano impedito a un popolo di analfabeti (erano in quel momento il 46% della popolazione) di trasformare quel vuoto pieno di orrore che era la guerra in un fiume di parole, le lettere dal fronte. E’ impressionante questa mole di scritti che nonostante i tentativi di censura incapace di fermare questo fiume in piena dal fronte registrerà negli anni della guerra la scrittura di ben 4 miliardi di lettere. Quattro miliardi per 5 milioni di soldati, otto lettere a testa, analfabeti compresi…

Ecco una reazione che non era stata messa in conto, nonostante la condizione vissuta di eserciti impantanati nella guerra di trincea i soldati cercano di ritrovare qualcosa della propria vita precedente scrivendo a mogli, madri, amanti, anche semplici donne appena conosciute.

La loro condizione resta comunque inumana, si ritrovano  aggrediti nei cinque sensi in mezzo alle grida continue di altri soldati che stanno morendo o restano feriti.

E pian piano ecco scoppiare le nevrosi traumatiche che si sviluppano in combattimento e durante la vita di trincea sotto i continui bombardamenti.

Sono i soldati che sempre più spesso non parlano più, non ricordano più, non sentono neanche. E che tremano, non stanno in piedi, non reagiscono più agli ordini innalzando tra se stessi e gli altri un muro sempre più impenetrabile.

Miseri automi, così li descrivono spesso le cartelle cliniche, dalla fisionomia inespressiva, fatua e puerile, scrive la storica Bruna Bianchi citando poi cartelle cliniche del manicomio di Padova: “Ha gli occhi imbambolati e pieni terrore, al fronte si esponeva al fuoco e sparava all’impazzata” (cartella 4624).

Oppure: “E’ depresso, confuso, non parla, non ricorda nulla del ricovero” (cartella 4626).

E ancora: “Non parla, mangia tutto ciò che gli capita, cenere, immondizia, terra, non siede mai e cammina con una mano penzoloni e una nella cintura dei calzoni” (/cartella 4411).

Condotti negli ospedali dove trovavano medici in divisa militare (“è importante che i medici continuino a vestire la divisa”, si legge in una disposizione degli alti comandi) non trovavano poi altra destinazione se non i manicomi. Portati negli ospedali psichiatrici i soldati alienati incontravano allora degli psichiatri il cui primo compito, secondo l’Esercito che glieli recapitava, era quello di rimettere in sesto questi malati e rispedirli al mittente.

Annotava un medico di Treviso, manicomio di Sant’Artemio: “La sua fisionomia apatica non si modifica qualunque sia la domanda che gli si rivolge, qualunque sentimento si cerchi di risvegliare. Il suo contegno è impassibile. Interrogato se volesse tornare a casa sua o essere rimandato al suo  reggimento si stringe nelle spalle” ((cartella 2868). Nei giorni successivi il soldato non rispondeva più e non mangiava più…

Così è al manicomio di Sant’Osvaldo di Udine, così al San Felice di Vicenza, così al San Servolo di Venezia, al San Lazzaro di Reggio Emilia, a Padova, a Brescia…

E’ il perimetro nel quale le gerarchie militari cercano di contenere la follia che viene dalle trincee. Infatti ben presto, dal settembre del 1915,  l’esercito italiano aveva deciso di dotarsi di un filtro proprio, un servizio psichiatrico di guerra affidato all’alienista già famoso, Augusto Tamburini, presidente della Società freniatrica e già direttore del manicomio di Reggio Emilia. Lo affiancò Leonardo Bianchi, già direttore del manicomio di Napoli, docente di psichiatria e neurologia, nominato ministro senza portafoglio del coordinamento del servizio sanitario di guerra. Tamburini e Bianchi cercarono allora di dotare ogni armata di un reparto neurologico-psichiatrico.

Le quattro Armate al fronte venivano dotate di una sezione neuropsichiatrica avanzata, con medici psichiatri consulenti. Compito ovvio di questo filtro era innanzitutto smascherare i simulatori. I consulenti scelti erano psichiatri noti: la I Armata ebbe a disposizione Arturo Morselli, figlio di Enrico; la seconda, a Udine, Vincenzo Bianchi, deputato e figlio di Leonardo. La Terza ebbe come consulente Angelo Alberti, direttore del manicomio di Pesaro, la quarta infine Giacomo Pighini, del manicomio di Reggio Emilia.  Alla fine questa organizzazione contava su dieci ospedali psichiatrici e ospedali da campo in zona di guerra e di circa trenta reparti specializzati negli ospedali o nei manicomi delle retrovie e della zona territoriale.

I manicomi al nord furono organizzati a Torino, Alessandria, Novara, Treviso, Milano, Genova, Pavia, Cremona, Piacenza, Parma, Reggio Emilia, Brescia, Verona, Udine. Nel resto del paese a Firenze, Roma, Ancona, Napoli, Bari, Catania e Palermo.

A Roma c’era un manicomio in via della Lungara e un Reparto per militari psicopatici a Sant’Onofrio, diretto da Giacinto Fornaca.

Buona parte della struttura militare fu poi spazzata via dalla ritirata di Caporetto imponendo successivi aggiustamenti.

Durante la ritirata parecchi soldati alienati furono abbandonati a se stessi.

Quanto sono stati i soldati ammattiti in guerra?

Almeno quarantamila i soldati “usciti di senno”, come già detto. La cifra trova riscontro

nei conti fatti da Placido Consiglio che nel 1919 calcolò in 28.910 le osservazioni in zona di guerra nei primi due anni e messo di guerra e in 10.297 le osservazioni al centro di prima raccolta di Reggio Emilia dal’1.1.18 al 30.6.19. Ma come ha osservato Bruna Bianchi la cifra deve essere senz’altro superiore se si pensa che solo la I° Armata, tra 1916 e 1917, trattò 11.803 soldati ospedalizzati per disturbi mentali.

In ogni caso la prassi era di trattare i casi nelle vicinanze del fronte e per quelli più gravi disporre poi dei manicomi dove l’internamento passati tre mesi diventava definitivo.

Pochi erano infine gli psichiatri, circa 40 nelle immediate retrovie e un centinaio all’interno. Nel 1916 fu istituito un insegnamento a San Giorgio a Nogaro per sfornare altri psichiatri, ma la situazione rimase difficilissima per il continuo afflusso di nuovi pazienti che alla fine venivano spediti nei manicomi delle retrovie.

Nei manicomi di Padova e di Treviso che dal ’15 al ’17 accolsero 3000 soldati le permanenze oltre tre mesi passarono dal 17 al 52% (Padova), dal 32 al 52% (Treviso). Seicento erano i posti a Padova, 450 a Treviso. Però non bastavano mai…

Ma, in generale, come intervenivano questi psichiatri di guerra? Che cosa facevano prima di rinviare a strutture territoriali delle retrovie, come il manicomio di Cogoleto?

Prendiamo il più famoso degli psichiatri ingaggiati, come il capitano Arturo Morselli. Lui faceva largo uso dell’ipnosi e della suggestione, servendosi di uno strumento elettro-terapico , la faradizzazione a  doppio rullo che si era fatto spedire dalla Clinica di Genova. Le riviste dell’epoca sostenevano che alcuni muti avevano ripreso a parlare ed erano così tornati al fronte.

Lungi da Morselli e da altri l’idea che i traumi potessero essere invece permanenti.

Si facevano dunque sperimentazioni. Un altro psichiatra, il tenente colonnello medico G.

Gradenigo, nel marzo 1917, segnalava il ricorso a “bagni di suono” per risolvere problemi di afasia, mutismo, sordità per cause belliche.

Introduceva i soldati in stanze dove una musica di canne d’organo produceva differenti vibrazioni. Il Gradenigo però constatava che alcune infermità restavano “tenaci”.

Dunque faradizzazioni, ipnosi, eterizzazioni, suggestioni collettive, tecniche violente di vario tipo con cui si cercava di rimuovere tremori, contratture, paralisi, mutismi. Ma i risultati non erano particolarmente entusiasmanti. L’organicismo non sembrava premiato.

C’erano anche psichiatri che si richiamavano in qualche misura a Freud, ipotizzando emozioni scatenanti. Ma erano una minoranza. Eppure l’idea che la follia fosse il risultato della contraddizione insanata tra senso del dovere e istinto di sopravvivenza cominciò pure a circolare. E così qualche psichiatra arrivava a mettere in discussione l’impianto più in voga, quello di avere a che fare con malati con predisposizioni alla malattia.

In Germania fuil caso dello psichiatra Ernst Rimmel, ma era relegato in un ospedaletto. Comunque Rimmel aveva sostenuto questo tipo di tesi in incontri scientifici già nel ’18.

All’estero il riconoscimento che le categorie tradizionali diventavano inservibili produsse orientamenti nuovi anche in Francia dove Jean Lépine, consulente psichiatra a Lione, riconobbe

che di fronte a questi nuovi malati da guerra più che un medico occorreva un artista. Fu in Inghilterra che gli echi freudiani rtrovarono comunque più seguito, con William Rivers, William Brown, Charles Myers. La psicanalisi in alternativa ai manicomi, dunque.

Ma queste posizioni in generale rimasero posizioni di minoranza.

A far clamore erano semmai le novità che venivano dai medici psichiatri alleati come il dottor Clovis Vincent che faceva ricorso in Francia a scariche elettriche: la pratica era emersa in tutta la sua brutalità quando un soldato vi si era opposto ed era stato deferito per rifiuto di obbedienza! In Austria e Germania la pratica fu eseguita con determinazione, Fritz Kaufmann ne era l’alfiere psichiatra.

L’alternativa era a volte l’ipnosi.

Scarsa è la documentazione sui tentativi che furono messi in campo negli ospedali psichiatrici italiani, sia militari che civili. I consulenti servivano innanzi tutto a stanare i “simulatori”. Ma su tutto pesava come un macigno l’incancellabilità delle scene di guerra e quel senso di totale rovina che avevano depositato nella coscienza di tanti, poveri soldati.

“E’ sempre attonito – scriveva di un paziente uno psichiatra di Treviso, cartella 2253 -, vede dapperutto morti accatastati e crede che i suoi di casa siano tutti morti”.

Già, la casa. Un ritorno per una parte di questi ammalati impossibile. Del resto man mano i manicomi non mandarono neanche più in licenza i pazienti, le licenze si presero ad essere scontate sul posto.

Scarsa infine è pure molto spesso la documentazione sugli esiti di quei ricoveri che nonostante le premure di molte direzioni psichiatriche si prolungarono poi nel tempo.

Ne fa un esempio Ilaria La Fata nella sua ricerca sul manicomio di Colorno quando si sofferma sulla storia psichiatrica di un soldato originario di Borgotaro.

“La storia di Giuseppe S., venticinquenne di Borgotaro, era cominciata nella primavera del 1918 quando, durante una licenza, cominciò ad essere profondamente  turbato e terrorizzato dalle esperienze vissute in guerra: da allora ebbe continue allucinazioni nelle quali era convinto di essere ancora al fronte e di doversi misurare  contro i nemici, parlando «da sé ora ad alta voce, ora a bassa voce, sempre di guerra  come se fosse in azione, assalendo o respingendo i nemici o fuggendoli terrorizzato”.

Dopo essere stato ricoverato a Mantova  Giuseppe S. era entrato a Colorno nel 1919 e vi è rimasto fino alla sua morte, avvenuta nel 1942. Dal suo diario clinico La Fata riporta: “Egli non ha mai dato segno di interessarsi a cosa o a persona alcuna, con chi lo visita è completamente indifferente e si limita a mangiare ciò che essi gli portano senza dire una parola, mai esprime il più piccolo desiderio o bisogno. Se lo si lascia resta sdraiato tutto il giorno in terra, alla pioggia o al sole inerte, isolato

nella sua apatia…”.

Altri infine scelsero un’altra via, il sucidio. Chi lanciandosi per le scale, chi impiccandosi, chi ingerendo sostanze nocive.

Come Giovanni D., a Udine. Ha scritto di lui la storica Bruna Bianchi: “Si sentiva perseguitato dai compagni e dai superiori, eludendo la sorveglianza degli infermieri, dopo alcune settimane di degenza nel manicomio di Udine, si lancia a capofitto nella tromba delle scale…”.

Un disastro che non aveva confini, come ha spiegato bene uno scrittore cercando di toccare l’essenza di tutto questo male.

“Ero soltanto dolore- così Alfred Döblin in Novembre 1918 -. Dolore? Non so nemmeno se fosse dolore, se non lo scambiavo per dolore. Una forma di esistenza oscura e orribile. Immagino così le meduse che i ragazzi al mare infilzano sui bastoni. Esse hanno ancora i loro tentacoli, la bocca e  le viscere, ma tutto il loro essere è dolore…”.

Con un termine inglese oggi questo insieme di disordini mentali è stato catalogato come post traumatic stress desorder. Si stima che il 45% dei soldati americani passati per l’Iraq ne sia stato colpito. Ma allora, nel 14-18, la definizione fu più cruda. Scemi di guerra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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