Quando gli feci notare che dopo l’Orlando Furioso con Sanguineti nel ’69 – il grande e sovversivo (per il teatro) Orlando – la sua vena aveva avuti alti e bassi Luca Ronconi mi guardò molto serio e seccatissimo mi disse: l’intervista finisce qui.
Eravamo uno di fronte all’altro, nella chiesa di San Simone a Spoleto, Festival dei Due Mondi del 1989. Io ero lì per l’Europeo, nella navata Branciaroli stava ripetendo il monologo da Féerie, pantomima per un’altra volta da Celine, tradotto da Patrizia Valduga. La regia era di Ronconi, appunto, il debutto quella sera.
Ronconi aveva il suo carattere ma io non ero partito da Roma per Spoleto per non concludere nulla. Non ricordo come si accomodarono le cose, in quella chiesa. L’intervista proseguì, parlammo di quel testo “forte” di Celine, il primo scritto dopo la prigionia in Danimarca, nel ‘48. Un testo aggressivo, verso il lettore, dove Celine continua a parlare dell’unica arma che gli resta, la sua stilografica.
Ronconi era Ronconi. Aveva davvero fatto un teatro nuovo, rivoluizionario. Nel ’68 e dintorni. La mia accusa – gettata lì probabilmente senza troppo pensarci e probabilmente ingiusta, ma io in fin dei conti ero andato un po’ alla cieca – l’aveva decisamente irritato. Poi però il suo gran rifiuto era rientrato, anche lui si rese conto della situazione un po’ ridicola che si era creata.
Che cosa gli contestavo? Di essere ricorso a portare in scena un testo nato per la lettura, sufficientemente duro e celiniano, sembrava insomma un escamotage per fare un po’ di rumore. Ma poc’altro. Lui naturalmente si difese e rivendicò la giustezza dell’operazione.
La sera lo spettacolo andò in scena, il pubblico applaudì a lungo, era Ronconi. E Ronconi andava applaudito. Aveva già i capelli bianchi allora. Ed era stato certamente bravo nella sua carriera di metteur en scène. Poteva permettersi quel Celine ed altro.
Non l’avevo più incontrato da allora. Me ne dispiace.