Pino Pinelli: entrò vivo in Questura e ne uscì morto. A 45 anni da quella tragica notte tra il 15 e il 16 dicembre del 1969 questa resta l’unica certezza sulla morte dell’anarchico Pinelli.
Quanto all’inchiesta sulla sua morte – quella firmata dal magistrato D’Ambrosio recentemente scomparso – essa è talmente lacunosa al punto da non aver mai indagato su di un aspetto mai sondato: la presenza in quell’Ufficio Politico della Questura di Milano di un piccolo esercito di uomini degli Affari Riservati piombati da Roma con la pista prefabbricata degli anarchici e guidati dal braccio destro del capo del servizio, Silvano Russomanno. C’erano anche loro in quella stanza da cui cadde Pinelli durante l’interrogatorio?
Ecco quello che ho scritto in questo blog all’inizio di questo anno su questa vicenda da poco tornata alla luce ma non ancora indagata, una circostanza che da sola varrebbe – se questo fosse un paese normale – a riaprire l’istruttoria sulla morte di Pino Pinelli.
Brogi.info
domenica, marzo 30th, 2014
D’Ambrosio e quella presenza mai indagata degli uomini degli Affari Riservati con Russomanno nell’Ufficio Politico di Milano nel dicembre del ’69, quando morì l’anarchico Pinelli
D’Ambrosio morendo ha lasciato irrisolta la sua inchiesta sulla morte dell’anarchico Pinelli.
Nel senso che a metà anni ’70 chiuse un’istruttoria – quella cosiddetta del “malore attivo” di Pinelli – che non aveva sfiorato la presenza in quell’ufficio politico della questura di Milano, subito dopo l’attentato di Piazza Fontana , di ben tredici personaggi calati da Roma dall’Ufficio Affari Riservati, portatori della pista prefabbricata degli anarchici. Tredici funzionari guidati da Russomanno, braccio destro del capo degli Affari Riservati Federico D’Amato, che sono poi spuntati nelle successive istruttorie su altri fatti come l’inchiesta Pradella su Piazza Fontana 2 e l’inchiesta Mastelloni su Argo. In ambedue queste istruttorie è stata messa a fuoco la presenza dei funzionari con Russomanno in quell’appartamento in uso all’Ufficio Politico della Questura di Milano. Sulla circostanza è uscito poco tempo fa il libro di Gabriele Fuga ed Enrico Maltini, “E ‘a finestra c’è la morti. Pinelli: chi c’era quella notte” (Zeroincondotta edizioni). Ecco, aldilà della strampalata conclusione investigativa che ha risolto uno dei momenti più oscuri della Repubblica con quella spiegazione insensata del malore attivo, fa impressione che D’Ambrosio non abbia voluto prendere atto del suo clamoroso “buco” investigativo emerso solo per la buona volontà di altri magistrati suoi colleghi e non abbia fatto niente per “migliorare” la sua sfortunata inchiesta.
A tutt’oggi infatti restiamo debitori di una spiegazione chiara sul ruolo esercitato in quei giorni a Milano., e in quella notte in particolare in cui morì Pinelli, da questi uomini degli Affari Riservati. Dirigevano di fatto l’inchiesta, a cui avevano dato una direzione unica. Possibile che nessuno di loro fosse in quella stanza la notte in cfui Pinellì morì precipitando dalla finestra?
Molti scrivono in queste ore che D’Ambrosio era una brava persona. Non lo metto in dubbio. Peccato però che su Pinelli non abbia fatto quello che forse doveva e poteva fare, approfondire e chiarire sul ruolo degli Affari Riservati in quel dicembre del ’69 a Milano.
Brogi.info
A 44 anni dalla morte di Pinelli si scopre che in Questura a Milano “comandavano” i romani degli Affari Riservati ignorati dall’inchiesta di D’Ambrosio. Lo rivelano le carte di altri processi
Chi c’era a Milano nell’Ufficio Politico della Questura dopo la la strage di Piazza Fontana e il 15 dicembre quando morì Giuseppe Pinelli?
Nei giorni scorsi abbiamo già indicato la presenza di Silvano Russomanno dell’Ufficio Affari Riservati così come lo stesso ha ammesso di fronte al Pm Maria Grazia Pradella nell’inchiesta su Piazza Fontana. Russomanno con una squadra giunta da Roma. “Ero a Milano il giorno in cui è morto Pinelli…”.
Da varie carte processuali (Pm Pradella e Mastelloni in particolare) emergono però con maggiore chiarezza i contorni di quella squadra dell’Ufficio Affari Riservati e si rilevano in proposito affermazioni importanti come quelle fatte dal commissario Antonio Pagnozzi.
A ricostruire questo quadro inedito è stato un libro uscito per le edizioni di Zero in Condotta, si tratta di “E’ a finestra c’è la morti. Pinelli: chi c’era quella notte”, scritto dall’avvocato Gabriele Fuga e da Enrico Maltini (la prima parte del titolo è tratta dalla ballata di Franco Trincale…). Aldilà di alcune fantasie cui si lascia andare il libro restano sul terreno importanti elementi che ricavati da inchieste giudiziarie gettano una nuova luce sulla situazione che c’era nella Questura di Milano newl dicembre del 1969.
Enrico Maltini, allora anarchico del Ponte della Ghisolfa, mi ha gentilmente inviato questo breve scritto che aveva preparato e in cui è risassunto il succo della ricerca, relativamente soprattutto alla riscoperta di verbali giudiziari dimenticati.
Una ricerca – va subito detto – che ricompone un quadro inquietante che va oltre le risultanze dell’inchiesta fatta da Gerardo D’Ambrosio e conclusa nel 1975, inchiesta in cui la presenza della squadra degli Affari Riservati a Milano in quei giorni è sostanzialente ignorata.
Che ruolo infatti hanno avuto questi uomini dell’Ufficio Affari Riservati nella vicenda della morte di Pinelli?
Ma soprattutto qualcuno di loro era presente nella stanza al momento della precipitazione di Giuseppe Pinelli?
Difficile ipotizzare il contrario visto che il ruolo rivestito da questi uomini inviati dall’Uar di Roma, portatori della pista anarchica e dei nomi di Valpreda e Pinelli. Difficile ipootizzare il contrario sentendo anche ciò che dice Pagnozzi, in ordine alla sacala gerarchica. Come poteva dunque non essere presente qualcuno di loro in quella stanza, dove secondo l’inchiesta di D’Ambrosio non ce n’è invece traccia?
E se qualcuno era presente perché non è mai stato individuato e interrogato?
Ecco ciò che ne scrive Enrico Maltini chiosando il libro scritto con Gabriele Fuga:
“Chi ha spezzato cosa?
Il 7 Gennaio 2014 Rai 1 ha mandato in onda in prima serata una “fiction” tratta dal libro di Luciano Garibaldi, “Gli anni spezzati. Il Commissario. Luigi Calabresi Medaglia d’Oro” ( Ares, pagg. 216, euro 14 ,80; in libreria dal 28 dicembre), sulla vita e la morte di Luigi Calabresi. Nella prefazione al libro, Marcello Veneziani denuncia “l’intero establishment culturale, accademico, editoriale e giornalistico italiano”, e i quasi 800 intellettuali che firmarono un manifesto che chiedeva giustizia per Pinelli, colpevoli tutti della campagna di odio condotta allora contro il Commissario.
La vicenda Calabresi (si legge nella prefazione) resta una ferita profonda nella storia civile ma anche culturale del nostro Paese. Non possiamo dimenticare che si mobilitarono contro di lui, in un famigerato manifesto, i quattro quinti della cultura e dell’intellighentia italiana. Ottocento firmatari, l’intero establishment culturale, accademico, editoriale e giornalistico italiano, tuttora in auge, si schierarono contro di lui, lo squalificarono, lo delegittimarono. Non dirò che gettarono le basi per il suo assassinio, ma crearono comunque un clima di ostilità che fu alle origini di quel delitto.
E ancora:
Non è mai troppo tardi per ammettere: sì, ci eravamo sbagliati, Calabresi era un galantuomo, un vero servitore dello Stato. Il furore di quegli anni ci ha oscurato la mente e inferocito gli animi, ma Calabresi fu uno dei pochi che lasciò a noi ragazzi degli anni Settanta la residua speranza nello Stato, nell’amor patrio, nella fedeltà alla propria missione.
“… residua speranza nello Stato, nell’amor patrio, nella fedeltà alla missione” scriveMarcello Veneziani. Ma non dice, o forse non sa, che proprio lo Stato di cui parla con reverenza, era segretamente presente nei locali della questura di Milano, nei giorni e nelle notti di Piazza Fontana e della morte di Pinelli e lo era nelle persone di altissimi funzionari del Ministero degli Interni. Funzionari di grado e autorità indiscussa, ai vertici del più potente dei servizi di sicurezza italiani: quell’Ufficio Affari Riservati (AA.RR, UAR) che si vantava di “riferire solo al Ministro e al Capo della polizia”, non ai magistrati inquirenti nè ad alcun altra istituzione. Costoro, testimoni di uno degli accadimenti più gravi della recente storia Italiana, si sono celati per anni alla storia, alla legge che dichiarano di servire, al diritto di tutti di sapere.
Ben altri “servitori” dello stato dunque, al di là, oltre e al di sopra del commissario Calabresi, conducevano a Milano le indagini, indirizzavano, sceglievano o creavano le piste, accusavano di strage Valpreda e Pinelli. Personaggi cui Calabresi doveva deferenza e dai quali, come l’intero ufficio politico, era non solo gerarchicamente ma anche psicologicamente dipendente, come dirà uno di loro.
La presenza di questi funzionari fu allora accuratamente nascosta, taciuta dal Ministro, taciuta dai funzionari dell’ufficio politico milanese, taciuta all’opinione pubblica ma, quel che è più grave taciuta, per quanto ne sappiamo, anche ai magistrati inquirenti.
Nelle istruttorie di Giovanni Caizzi e Carlo Amati prima (1971) e di Gerardo D’Ambrosio poi (1975) sulla morte di Pinelli, così come negli atti del processo Calabresi-Baldelli e nelle istruttorie sulla strage anteriori al 1996, della presenza di costoro nella questura di Milano nei giorni della morte di Pinelli non vi è traccia alcuna.
Dunque sappiamo solo ora che testimoni di primissimo piano, presenti sul luogo dei fatti, non furono mai sentiti dagli inquirenti.
Solo la scoperta dell’archivio segreto degli AA.RR, rinvenuto nella via Appia a Roma nel 1996, 26 anni dopo la strage e quando D’Amato era morto e i suoi uomini erano ormai fuori servizio, ha permesso di svelarne la presenza e li ha costretti ad ammettere di fronte ai giudici ciò di cui non avevano mai parlato prima. E tutto ciò abbiamo potuto sapere solo di recente, grazie all’accesso ai documenti giudiziari relativi alle istruttorie sulla strage dei PM Massimo Meroni e Maria Grazia Pradella e a documenti tratti dall’istruttoria del giudice Carlo Mastelloni sull’abbattimento dell’aereo “Argo 16″, tutti procedimenti risalenti agli anni 1996-98.
Una verità assolutamente inoppugnabile, che chiunque può constatare, è che della presenza nella questura di Milano di una squadra dell’Ufficio Affari Riservati giunta da Roma non si seppe allora nulla e un’altra verità, altrettanto inoppugnabile e conseguente alla prima, è che Calabresi fu l’unico “esposto” e che tanto gli uomini degli Affari Riservati quanto il suo diretto superiore Antonino Allegra, cosi come il Questore Marcello Guida lo lasciarono tale. Nessuno denunciò la presenza e il ruolo dei funzionari romani e nessuno di loro si sognò (o non potè?) testimoniare a suo favore o quanto meno condividerne le responsabilità: nessuno disse nulla.
Riportiamo qui le parole, testuali, tratte dalle deposizioni giurate di Antonio Pagnozzi, commissario dell’ufficio politico milanese e di Guglielmo Carlucci, allora capo della VI sezione delgli Affari Riservati.
Queste le parole di Antonio Pagnozzi, allora responsabile per l’ordine pubblico a Milano e che diventerà poi Questore di Genova, interrogato nel luglio ’97 e nel gennaio ’98 dai PM Mastelloni e Pradella:
«Il giorno successivo la strage di Piazza Fontana il dottor Russomanno Silvano è giunto a Milano ove prese in pratica “la situazione in mano” unitamente al dottor Allegra»
Alla domanda del PM:
«Lei all’epoca come configurava il ruolo dell’Ufficio Affari Riservati?»
Pagnozzi risponde:
«All’epoca l’Ufficio Affari Riservati veniva identificato, “psicologicamente” dagli Uffici Politici di tutta Italia come un Ufficio cui riferire gerarchicamente».
Ancora Pagnozzi:
«Percepii che vi era un che di pista prefabbricata originata non a Milano allorché, da Roma, pervenne la comunicazione che era stato Valpreda a portare la valigia con l’esplosivo a Milano, tanto seppi dal capo dell’ufficio prima del suicidio di Pinelli. Questo posso oggi affermarlo».
Alla richiesta del PM di precisare il significato di un’affermazione tanto grave, Pagnozzi conferma:
«A chiarimento preciso che l’indicazione di Valpreda e della sua personale responsabilità nella deposizione della bomba nella banca di piazza Fontana pervenne da Roma per cui noi ci limitammo a dare seguito a questa notizia senza aver affatto partecipato alle indagini che la generarono».
E queste le parole di Guglielmo Carlucci nel maggio 1997 al PM di Venezia Carlo Mastelloni, che lo definisce “…onesto e misurato, e importante per la sua esperienza e il ruolo svolto”:
«Andai a Milano dopo i fatti di Piazza Fontana e operai accertamenti con Calabresi e Allegra e ciò in un contesto in cui già c’era Russomanno che ivi era pervenuto con suoi elementi. (…) I nomi di Pinelli e Valpreda erano stati segnalati subito alla Centrale (intende la sede romana degli AA.RR n.d.r.), Catenacci e D’Amato, dalla Squadra di Milano e l’informativa, credo pervenuta via telefono, era subito stata trasmessa al Ministro. Ciò dopo poche ore. Russomanno fu mandato subito a Milano da Catenacci per coordinare le indagini».
“Ciò dopo poche ore” dice… e ancora:
«… confermo che al Pinelli durante il fermo fu contestata una falsa confessione di Valpreda: così si usava, allora eravamo i padroni delle indagini» (sic).
“Noi facevamo firmare all’Ufficio Politico tutti i rapporti di Polizia Giudiziaria frutto delle nostre indagini: è stato sempre il nostro costume».
Carlucci conferma che non solo gli appunti stilati per il Ministro erano farina del sacco dell’UAR, ma tutti i rapporti fatti firmare dalla Polizia Giudiziaria erano dettati da loro.
Per tema che ancora il concetto non sia chiaro Carlucci insiste:
«Noi davamo le notizie e l’Ufficio Politico faceva il rapporto facendole proprie».
E perché questa prassi? chiede il P.M.
Risposta:
«Diversamente ci saremmo scoperti mentre dovevamo rimanere “riservati”».
E ancora l’ex direttore Carlucci:
«Non abbiamo mai avuto resistenze da parte dei Dirigenti dell’Ufficio Politico. Il nostro referente era solo il Questore».
«Chi aveva accesso al Ministro erano il Capo della Polizia e il Direttore della Divisione. Io solo con Santillo ho avuto accesso al Ministro (…) gli elementi delle Squadre provenivano tutti dagli Uffici Politici locali».
«Quando ero vice di D’Amato giravo per indagini in tutta Italia e i miei referenti erano le Squadre e gli Uffici Politici. Le prime dipendevano da noi e gli Uffici Politici, formalmente, dal Questore ma sostanzialmente da noi Affari Riservati».
“Eravamo i padroni delle indagini”, “gli uffici politici dipendevano da noi” e quel “dovevamo rimanere riservati” che spiega tutto. Parole chiare, e dunque ottima cosa che si parlasse solo di Calabresi, peraltro a sua volta certamente ben istruito sulla consegna al silenzio, anche se ciò poteva causargli degli inconvenienti…
Nell’occasione, Carlucci cita un altro argomento sul quale era bene esercitare riservatezza:
«Ricordo di Delle Chiaie il quale veniva sempre da D’Amato sia quando questi aveva l’incarico di vice Direttore che anche nei tempi successivi. Si tratteneva nell’Ufficio di D’Amato e qualche volta ho assistito anche io ai colloqui. Lo agevolavamo per passaporti, porto d’armi e quant’altro di competenza della Questura. D’Amato nel corso dei colloqui prendeva appunti e poi li passava a chi di competenza per lo sviluppo. Nel 1966 allorché io pervenni al Viminale il rapporto tra D’Amato e Delle Chiaie era già in corso”.
E a proposito delle indagini delle varie polizie:
“Per le notizie di reato diverse (si riferiva prima a scandali su personaggi politici n.d.r.) e di altro tipo, l’Appunto veniva inoltrato all’Ufficio Politico competente per territorio che sviluppava le notizie e firmava il rapporto giudiziario senza dare atto dell’appunto informativo introduttivo della Divisione Affari Riservati».
Ecco ribadito ancora una volta chi realmente dettava i rapporti che gli uffici politici poi firmavano.
«A Milano rimasi diversi giorni e tornai a Roma portando una relazione informale -– come sempre – che consegnai a Catenacci. Tutti facevano così e quindi anche il Russomanno, parlo di tutti i funzionari. Il Capo della Polizia all’uopo riceveva un Appunto da Catenacci e poi stilava altro Appunto, riservato, per il Ministro, che li conservava nella cassaforte».
A questo punto non è forse è lecito chiedersi come e da chi venivano realmente condotte le indagini, e proprio quelle indagini milanesi all’interno delle quali trovò la morte Pinelli?”