Informazioni che faticano a trovare spazio

La Cina sceglie la Grecia e snobba l’Italia col suo porto di Taranto e le ferrovie dirette al Nord in cui non possono passare i container…

Oggi Repubblica ha pubblicato questa mappa del sistema di trasporti-penetrazione adottato dalla Cina per raggiungere con le proprie merci il mercato europeo.

Perché la Cina ha puntato sul porto del Pireo e su di un sistema intermodale che deve transitare dai “pericolosi” Balcani per raggiungere il Nord Europa?

La risposta è data dall’incredibile situazione delle ferrovie italiane, in particolare di quelle adriatiche, che mantengono le incredibili strozzature in un paio di punti dove non possono transitare i cantainer: troppo strette, da rifare.

E’ il motivo per il quale i grandi gestori cinesi dei container sono fuggiti da Taranto e si sono diretti al Pireo. L’ho raccontato in un capitolo del mio libro “Uomini e donne del Sud”, il capitolo dedicato a Taranto. Ve lo ripropongo, eccolo:

Quelle gallerie che strozzano Taranto

Peppino Gesucristo, dalla postazione della sua trattoria di pesce a Taranto vecchia in via Battisti, aveva visto giusto. Sugli squali e sull’Ilva. E questo lo faceva imprecare ancor più del solito. Per oltre trent’anni Peppino a nome del suo rione si era accaparrato il diritto di portare la statua del Cristo nella processione del Venerdì Santo. Quando c’era ancora la lira questo comportava di presentarsi alla vigilia dell’evento all’annuale riunione della Misericordia e gettare nell’asta per l’assegnazione dei gruppi della processione una ventina dei milioni, piamente raccolti di casa in casa tra gli abitanti del vecchio rione. Un po’ di milioni che Peppino depositava sul tavolo della confraternita per vedersi assegnata la statua più importante di tutta la santa manifestazione, il Cristo.

Così anno dopo anno Taranto Vecchia aveva giocato la sua carta: Peppino Gesucristo – per questo si chiamava così – si presentava alla Misericordia col suo fagotto di soldi racimolati nel quartiere e il pio consesso gli assegnava per il Cristo da portare sulle spalle il giorno della processione. Un onore e una tradizione, insomma, quasi una personificazione per il ristoratore popolarissimo che gestiva la trattoria di pesce con la madre detta “la Madonna”, un donnone che stava alla cassa e guai ad avvicinarsi alle pentole che assestava subito bacchettate sulle mani….

Quel maledetto anno però – diciamo il 1990 – si era in piena crisi dell’Ilva, perché di crisi il siderurgico ne ha passate varie.

E allora, una ventina di anni fa, la crisi aveva già messo in ginocchio tutto l’indotto dello stabilimento e i padroncini delle imprese che non ce la facevano più si suicidavano uno dietro l’altro. La risposta per quella catena di morti, e per lo smacco in arrivo a Peppino Gesucristo, era facile da trovare. Era illustrata lungo il corso principale di Taranto da una sfilza interminabile di società di leasing. Sportelli facili da identificare, peraltro, posti a grappolo di fronte ad ogni succursale di banca. I futuri morti passavano perlopiù da lì, da quelle forche caudine, prima andando a bussare inutilmente al credito delle banche e poi subito dopo optando per i dirimpettai  con esiti più generosi ma ben presto drammatici visto gli altissimi tassi praticati.

E Peppino Gesucristo? Quando il trattore alla vigilia della  Settimana Santa si era presentato di nuovo nel consesso della Misericordia con i suoi venti milioni si era visto surclassato da un’offerta quasi triplicata gettata sul piatto dal giro del leasing. Umiliato e deposto di brutto da gente in cui Peppino vedeva il peggio del peggio.

Avreste dovuto sentire come smadonnava contro questi nuovi ricchi il povero Peppino, detronizzato senza possibilità di ricorsi. A Taranto lo status symbol, all’epoca, era anche in quelle statue della processione spagnolesca  Accaparrarsele voleva dire: ecco chi conta oggi in città. “Quelli hanno sulla coscienza i morti dell’Ilva…”, protestavano allora a Taranto vecchia, senza pensare ancora al cancro diffuso dalle ciminiere e limitandosi ai decessi per suicidio. Una sintesi a cui Peppino Gesucristo accompagnava anche un’altra accusa capitale: la progressiva scomparsa delle cozze dal mare della città.

“Avevamo il mare e anche quello ce l’hanno ammazzato”, spiegava Peppino orfano ormai di troppe cose, dal Cristo ai suoi mitili.

E invece è proprio il mare che a vent’anni di distanza, in pienissima crisi dell’Ilva stavolta giunta al suo ultimo giro di boa, a far ritrovare un minimo di speranza alla città di Taranto. Il mare, anzi un grande porto che è il terzo d’Italia e che nonostante l’essere stato troppo a lungo trascurato dai governi è tornato ora di nuovo in ballo a far sventolare la bandiera della speranza per la città piagata dai suoi enormi guai.

E dire che il 2012 aveva ereditato una mazzata, assestata nell’estate 2011 e passata piuttosto inosservata salvo poi tornare a riverberarsi nell’esplosione del sistema Ilva: stanchi delle promesse non mantenute dal governo Berlusconi i due principali utilizzatori dell’hub tarantino avevano  deciso di spostare il 70% dei loro traffici sul porto greco del Pireo. La taiwanese Evergreen Maritime Corporation e la cinese Hutchison Whampoa, che controllano il 90% del traffico nell’hub dei cointainer tarantino, ave vano dirottato altrove i loro traffici. Ad irritare i dirigenti delle due società le promesse mai mantenute sull’interporto e sulle opere di riqualificazione dello scalo che movimenta 40 milioni di tonnellate di merci e container per 600 mila teu (twenty foot equivalent unit). Ad irritare i cinesi il fatto che il porto non venga mai dragato, la mancata costruzione di una diga foranea, il mancato potenziamento del raccordo ferroviario colo Nord e la persistenza delle strozzature strutturali dei collegamenti lungo la linea ferroviaria adriatica.

Spiega Angela Stefania Bergantino, professore associato di economia applicata all’università di Bari: “Taranto ha buoni fondali pere natura, ma certo il fatto che per un decennio non si siano fatti dragaggi  è un grave handicap. A titolo di riferimento si pensi che il porto nordico di Anversa, che non è neanche sul mare ma a cinquanta miglia interne sul fiume Schede, viene dragato di continuo. Da noi però se mandi una richiesta di Via al ministero non ti rispondono neanche, per ogni appalto scattano i ricorsi e i controricorsi al Tar, insomma così non si va da nessuna parte…”.

Ripulire i fondali può poi riservare sgradevoli sorprese, come è successo al porto di La Spezia dove l’operazione si è rivelata più costosa del previsto (25 milioni di euro).

Un quadro degradato, dunque, che fino al 20 giugno del 2012 ha accompagnato la crisi più grande ancora del sistema industriale tarantino targata Ilva.

Quel giorno infatti il governo Monti è corso ai ripari e ha operato per una scelta forte varando un piano di rilancio del porto basato su uno stanziamento di 187 milioni di euro a cui vanno aggiunti altri 219 milioni per il piano di investimento nella piastra logistica. In totale oltre 400 milioni sono ora a disposizione per il rilancio del porto di Taranto.

“Ottanta milioni di euro saranno investiti da Evergreen ed Hutchison per l’acquisto di gru e di locomotori per il traffico container sui ferrovia”, ha ricordato il presidente del porto professor Sergio Prete. “Soprattutto si sono impegnati a portare un milione di container all’anno a partire dal 2014”.

Il porto nel frattempo ha siglato due accordi  internazionali, il primo con l’hub di Shanghai e il secondo con quello di Rotterdam che ha scelto Taranto come partner strategico per il Sud Europa. Un ulteriore accordo è in via di definizione col porto di Shenzen.

In questo quadretto a rose e fiori incombono però alcuni problemi irrisolti, come quelli che s’incontrano sulla linea ferroviaria adriatica almeno in un paio di punti.

I container infatti non riescono a transitare attraverso le strette gallerie esistenti all’altezza di Cattolica e nel tratto Lesina-Termoli. Una strozzatura che manda in bestia i cinesi e fa sgranare i loro occhi a mandorla.

Ma del resto che c’è da aspettarsi in un’area come quella del tarantino dove nel palazzo che ospita il Comune del capoluogo regionale, Bari, si è accolti da un enorme striscione che dice: “La Puglia è un binario morto, ridateci i treni…”.

I treni, già. Alla fine del 2011 Trenitalia ha eliminato una dozzina di treni dal sud al nord, compresi tutti quelli notturni. Risultato, per andare da Bari a Napoli oggi si deve cambiare a Caserta, niente più treno diretto. Se da Roma a Parma ci vogliono tre ore, tra Roma e Bari (se va bene) sono quattro ore e un quarto. Non è solo questione di Puglia. Oggi un treno da Roma a Palermo impiega ben 34 minuti in più rispetto al 1975, Matera continua ad essere l’unica città d’Italia senza ferrovia (c’è però una stazione…), da Catania a Palermo per fare i 180 chilometri occorrono quattro ore e mezzo. E come dimenticare il cinquantenario scattato il 21 gennaio 2012 per la costruzione dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria tuttora incompiuta?

Perciò perché meravigliarsi delle strozzature della linea ferroviaria adriatica, di quelle gallerie che non consentono il passaggio dei container d’oggigiorno?

“I trasporti sono una rete fatta di nodi e collegamenti – spiega la professoressa Bergantino -. Il finanziamento arrivato va finalmente nella direzione giusta perché se l’hub non è collegato alla

rete non ha nessun respiro. Oggi come oggi non ha neanche un collegamento diretto autostradale. Il problema di fondo resta però la linea ferroviaria con il suoi due punti critici sull’Adriatica. Per quello di Cattolica c’è un progetto approvato ma per il tratto Lesina-Termoli il progetto non ha l’approvazione del ministero dell’ambiente che vorrebbe spostare la linea più all’interno. Insomma tempi purtroppo ancora molto lunghi per vedere risolta una questione che è capitale per Taranto e i suoi annosi problemi…”.

Riusciranno i container a tornare dal Pireo a Taranto? Riuscirà Taranto a collegarsi a una retre ferroviaria più moderna?

da “Uomini e donne del Sud” (Imprimatur editore)

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