Renzismo terminale
Di Marco Revelli
L’accelerazione impressa da Matteo Renzi nel suo “semestre europeo” lascia sul terreno cumuli di macerie (a cominciare da quelle del suo partito). E apre almeno tre grandi questioni, clamorosamente evidenti in questi giorni solo a volerle vedere: una questione istituzionale, annunciatasi fin dalla battaglia d’estate sul (e contro il) Senato. Una nuova questione sociale: nuova perché si poteva pensare che già col governo Monti si fosse arrivati a mordere sull’osso del mondo del lavoro, e invece ora si affondano i colpi ben sotto la cintura. Infine una grave questione democratica, resa drammatica dall’intrecciarsi delle prime due, e dal ruolo che la crisi gioca nel dettarne modi e tempi di sviluppo.
Renzi — nonostante le retoriche che ne accompagnano e potremmo dire ne costituiscono l’azione — non rappresenta una possibile soluzione della crisi economica e sociale italiana. Non ha né la forza (nei rapporti inter-europei) né le idee per aprire anche solo uno spiraglio. Ma condensa in sé — nella propria stessa persona, nel proprio linguaggio e nei propri comportamenti quotidiani, oltre che nelle misure che impone — il modo con cui la crisi lavora. È, si potrebbe dire, il lavoro della crisi tradotto in politica: ne converte in pratica di governo tutto il potenziale destabilizzante.
Ne accompagna e ne garantisce lo sfondamento dei residui livelli di resistenza e di ostacolo al libero dispiegarsi del potere del denaro da parte di ciò che resta dei corpi sociali e delle loro consolidate tutele. Ne conduce a compimento la liquidazione dei patti che avevano costituito il tessuto connettivo della “vecchia” società industriale, e delle culture che ne avevano accompagnato sviluppo e conflitto.
In questo senso Renzi non è l’alternativa all’intervento “d’ufficio” della Troika, un male minore rispetto a quello toccato alla “povera Grecia” che ha dovuto subire i tre Commissari-guardiani. Renzi è la Troika, interiorizzata. E’ la forma con cui l’Europa dell’Austerità e del Rigore governa il nostro Paese. Nell’unico modo possibile nelle condizioni date: con una formidabile pressione dall’esterno, e con un’altrettanto forte carica di populismo all’interno.
Se li si leggono con un po’ d’attenzione si vedrà che i punti del suo programma, imposti con stile gladiatorio e passo di corsa a un mondo politico attonito, ricalcano fedelmente il famigerato Memorandum che ha prodotto la morte sociale della Grecia: privatizzazioni con la motivazione di far cassa, in realtà per metter sul mercato tutto ciò che può costituire un buon affare; abbattimento delle garanzie e del potere contrattuale del lavoro in nome dei “diritti dell’impresa”; ridimensionamento del pubblico impiego in termini di spesa e di occupazione; rimozione degli ostacoli alla rapidità decisionale da parte delle forme tradizionali della rappresentanza politica e sociale.
Se collocati in questo quadro si spiegano, allora, quelli che altrimenti sembrerebbero solo una sequela di strappi, forzature, ostentazioni di arroganza, maleducazione, guasconeria e improvvisazione (che pure non manca). E’ evidente infatti che un simile progetto non può essere messo in atto con mezzi “ordinari”. Richiede un’eccezionalità emergenziale, sia per quanto riguarda lo sfondamento dell’assetto costituzionale: e a questo è servito l’auto da fé in diretta di uno dei simboli della democrazia rappresentativa, la “camera alta”. Sia per quanto attiene al livello simbolico: ed è quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi con l’umiliazione ostentata del movimento sindacale e del mondo del lavoro.
Perché se maramaldeggiare con i brandelli residui dell’articolo 18 e con ciò che resta dello Statuto dei lavoratori non porterà un solo posto di lavoro, come è chiaro pressoché a tutti, è pur vero che la celebrazione del sacrificio spettacolare, in piena piazza mediatica, secondo i vecchi riti dell’ordalia, continua ad avere un effetto simbolico straordinario. Tanto più se la vittima sacrificale – l’homo sacer direbbe Agamben -, è uno dei protagonisti centrali del nostro passato prossimo come, appunto, il lavoro nella forma politico-sociale del movimento dei lavoratori.
Imporne la degradazione pubblica. Liquidarlo in otto minuti d’introduzione e un’oretta di udienza. Abbattere anche le residue garanzie perché, come ho sentito dire autorevolmente, occorre liberare gli imprenditori dall’ «arbitrio di un giudice» (sic!), significa nell’immaginario collettivo rovesciare il mondo. Riscrivere l’articolo uno della Costituzione affermando che «L’Italia è un’oligarchia plebiscitaria fondata sull’impresa» e, al secondo comma, che «la sovranità appartiene ai mercati, i quali l’esercitano in modi e forme discrezionali, senza limiti di legge».
Ha ragione Susanna Camusso nell’affermare che l’unica cosa che interessa al premier è presentarsi all’Europa degli affari con lo scalpo dei lavoratori in mano. Con un’aggiunta: che Renzi quello scalpo lo vuole usare anche nei confronti dei suoi, e di un elettorato frantumato, impoverito, rancoroso per le umiliazioni subìte spesso senza trovare adeguata difesa da parte dei propri rappresentanti politici e sindacali, da catturare con l’immagine forte di una vittoria sacrificale.
Per questo dico – e sono consapevole del peso delle parole – che siamo in presenza di una “emergenza democratica”. Non solo perché il “renzismo” ha già cambiato il Dna del suo partito d’origine, trasformandolo in un ectoplasma risucchiato in alto, tra le mura di Palazzo Chigi, e avviandosi verso quello che a ragione è stato definito il “partito unico del premier”. Non solo perché, parallelamente, ha ridotto un Parlamento amputato a ufficio di segreteria del Governo, chiamato a firmarne le carte (come si è visto ieri), mentre col patto del Nazareno ha definitivamente omologato l’antropologia politica, rendendo pressoché indistinguibili quelle che un tempo erano state “due Italie” eticamente e culturalmente diverse e ampliando così, d’incanto, il serbatoio di voti a cui attingere.
Ma soprattutto perché con Renzi si conclude una vera e propria mutazione genetica del nostro sistema politico e istituzionale, con la verticalizzazione brutale di tutti i processi, concentrati nella figura apicale del premier; la riconduzione del potere legislativo non solo “sotto”, ma “dentro” il potere esecutivo, come sua appendice secondaria; la tendenziale liquidazione dei corpi intermedi – la “società di mezzo”, come la chiama De Rita, comprendente le variegate forme di aggregazione e di rappresentanza sociale -, che potrebbero fare da ostacolo al rapporto diretto del Capo col suo Popolo, fascinato (“sciamanizzato”) retoricamente secondo la classica immagine del Demagogo. Con la pessima tecnica di convertire la disperazione in speranza mediante espedienti verbali e l’evocazione del miracolo. Una forma di plebiscitarismo dell’illusione, che lascia tutti i problemi irrisolti, ma che premia enormemente in termini di potere personale.
Ora se questo è vero, o anche solo in parte condiviso, quello che s’impone, d’urgenza, è non solo un’opposizione convinta e intransigente sui singoli provvedimenti (che è condizione necessaria, anche se non sufficiente) ma, al di là di ciò, la costruzione di una proposta ampia – politica, sociale, culturale, morale – in grado di contrastare questo processo all’altezza della sfida che lancia. Un fronte articolato, imperniato sui diritti e sul lavoro, capace di radunare tutto ciò che ancora nello spazio rarefatto della politica resiste ma soprattutto in grado di mobilitare forze nuove, oggi disperse, con linguaggi, idee, forme organizzative innovative e aperte. Di fare e conquistare opinione e impegno.
Lo dico con molto rispetto per posizioni che so vicine a questo sentire, come quella espressa sul manifesto da Airaudo e Marcon: se ci limitassimo ad assemblare semplici pezzi di classe politica — ciò che resta della sinistra politica che non si arrende, i refrattari dell’arena parlamentare o delle sue immediate vicinanze -, se pensassimo che il “renzismo” si arresta mobilitando per linee interne la cosiddetta minoranza del Pd (alla cui patetica prova abbiamo assistito ieri) saldata a ciò che rimane del tradizionale e ormai cancellato centro-sinistra proponendone una nuova piccola casa, temo che non andremmo molti avanti. E anzi, forniremmo a Matteo Renzi un bersaglio perfetto contro cui sparare a palle incatenate, nominandosi campione del nuovo contro tutto ciò che sa di residuo.
Serve al contrario, a mio avviso, sfidarlo sul terreno alto dell’alternativa a tutto campo, italiana ma in un quadro a dimensione europea (perché è pur sempre lì che si gioca la partita che conta), dello stile politico e dell’egemonia culturale. Un processo inclusivo di tutti, senza esami del Dna, aperto, innovativo, in grado di riportare dentro quella ampia sinistra diffusa che sta fuori dalla sempre più ristretta sinistra politica.
La “chimica” della lista L’altra Europa con Tsipras ha, in qualche modo, anticipato questo approccio (anche nel suo respiro europeo) e costituito un primo passo. Oggi, nelle nuove dimensioni, è a sua volta insufficiente a reggere la sfida: il suo milione e centomila elettori può esserne un nucleo iniziale, non l’intero corpo. Ma credo che sia su quella strada che occorra incamminarci, assumendo intanto come prima tappa la piazza del 25 ottobre. Altre ne verranno