Informazioni che faticano a trovare spazio

Il 7 aprile la mafia aveva provato anche a intimidire un giudice popolare, incendiandogli l’auto di un congiunto

Il segnale era arrivato il 7 aprile. A Mazara del Vallo incendiata di notte l’auto – una piccola Panda – di un congiunto di uno dei giurati. Se ne è parlato poco, dio sfuggita, ma questo è stato il primo segno tangibile e il chi-va-là di un processo estenuante, andato troppo per le lunghe, per oltre tre anni, con un’infinita necessità di accontentare le difese sondando le “loro” vecchie e consunte piste diverse.

In Sicilia gli avvertimenti sono secchi, chiari, poco rumorosi. Però ci sono. E Trapani non sarà più quella provincia dove in apparenza non succede nulla e dove succedeva tutto, ma quell’impasto orribile di poteri che si sono abbracciati per anni all’ombra della mafia non è certo finito nel nulla.

La Procura ha cercato di stringere intorno a questi due rappresentanti del potere mafioso come Vincenzo Virga e Vito Mazzara, un po’ troppo, no?

Vincenzo Virga (nella foto) si è rivolto alla Corte nell’ultima udienza con estrema deferenza: “Signor Presidente…” Ecco, così si fa. Vito Mazzara da buon subalterno ha taciuto.

Per loro ha poi parlato un ex pezzo di Stato, gli uomini del Ris come l’ex generale Garofano e un suo collega. Questi signori che si sono fatti un nome con le attrezzature e i soldi dello Stato sono venuti, ben pagati come consulenti, a irridere ai periti scelti dai magistrati. Un bel copione, non c’è che dire.

E poi i loro avvocati, tuonanti come si deve, che non si sono fatti mancare nulla, neanche la richiesta di procedere contro il cronista che ha alimentato la pagina Facebook per dare a un’Italia molto lontana il resoconto di queste ben 76 udienze.

Siamo a Trapani, estrema punta d’Italia, oltre c’è il mare, quel mare che inghiotte poveri migranti. Il Paese è lontano, i suoi media anche. Qualche sperduto cronista si è gingillato con vecchie piste, quelle dei depistaggi per capirci, e ha portato acqua al mulino della confusione.

Le prove però sono bastate.

Ma sono passati 26 anni dall’omicidio, è già un miracolo che ci fossero delle prove.

Una diceva che al 99,9999% quel Dna trovato sul fucile scoppiato è compatibile con quello di Vito Mazzara.

E così a ventisei anni dalla morte e a 76 udienze seguite dai familiari con faticosi e onerosi spostamenti dalla loro vita – che è normalmente a Torino – eccoci qua con un minimo di giustizia ridata. E con la scorta di tutte le giuste parole che la Procura e gli avvocati di parte civile, ,ma anche parecchi testimoni, hanno speso su Mauro Rostagno riportando in luce la grandezza del suo fare, il suo sacrificio, il suo coraggio, la primavera che anticipava.

15 maggio 2014, un po’ di giustizia è finalmente arrivata.

Ra ne facciano tesoro un po’ tutti, anche le istituzioni più alte, che in tanti anni non si sono sempre ricordati di Mauro Rostagno.

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