Sul fucile usato per uccidere Mauro Rostagno il Dna di Vito Mazzara ma anche il Dna di un suo parente stretto. La perizia balistica discussa mercoledì scorso inchioda Mazzara (trovato un dna compatibile col suo al 99,99%), tanto più che il fucile è stato maneggiato anche da un suo parente. Quando? Durante l’agguato? Prima?
Qui di seguito alcune considerazioni sull’udienza di mercoledì scorso del processo per l’omicidio di Mauro Rostagno. Come è emerso dalla discussione con i periti sulle ricerche del Dna relativamente al fucile usato per uccidere Rostagno ed esploso durante l’agguato il dna analizzato è compatibile al 99,99% con quello di Vito Mazzara, l’accusato di aver eseguito l’omicidio su ordine del boss Vincenzo Virga.
Sul fucile è stato poi rilevato un secondo Dna che per i periti appartiene a un parente molto stretto di Mazzara, circostanza finora mai emersa. L’hanno chiamato A-18.
Dell’importante udienza come ha rilevato Adriano Sofri oggi su Repubblica nessun riflesso sulla stampa, nonostante gli importanti risvolti. Adrfikano Sofri era presente all’udienza di mercoledì, con Chicca Roveri,
Aggiungo poi l’articolo di Rino Giacalone che ha seguito come sempre l’udienza curandone la trascrizione che compare sulla pagina Fb “Processo per l’omicidio di Mauro Ristagno” e poi traendone come in questo pezzo il succo.
La verità su Rostagno raccontata dal Dna nel processo al boss
di Adriano Sofri
La Repubblica 1.3.14
Mercoledì 26 febbraio: si tiene in Corte d’assise a Trapani un’udienza (la sessantatreesima in tre anni) del processo per l’assassinio di Mauro Rostagno, ventisei anni dopo. I periti incaricati dalla Corte riferiscono sui risultati dell’esame delle tracce di DNA lasciate sui frammenti lignei del sottocanna del fucile usato per l’omicidio. Hanno individuato, spiegano, una “relazione di verosimiglianza” molto forte tra il DNA dell’imputato dell’esecuzione materiale, Vito Mazzara, e uno dei profili rilevati. Che la compatibilità sia “molto forte” non è un’espressione comune, è la traduzione (very strong) di una scala tecnica che contiene 5 gradi di evidenza dell’attribuzione: “debole”, “moderata”, “forte”, “molto forte”, ed “estrema”. “Molto forte vuol dire che la probabilità che un profilo preso a caso nella popolazione coincida con quello rilevato dell’imputato è di una su cento milioni”. (Nel caso di un’evidenza “estrema”, sarebbe di una su miliardi, ed equivarrebbe “alla certezza che un solo individuo sulla faccia della terra possa aver lasciato quella macchia”). Impressionante com’è, la relazione dei periti riserva un altro formidabile colpo di scena. Nelle tracce rilevate, il profilo di uno sconosciuto particolarmente individuato, siglato come “A 18”, appartiene a un parente (maschio) dell’imputato: “è parente biologico di primo o di secondo grado di Mazzara Vito con una probabilità del 99,9%, e specificamente la parentela più verosimile è quella di secondo grado (che include le coppie zio-nipote, i fratelli unilaterali – di padre o di madre –, i cugini doppi, e altre parentele più complicate)”…
I periti d’ufficio che così asciuttamente riferiscono –Elena Carra, dell’università di Palermo, Paola Di Simone, della polizia scientifica di Palermo, e Silvano Presciuttini, dell’università di Pisa- sono oltretutto ignari della circostanza, riferita a suo tempo dal “pentito” Ciccio Milazzo, secondo cui Vito Mazzara (66 anni, già campione di tiro a volo) si esercitava a sparare con uno zio, Mario Mazzara, nel frattempo deceduto, e con altri due uomini d’onore, Salvatore Barone e Nino Todaro. L’imputato Vito Mazzara, assiduo in aula –dove non ha mai risposto- è detenuto, condannato all’ergastolo per l’omicidio dell’agente penitenziario Giuseppe Montalto, e altri omicidi commessi agli ordini di Cosa Nostra e, per la zona di Trapani, del boss Vincenzo Virga. Virga, 75 anni, anche lui ergastolano detenuto, è imputato come mandante. Per svolgere la perizia assegnata dalla Corte le due biologhe e il docente di biostatistica hanno lavorato sul DNA di 8 “professionisti” di cui era accertato l’intervento sui reperti nel corso delle indagini, in modo da separarne i profili (curiosamente, uno di loro, un ufficiale dei carabinieri, si era tenacemente opposto al prelievo del proprio DNA, nonostante la perizia sia anonima quanto all’attribuzione dei profili rispettivi). E’ risultato così che, oltre agli 8 e all’imputato, sono presenti nei frammenti del fucile calibro 12 tracce genetiche di altri individui non identificati, uno dei quali, quel “A 18”, legato da parentela all’imputato. Si sa che il ricorso più diffuso alla genetica ha a che fare con gli accertamenti di paternità, che hanno superato il proverbiale “mater semper certa, pater autem incertus”, e inciso sulla questione scottante dell’eredità dei patrimoni. Qui, inaspettatamente, l’indagine sulla presenza di un soggetto sull’arma del crimine ha portato a trovarne un secondo a lui affine, raddoppiandone per così dire l’evidenza.
Il colpo di scena mi ha riportato a un classico di Mark Twain, “Wilson lo zuccone” (poi ritradotto come “lo svitato”) che sono corso a rileggere appena uscito dall’aula, nella gloriosa edizione della Bur. Grazie alla mania di raccogliere e studiare le impronte digitali, l’eccentrico Wilson risolve un caso di omicidio complicato dalla sostituzione in culla di due bambini somiglianti come gocce d’acqua. (Tema ripreso nel Principe e il povero). Nel testo di Twain era ancora viva la sensazione suscitata dalla scoperta delle impronte digitali –Wilson chiede a tutti di passarsi le mani nei capelli e poi depositare l’impronta sui suoi vetrini. Le meraviglie dei ghirigori dei polpastrelli culminavano nella singolarità dei gemelli. Il famoso saggio di Carlo Ginzburg sul “paradigma indiziario”, “Spie” (1979) ripercorre la storia dei modi in cui l’individuazione si è venuta svolgendo, nelle attribuzioni artistiche o nelle certificazioni di polizia, fino alle impronte digitali.
Non so se le mirabolanti conseguenze delle analisi del DNA abbiano già suscitato una letteratura romanzesca adeguata, ma assistendo all’udienza trapanese ho avuto l’impressione che la realtà ne stesse scrivendo, pressoché inavvertitamente, un capitolo inedito e spettacoloso. E insieme un amaro risarcimento alle falsificazioni, manipolazioni e sciatterie che hanno oltraggiato per un quarto di secolo l’indagine sull’omicidio di Mauro Rostagno. La fantasia narrativa seguirà, ma qui la perizia scientifica e la strumentazione di laboratorio vengono a capo di una tragedia umana e civile e di una procedura penale, dopo che si è fatto di tutto, in stolidità o complicità, per cancellare, confondere e rimescolare tracce.
La presenza del parente “A 18” sul reperto non dimostra che il non identificato (finora) parente si trovasse sul luogo del delitto, perché avrebbe potuto maneggiare l’arma in circostanze precedenti. Era stata proprio l’indagine sui reperti, bossoli cartucce e parte del fucile, a far riaprire il processo, grazie all’iniziativa del capo della squadra mobile di Trapani, oggi a capo della DIA campana, Giuseppe Linares, dopo che per vent’anni non era stata eseguita nemmeno una perizia balistica. Del resto, durante questo processo, membri dell’Arma hanno dichiarato di non aver mai seguito la pista mafiosa perché nessuno gliel’aveva ordinato, e non ritenevano di farlo di propria iniziativa.
Il prossimo 14 marzo i pubblici ministeri, le parti civili e la difesa discuteranno la relazione dei periti (illustrata in oltre 600 pagine). La difesa di Mazzara ha assunto come consulente l’ex generale dei carabinieri Luciano Garofalo, già capo dei Ris di Parma e star televisiva. Il processo dovrebbe concludersi a maggio. La corte d’assise, che comprende i sei giudici laici, è guidata dal presidente Angelo Pellino (cui si devono le motivazioni delle sentenze nei processi per Mauro De Mauro e Peppino Impastato) e dal giudice a latere Samuele Corso. Dopo la clamorosa udienza di mercoledì, ho aspettato di leggere cronache e commenti. Non sono venute, une e altri. Sembra stridere, questa distrazione di oggi, col fragore delle “piste” lanciate in passato: omicidio fra compagni, questione di amorazzi, fesseria di drogati, scoperte su traffici di armi internazionali… Ma non è così, non stride. Il silenzio di oggi è semplicemente la continuazione di quel frastuono di ieri e dell’altroieri.
E’ la mafia che ha firmato il delitto Rostagno
Di Rino Giacalone, Venerdì 28 febbraio 2014 alle ore 12.57
L’esito dell’esame del Dna manda all’aria le tesi della difesa. Rostagno fu ucciso da Cosa nostra. L’imputato Vito Mazzara adesso si affida ad un generale dei carabinieri, Garofano ex capo del Ris di Parma
di Rino Giacalone
Quando nel 2011 cominciò il processo per il delitto di MauroRostagno dinanzi alla Corte di Assise di Trapani i dati salienti contro i due imputati, Vincenzo Virga, mandante, e Vito Mazzara, sicario, erano circoscritta questo scenario. Rostagno ammazzatodalla mafia perché dava fastidio. Se Impastato stava a 100 passi dal boss, lui lavorava a 5 passi dalla stanza in cui di tanto in tanto Angelo Siino, il ministro dei Lavori Pubblici di Totò Riina, si incontrava con i suoi referenti trapanesi. Uno di questi era Puccio Bulgarella, editore di Rtc, la tv dove Rostagno era andato a lavorare portando con se alcuni dei ragazzi della Saman,la comunità di recupero per tossicodipendenti. La stanza di Bulgarella era affianco a quella di Rostagno. Il processo si è sviluppato attorno alle confessioni dei pentiti, ai riscontri balistici, alle piste indicate dalla difesa del tutto diverse da quelle mafiose. Ma l’esame del Dna ha fatto rialzare quel sipario che stava scendendo sul dibattimento. Le firme di Cosa nostra su quell’omicidio non sono poche.
Un po’ di storia. Vincenzo Virga, hanno raccontato i pentiti, ricevette l’ordine di morte dal padrino belicino don Ciccio Messina Denaro: Rostagno da giornalista a Rtc aveva deciso di fare il “terapeuta” (cit. Maddalena Rostagno)di una città silente e connivente e per questo era diventato una “camurria” perla mafia; Ciccio Messina Denaro non era uno che andava per il sottile, oggi suo figlio, il latitante Matteo Messina Denaro, incarna benissimo ciò che era il padre, don Ciccio non esitò un giorno a fare uccidere un suo figlioccio perché questi aveva fatto sparire una partita di droga, figuriamoci se potesse oltre sopportare quel giornalista che ogni giorno parlava di mafia e per giunta pensava di accettare l’invito a candidarsi a sindaco di Trapani. E’ lungo l’elenco dei pentiti che hanno raccontato il rancoroso malumore del padrino di Castelvetrano e non solo il suo, non può essere dimenticato quello di don Mariano Agate, padrino di Mazara, che dal banco degli imputati un giorno mandò a dire a Rostagno di finirla di raccontare minchiate: ci fu anche chi spiegò perché Rostagno andava ammazzato a Trapani, all’epoca gli investigatori cercavano Totò Minore, pensavano che fosse lui il capo della mafia trapanese, ammazzando a Trapani Rostagno i mafiosi ragionarono bene pensando che quell’omicidio sarebbe stato attribuito a Minore che invece era già stato tolto di mezzo da 5 anni. In effetti fu quello che accadde. La Squadra Mobile di Rino Germanà inquadrò subito il delitto dentro uno scenario mafioso, ma ricondussero tutto a Totò Minore. Ipotesi che però cominciò avacillare quando pochi mesi dopo il delitto Rostagno fu ammazzato un apparente innocuo operaio dell’Enel, tale Vincenzo Mastrantonio…e per una delle prime volte venne fuori il nome di Vincenzo Virga, Mastrantonio solitamente era il suo autista. Ma non era la Polizia più ad occuparsi del delitto Rostagno, erano i carabinieri…e tutto il resto è storia.
Vito Mazzara come Vincenzo Virga non è arrivato da sconosciuto al processo. Tutti e due in cella e con condanne all’ergastolo.Vito Mazzara è un ex campione di tiro a volo, indossava la casacca “azzurra”,grazie a questo “titolo” usava l’escamotage di potere girare in auto con appresso il fucile calibro 12: “se mi fermano – spiegava ai suoi interlocutor imafiosi – posso sempre dire che vado ad esercitarmi al tiro”. Una perizia del gabinetto di Polizia Scientifica, eseguita dopo che l’allora capo della Mobile Giuseppe Linares si accorse grazie alla puntigliosità di un suo collaboratore, Nanai Ferlito, che nel fascicolo, prossimo all’archiviazione, quindi quando oramai le indagini dei carabinieri si erano chiuse definitivamente, mancava unconfronto balistico tra i delitti antecedenti e successivi a quello di Rostagno. Saltarono fuori alcune coincidenze, diverse cartucce presentavano parecchie striature, una sopra all’altra; mistero risolto con la confessione del pentito Ciccio Milazzo: abitudine di Mazzara era quella di sparare a freddo le cartucce così che quando sarebbero state esplose per uccidere sarebbe stato difficile risalire all’arma. Quella abitudine di Vito Mazzara fu indicata come “la firma della mafia” sul delitto.
Nel corso del dibattimento però la perizia originaria èstata messa in discussione. Alcune certezze su compatibilità sono venute meno,sono arrivati anche i super periti incaricati dalla Corte di Assise, ma nessuno ha mai detto di potere escludere con certezza le compatibilità balistiche. Comela difesa dei due imputati avrebbe voluto.
Ma la difesa notoriamente ha fatto anche altro. Ha cercatodi portare la Corte di Assise verso altre piste. Virga e Mazzara non c’entrano col delitto…Cosa nostra non c’entra con l’omicidio. Il movente sarebbe stato da ricercare nella cosidetta pista interna, i contrasti dentro Saman, al misterioso traffico di armi che Rostagno avrebbe scoperto, addirittura hanno fatto riemergere circostanze appurate ed esclude da tempo, il collegamento trail delitto Rostagno e le indagini allora in corso sul delitto del commissario di Polizia Luigi Calabresi, e quindi Lotta Continua, le trame di quegli anni,hanno fatto anche scomodare l’ex Br Renato Curcio venuto in aula a non dir nulla e a ritrovarsi semmai a diventare personaggio. Fu sentito Curcio nella stessa udienza in cui testimoniò un avvocato, Salvatore Maria Cusenza, le sue parole furono importanti per spiegare semmai come mai la mafia aveva messo nel mirino Rostagno. Ma i giornali preferirono a questa testimonianza, le parole, inutili per il dibattimento, di Curcio. La difesa non ha nemmeno risparmiato d iprendere in esame la “pista delle corna”: “questione di corna fu” aveva detto nel 1988 Mariano Agate a chi della sua cosca gli chiedeva perché avevano ammazzato Rostagno. La Corte di Assise ha sondato tutte le piste offerte dalla difesa, ma nulla di concreto è stato mai raccolto. Sulla pista mafiosa invece ad ogni udienza è venuto fuori sempre qualcosa di nuovo, di inedito, qualcosa che era anche sepolto nei fascicoli, ma anche qualcosa di nuovo. Certo il puzzle non siè mai completato, ma molti tasselli sono stati occupati da fatti precisi: la mafia che nel 1988 cambiava pelle, mafiosi, imprenditori e politici che stavano sempre più vicino, i Messina Denaro che erano rimasti nell’ombra ma Rostagno si stava molto interessando alla cosca di quel luogo, aveva anche in mente una trasmissione, Avana, dove parlare di mafia, soldi, riciclaggio, droga, politica ed elezioni…massoneria.
Quando sembrava che il processo si doveva avviare alla conclusione, ecco l’iniziativa del presidente Pellino. Perizia del Dna. E l’esito è stato incredibile. Sulla canna del fucile esploso sulla scena del crimine a Lenzi quella sera del 26 settembre 1988 sono stati viste macchie di sangue che non apparivano all’occhio umano, scoperte da macchinari sofisticati. Il Dnaestratto è stato ritenuto fortemente compatibile con quello di Vito Mazzara. Ea questo punto non è più una sola la firma della mafia sul delitto. E c’è la certezza che il fucile usato è stato certamente in uso di Vito Mazzara. Ma non solo. Di firma ce ne è una terza. Su quella canna di fucile c’è un altro Dna, i periti hanno concluso che per la sua composizione va ricondotto ad un parente prossimo del Mazzara. Circostanza che non è nuova nel processo. Il collaboratore di giustizia Ciccio Milazzo quando fu sentito fece i nomi di chi solitamente accompagnava Mazzara quando c’era da andare ad ammazzare qualcuno,e tra i nomi fatti fece quello di Mario Mazzara, “zio” di Vito.
Sulla scena del delitto non c’erano quindi amici di Rostagno in cerca di vendetta, spacciatori scoperti, fidanzati oltraggiati, concorrenti in amori, agenti dei servizi segreti, ma c’erano killer mafiosi spietati che dovevano eseguire una sentenza di morte decretata dal padrino di Castelvetrano don Ciccio Messina Denaro. Non si tirino più fuori altre idiozie. La pista del traffico di armi non c’entra, ma questo non significa che Trapani non è stata,e forse ancora lo è, crocevia di questi traffici. E’ più seria la pista degli inciuci tra mafia, massoneria e politica, che era quello di cui Mauro Rostagno si stava occupando. Ci sono i suoi appunti a provarlo. Ci sono i suoi incontri finiti registrati negli atti giudiziari che i carabinieri avevano però smarrito.
Già i carabinieri. Quelli che dicevano che quel genere di cartucce erano solitamente usate dai cacciatori. E per poco non è entrato nella scena delle ipotesi l’incidente di caccia. Quelli che hanno la memoria flebile e di colpo hanno scordato gli incontri con Rostagno. Ma non solo loro. Di mezzo c’è qualche leggerezza di troppo commessa anche da poliziotti, quelli dell’operazione Codice Rosso, qualche ispettore anzioso di far carriera.
Il 14 marzo tocca alle difese porre le domande ai periti chehanno lavorato sul Dna. E la difesa di Vito Mazzara lo farà avvalendosi di un…carabiniere.L’ex generale dei Ris Luciano Garofano. Oramai in pensione ha scelto di proseguire l’attività. Ha accettato l’incarico di occuparsi delle faccende di un pluripregiudicato per gravi reati di mafia. Un pezzo da 90 come lo hanno indicato alcuni mafiosi intercettati. Vito Mazzara è uno che va protetto,cautelato, la sua famiglia non va abbandonata, “se si pente lui siamo consumati”.Così in alcune trascrizioni di intercettazioni è stato scritto. Lui non ha mai fatto una smorfia durante il processo. Si è posto nella gabbia dell’aula all’altezza del banco solitamente occupato da Maddalena e Chicca Roveri. Nelle ultime udienze in aula si è vista la moglie, una presenza quasi a rassicurare VitoMazzara che tutto è a posto..Almeno fuori dal Tribunale. Perché dentro quell’aula per lui, e Vincenzo Virga, le cose si stanno mettendo molto male.
L’11 aprile i pm cominceranno la discussione. Secondo ilcalendario la sentenza potrebbe essere pronunziata il 9 maggio. Il giorno cheammazzarono Peppino Impastato e Aldo Moro. Un giorno, il 9 maggio, checontinuerà a far parte della storia d’Italia: perchè il delitto di MauroRostagno fu un delitto di mafia ma non fu un fatterello trapanese, Rostagno èuno dei giornalisti ammazzati in Italia perché scrivevano senza remore ereticenze, parlava di mafia all’epoca in cui Borsellino e Falcone eranotacciati di essere professionisti dell’antimafia e mentre Cosa nostra ammazzavaa destra e a manca, fa parte a pieno titolo della trattativa infinita che hareso forte Cosa nostra.