Marco Omizzolo (Legambiente, Latina) ha scritto per “Corriere immigrazione” questo articolo dal titolo: “Quando ad affogare eravamo noi”. Ecco un brano:
Cominciamo dal lontano marzo del 1891. Un altro secolo, un’altra Italia, un altro mondo. Un bastimento inglese di nome Utopia (in greco significa “in nessun luogo”) partì da Trieste e fece tappa prima a Palermo e poi a Napoli. Nella città campana si riempì la pancia di uomini, donne e bambini. Destinazione le americhe, un mondo nuovo in cui ottenere lavoro, diritti, soldi, dunque la libertà dalla disoccupazione, dalla fame, dalla miseria, dalla dittatura, dalle ingiustizie ingoiate per secoli da generazioni di italiani, spesso operai, braccianti, e dalle loro famiglie. Il bastimento rappresentava la speranza, forse l’ultima, di non morire di fame. La nave salpò da Napoli il 12 marzo del 1891 con 3 passeggeri di prima classe, 3 clandestini, 59 membri dell’equipaggio e ben 813 emigranti, quasi tutti italiani, provenienti dalla Campania, Calabria, Abruzzo. Utopia arrivò davanti la baia di Gibilterra intorno alle 18.00 del 17 marzo del 1891, dopo aver superato Punta Europa. Il tempo era pessimo, la visibilità ridotta, la paura tanta e il viaggio ancora lungo. Il capitano, con quel carico di umanità speranzosa, sbagliò drammaticamente manovra e andò a sbattere contro il rostro di una corazzata inglese alla fonda. Calò a picco in pochi minuti, ingoiata dal mare in tempesta. I morti risulteranno 576. Italiani in prevalenza, morti durante il viaggio della speranza in mare straniero. Uomini e donne come gli eritrei e i tunisini del 3 ottobre. Nessuna differenza, stessa tragedia. Storie che si intrecciano e che dovrebbero farci riflettere. Solo pochi passeggeri riuscirono a salvarsi affrontando il mare agitato sulle insufficienti scialuppe di salvataggio. Una tragedia mai raccontata dal cinema. Forse perché quegli italiani morti dinnanzi alle coste del Portogallo non appartenevano all’alta borghesia inglese, come invece i ricchi passeggeri del Titanic. Quegli italiani erano operai, disoccupati, contadini abituati a mangiare pane e fantasia. Famiglie proletarie con la valigia di cartone e le tasche vuote. Anche all’epoca, il trasporto dei migranti spettava a vere carrette del mare con in media 23 anni di navigazione e una manutenzione che lasciava molto a desiderare. Navi che potevano contenere non più di 700 persone. Ne salivano a bordo invece più di 1.000, stipati alla meglio. Più corpi, più profitto. Poco importava delle condizioni igieniche, delle misure di sicurezza, del benessere di quel carico di braccia. Molti emigranti italiani perivano in quei tragici viaggi. Anche queste condizioni ricordano i viaggi di eritrei, libici, somali, sudanesi, senegalesi per giungere alle porte dell’Europa.
Non è l’unica storia di naufragio che ci riguarda. Il museo nazionale dell’emigrazione italiana di Roma ricostruisce storie e vicende della nostra emigrazione minuziosamente. Visitarlo consente di ricordare una parte fondamentale delle nostra storia e aiuta a superare stereotipi diffusi da una narrativa spesso artefatta e retorica. Oltre alla nave Utopia, ricordo i 549 emigrati, di cui molti italiani, deceduti nel naufragio del Bourgogne avvenuto al largo della Nuova Scozia il 4 luglio del 1898, i 1.198 emigrati, di cui ancora molti italiani, morti nel naufragio dei due Lusitania. Il primo affondò al largo di Terranova il 25 giugno del 1901 e il secondo, invece, affondato da un sottomarino tedesco il 7 maggio del 1915. Ancora, le 550 vittime del naufragio del Sirio, morti nel 1906 dopo avere urtato gli scogli della costa spagnola di Cartagena o i diversi italiani dei 1.523 morti nel naufragio del lussuoso Titanic del 14 aprile 1912. Nel novembre del 1915 morirono 206 italiani del piroscafo Ancona, affondato ad opera di un sottomarino austriaco, e ancora le 314 vittime italiane del naufragio della nave Principessa Mafalda dell’ottobre del 1927, affondato vicino le coste del Brasile e, infine, i 446 italiani dell’Arandora star, colpite mortalmente dai siluri di un sottomarino tedesco il 2 luglio del 1940. Italiani disposti a immensi sacrifici, a subire violenze e a sopportare rischi mortali. Venivamo stivati in terza classe, in condizioni pietose e considerati “tonnellata umana”. Le malattie erano frequenti. A volte partivamo sani e arrivavamo morti, se non gravemente malati. Capita lo stesso ai migranti che cercano di arrivare sulle nostre coste. Partono in buono stato di salute e, se riescono a giungere, sulle nostre coste, arrivano denutriti e a volte malati. Spesso però la scabbia, di cui tanto si è scritto e parlato, la prendono dopo essere stati presi in carico dal nostro sistema di accoglienza. La loro malattia, a volte, è nostra diretta responsabilità. La storia racconta ogni particolare, anche le più vergognose proposte umane. Come quella dell’ex Ministro dell’Interno, Roberto Maroni, il quale prevedeva la possibilità di sparare ai migranti in mare sulle nostre coste per impedirne, secondo il suo articolato ragionamento padano, lo sbarco.
Anche in questo caso la storia ci racconta di quando noi eravamo il bersaglio, come nel caso della nave Brazzo, che nel 1884, in un viaggio di tre mesi con 1.333 passeggeri a bordo, di cui 20 morti di colera, venne respinta a cannonate a Montevideo, o della Carlo Raggio che nel dicembre del 1888, con 1.851 emigranti italiani a bordo, ebbe 18 vittime per fame. Si deve ancora ricordare la Cachar, partita per il Brasile il 28 dicembre del 1888 con 2.000 emigranti italiani e arrivata a destinazione con 34 vittime per asfissia e altri per fame, la Frisia, anch’essa diretta in Brasile con a bordo 27 italiani morti per asfissia e più di 300 malati gravi e la Remo, partita nel 1893 con 1.500 emigranti italiani e arrivata a destinazione con 96 morti per colera e difterite, respinta dallo Stato del Brasile.
La storia, affermava Enzo Biagi, è una guida alla ricerca dell’uomo. Queste tragedie vissute da noi italiani dovremmo ricordarcele per sviluppare oggi un sistema di accoglienza civile, legale, rispettoso dei diritti umani e delle convenzioni internazionali per tutti i migranti che cercano di attraccare sulle nostre coste. Nessuno escluso. L’accoglienza è la condizione indispensabile per poterci considerare un Paese civile. Lo dobbiamo anche a noi stessi e ai nostri migranti morti in terra o in mare straniero.
Marco Omizzolo