Un pezzo nei blog del Fatto quotidiano, riguarda le madri tunisine che cercano i loro figli. Sono venute in Italia, hanno bussato a tante porte, non hanno avuto alcuna risposta. Perché?
Migranti, perché al dolore delle mamme tunisine non c’è risposta?
il Fatto, 29-01-2014
Claudio Figini
C’è una storia che in pochi conoscono e che voglio diffondere attraverso il blog, perché continui a essere divulgata. Protagonisti sono gli attivisti del Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali (FTDES): un’organizzazione nata a Tunisi per agire politicamente sulla situazione delle donne, dell’ambiente, dei migranti e del diritto al lavoro. All’inizio della sua attività, l’organizzazione non aveva previsto di farsi carico direttamente anche delle situazioni personali, finché i familiari dei giovani tunisini partiti in mare verso l’Italia, e dei quali non si avevano più notizie, hanno chiesto aiuto per conoscere le risposte che nessuno gli aveva mai dato.
Così, nella sede di FTDES, i familiari dei dispersi hanno iniziato a incontrarsi per far sentire la loro voce. “Siamo madri, padri, sorelle e fratelli nello stesso modo in cui lo si è in Europa. Perché dunque il nostro affetto e il nostro dolore non hanno lo stesso valore che in un caso simile sarebbe riconosciuto ai familiari di giovani europei?” ha detto la madre di uno dei dispersi al Social Forum di Tunisi.
Se è vero che ognuno vale uno, è altrettanto vero che ogni dolore ha diritto di essere compianto. «Persino una verità drammatica può confortare chi ha visto partire e scomparire il proprio figlio, marito, fratello» ha dichiarato il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini.
Queste domande rischiano di restare inevase se non saranno sottoscritti nuovi accordi tra Paesi frontalieri e ratificate convenzioni internazionali; se il governo italiano non prenderà le distanze dalla Bossi-Fini e dalle normative a questa connesse.
Perché sono anche – io dico soprattutto – le politiche di controllo migratorio dell’ultimo ventennio ad aver legittimato il silenzio delle istituzioni e dell’opinione pubblica. Lampedusa, anziché essere la Porta più a Sud dell’Europa, è diventa nell’immaginario collettivo un confine: la frontiera tra Italia e Nordafrica, dove viene esercitato il controllo. Ed è a quello stesso controllo che sono soggette le domande che non hanno trovato risposta, respinte come i tanti profughi richiedenti asilo che sulle coste italiane non sono mai approdati.
Nei giorni scorsi, il viceministro dell’Interno Bubbico e il sottosegretario Manzione hanno incontro Messaoud Romdhani, del Forum tunisino per i Diritti Economici e Sociali, insieme ai rappresentanti del CNCA, di Un ponte per e di Caritas Italiana, in merito alla sorte di quei migranti che hanno provato a entrare in Italia via mare e di cui si sono perse le tracce. I due esponenti del Governo si sono impegnati a promuovere un’indagine amministrativa sulle decine di dispersi tunisini nel naufragio avvenuto il 6 settembre 2012 a largo di Lampedusa e hanno dichiarato la propria disponibilità a progettare e sperimentare azioni che favoriscano il riconoscimento dei migranti che passano per mare.
Quest’apertura del governo mi sembra una feritoria ricavata nella frontiera mentale che separa due sponde di uno stesso mare e dentro cui molte delle domande senza risposta, ancora oggi, si strozzano. Proprio come tante volte si è strozzato in gola il grido di dolore delle madri tunisine.
Ci sono però anche segnali che lasciano sperare. L’impegno di chi, ogni giorno, incontra le persone più marginalizzate e contribuisce, col proprio lavoro, a cambiare gli equilibri sociali, economici e politici del nostro Paese. La storia che ho raccontato ne è un esempio: è frutto di un incontro avvenuto, lo scorso settembre, tra un gruppo di volontari e operatori del CNCA e i rappresentanti di alcune ong tunisine. La lettera da Tunisi, che vi invito a leggere, documenta quel viaggio.
L’altro è rappresentato dai tanti oggetti personali: fotografie, scarpe, diari, lettere d’amore, anelli, passaporti, banconote…che hanno trovato spazio nel Museo delle Migrazioni di Lampedusa. Uno spazio senza confini che conserverà tutto ciò che per anni è stato buttato via come spazzatura. «Vogliamo collegare la storia di Lampedusa con tutti i movimenti del Mediterraneo, creare un museo con la partecipazione degli stessi protagonisti. E non soltanto accumulare le loro cose, i loro scritti, ma studiarli con loro, vedere cosa loro ci raccontano», ha detto Giulio Cederna dell’Archivio delle Memorie Migranti.
Queste storie hanno bisogno di essere raccontate. E’ l’unico modo per non dimenticare le tragedie di cui siamo stati spettatori passivi e per non doverne documentare altre.
Islam, gli arabi pronti a pagare per la prima moschea a Milano
Il Caim, il Coordinamento delle associazioni islamiche, ha già avviato la trattativa con Palazzo Marino: il progetto di massima ha individuato l’area dell’ex Palasharp. “L’Italia non verserà un euro”
la Repubblica, 29-01-2014
ZITA DAZZI
C’è un progetto per la moschea a Milano. E ci sono anche finanziatori italiani e stranieri pronti a mettere i soldi necessari per costruirla al posto del tendone del Palasharp. La consegna da parte di chi se ne sta occupando in Comune è di tenere il tema sottotraccia, almeno fino a quando non ci sarà qualcosa di concreto. Perché al momento si tratta solo di ipotesi, di disegni tracciati su carta e di rendering che sfilano sui monitor dei pc. Ma che sulla moschea Palazzo Marino stia trattando non sembra più un segreto, poiché è condiviso che la città di Milano non possa arrivare all’Expo senza una moschea.
Una delicata e lenta trattativa si sta svolgendo fra il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris, alcuni imprenditori italiani e stranieri, oltre che ovviamente i rappresentanti delle comunità musulmane riconosciute nell’albo delle religioni. In particolare con i capicordata del Caim, il Coordinamento delle associazioni islamiche di Milano e provincia, 25 sigle fra le più note in città e nel territorio metropolitano. Le bocche sono cucite su un fronte e sull’altro, ma trapela che un progetto di massima per un nuovo luogo di culto da costruire nell’area dell’ex Palasharp è stato presentato ufficialmente a Palazzo Marino.
De Cesaris, che ha la delega all’Urbanistica e quindi la competenza ad assegnare nell’ambito del Pgt le aree edificabili, conferma che si sta lavorando su varie ipotesi ma oppone un netto «no comment». Dal suo ufficio smentiscono che vi siano a breve in previsione incontri con i vertici delle organizzazioni dell’Islam milanese. Davide Piccardo, portavoce del Caim, conferma: «Posso solo dire che c’è un dialogo in corso con questa amministrazione e che c’è piena consapevolezza, anche da parte loro, che il tema della nuova moschea non sia più rinviabile».
Piccardo non si nasconde dietro a un dito davanti alla domanda se ci sia un progetto già formalizzato o meno: «È ovvio che il Caim ha avanzato un progetto, che per ora non vogliamo rendere pubblico e che ha anche diverse possibili varianti. Non si tratta comunque di una tensostruttura destinata a essere smontata, ma di un manufatto in muratura che noi vorremmo a Lampugnano e che speriamo resti nel tempo, patrimonio della città e dei 120mila fedeli di religione islamica che qui risiedono».
A proposito dei fondi necessari per costruire l’edificio, le parole di Piccardo sono molto chiare: «Ci muoviamo alla luce del sole, il contribuente
italiano non spenderà un centesimo. Abbiamo indicato al Comune quali sono gli imprenditori italiani e le fondazioni straniere del Golfo Persico che metteranno a disposizione i finanziamenti necessari. Milano è una città internazionale, abbiamo uomini d’affari che vengono in visita spesso dai Paesi arabi. Ed è interesse diffuso che qui ci sia un luogo degno di questo nome per pregare. Basta garage, scantinati e capannoni, in vista di Expo ma non solo».