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Altre 15 pietre d’inciampo a Roma (13-14 gennaio): ecco le storie delle vittime da ricordare

MEMORIE D’INCIAMPO A ROMA

Lunedì 13 e martedì 14 gennaio altre 15 stolpersteines vanno ad aggiungersi alle 191 già collocate

ALCUNE STORIE

Alberto Di Giacomo

via dei Laterizi 27

Richiedente Alberto Lucidi

Figlio di fu Andrea e fu Bini Paola, dom. a Roma in via Candia n.101, fornaciaio, celibe.

Arrestato il 19.12.1943 da agenti P.S. Trionfale entrato Regina Coeli il 20.12.1943 alle ore 14.00, matr.n.13143, per disposizione Questura Ufficio Politico. Il 4.1.1944 “richiesto questura”

Deportato e immatricolato a Mauthausen il 13.1.1944 con il n.42101. Deceduto a Hartheim il 15.09.1944.

Nato a Magione (Perugia) l’8 gennaio 1886, fornaciaio. Anarchico. Soprannominato Moro o Moretto. Figura di spicco nella lotta dei lavoratori delle fornaci e dell’antifascismo di Valle Aurelia, più conosciuta come “Valle dell’Inferno”, zona in cui abitava. Fu arrestato già nel 1907 e nel 1908. Consigliere dal 1911 al 1920 della Lega di resistenza dei fornaciai. Irriducibile attivista sindacale e politico. Presente nel 1921 e 1922 agli scontri tra i fascisti e gli Arditi del Popolo di Vincenzo Baldazzi (‘Cencio’). Più volte arrestato e confinato durante il ventennio; definito come «truce», «attentatore». Dal 1929 abitò a via Tunisi nel quartiere Trionfale, dove frequentava l’esponente anarchico Errico Malatesta, che morì nel 1932. Ammonito nel 1927. Iscritto nella rubrica di frontiera. Condannato nel 1931 a tre anni di confino per “attività anarchica, Soccorso rosso” da scontare nell’isola di Lipari. Prosciolto nel 1932 con l’amnistia del decennale della marcia su Roma, fu considerato nel rapporto di polizia del Commissariato Trionfale «insensibile all’atto di clemenza» e sembra che organizzasse una «velenosa» e «subdola campagna contro il Regime e in particolar modo contro Sua Eccellenza il Capo del Governo», con «non comune scaltrezza», rappresentando «uno dei più pericolosi anarchici della Capitale» Compariva nella lista dei sovversivi pericolosi di Roma da arrestare preventivamente in particolari situazioni. Nel luglio 1940, con l’intervento dell’Italia nella seconda guerra mondiale, fu internato nel campo di concentramento dell’isola di Ventotene. Liberato solo nell’agosto-settembre 1943 dopo la caduta del fascismo.

Jean Bourdet, Paskvala Blesevic

via della Lungara 29 (Carcere di Regina Coeli)

Richiedente ANED (Associazione Nazionale ex Deportati)

Jean Bourdet

cella n. 278 nato a Pau (Dipartimento Bassi Pirenei) il 19.02.1919.

Abitazione a Formello, professione maestro elementare.

Preso in consegna il 3.1.1944 alle ore 12.00 da Tommiak P. Amo, Gruppo Sceling, dall’SS Kptch Wagner del S.D. Oggetti ritirati: nessuno. Dimesso il 4.1.1944 ore 17.00 a seguito di comunicazione del servizio di sicurezza del 4.1.1944 per un trasferimento in Germania .

Deportato e immatricolato a Mauthausen il 13.1.1944 con il n.42011. Deceduto ad Ebensee il 30.4.1945.

(scheda del terzo braccio a giurisdizione germanica, tradotta dal tedesco)

Tra i deportati del 4 gennaio 1944 vi era anche un giovane maestro francese in fuga dalla sua patria ed arrestato dalla polizia tedesca: Jean Bourdet, nato a Pau (Bassi Pirenei) nel 1919. Di lui si persero le tracce alla fine della guerra e la famiglia solo negli ultimi anni ha potuto conoscere il suo destino. Purtroppo il fatto di essere stato un cittadino francese in un convoglio di deportati italiani ha confuso e fatto perdere i riferimenti ai ricercatori francesi. Qualche traccia di Jean Bourdet si riscontra in un testo scritto da Curatola, durante la prigionia a via Tasso e al 3° braccio di Regina Coeli ed edito nel luglio 1944 subito dopo la liberazione di Roma :

«Pochi giorni dopo la esecuzione di Pozzi, venne condotto nella cella che dividevo con Poggioli, un maestro francese, Jean Bomdel (leggi Bourdet), il quale era fuggito dal suo paese onde sottrarsi al servizio obbligatorio del lavoro ed alla conseguente deportazione in Germania. I tedeschi erano però riusciti ad acciuffarlo a Roma, e in attesa di essere tradotto in Francia, egli traduceva a noi passi dei <Miserabili>».

Paskvala Blesevic

Nato a Sebenico (Dalmazia) il 13.5.1920.

Figlio di fu Antonio e Paic Paola, dom. a Sebenico, barbiere, celibe.

Arrestato il 26.12.1943 da agenti P.S. Castro Pretorio entrato a Regina Coeli il 27.12.1943 alle ore 16.00, matr. n.13842 per disposizione Questura Comm. Casini. Il 4.1.1944 “Richiesto Questura”

Deportato e immatricolato a Mauthausen il 13.1.1944 con il n.42005. Deceduto a Gusen.

Settimio Spagnoletto

via della Reginella 19

Richiedente Roberto Astrologo

Nato nel 1895, arrestato il 27 marzo 1944, deportato ad Auschwitz, fu assassinato il 23 maggio 1944.

Mio nonno Settimio Spagnoletto è stato portato via mentre svolgeva il suo lavoro per la comunità. Il suo lavoro consisteva nel portare via i nostri cari presso il cimitero e noncurante del pericolo fino all’ultimo proseguì nel suo lavoro. In un primo tempo fu mandato a Fossoli e di lì a poco nel campo di Auschwitz, dove morì. Lasciò la moglie e cinque figli: Fiorella, la più piccola (mia mamma), aveva solo cinque anni.

(Roberto Astrologo)

Lazzaro Di Porto

via Marmorata 169

Richiedente Settimio Perugia

Nato nel 1882, arrestato l‘8 maggio 1944, deportato ad Auschwitz, assassinato il 30 giugno 1944.

Dalle Memorie di Fortunata Di Porto, figlia di Lazzaro Di Porto.

“Non è facile tornare con la mente a quei giorni. Sono trascorsi ormai settanta anni eppure il ricordo è rimasto limpido in me, chiaro come fosse ieri. Prima delle leggi razziali mio padre, Lazzaro Di Porto, era proprietario di un emporio a Roma, in via Cincinnato, nel quartiere del Quadraro. Avevo quasi quattro anni quando gli è stata tolta la possibilità di lavorare.

A poco a poco la nostra vita cambiò e da una situazione agiata ci trovammo sempre più in difficoltà. Mio padre, non avendo più mezzi per affrontare il pagamento dell’affitto, decise di lasciare la casa dove avevamo vissuto fino a quel giorno. Trovammo ospitalità in casa dei nonni materni, nel quartiere di Testaccio e lì cominciai a frequentare la prima e la seconda elementare nella scuola Quattro Novembre.

Purtroppo, però, anche il mio approccio con la scuola non fu dei migliori: fui inserita in una pluriclasse per bambini di “razza ebraica”, eravamo obbligati ad entrare nell’istituto attraverso un portoncino secondario e potevamo entrare solo dopo che tutti i bambini avevano fatto il loro ingresso. Inutile puntualizzare che la stessa sorte ci toccava anche al termine delle lezioni.

I giorni passavano e la situazione si faceva sempre più drammatica. Anche lavorare abusivamente stava diventando difficile. I fascisti fermavano continuamente gli uomini che lavoravano per la strada. Ripetutamente minacciato e segnalato, papà non poté più esporsi personalmente, così anche se malvolentieri, fu costretto a mandarmi a lavorare al suo posto. Ancora mi rivedo là, in Via dei Giubbonari, una bimbetta con in collo una cassettina che conteneva veli da chiesa e ferretti per coprire i tacchi delle scarpe. Questi erano gli articoli in vendita… Non è questa infanzia violata?

Mio padre in ogni caso non mi abbandonava neppure per un minuto, nascosto in un portone osservava ogni mia mossa, pronto a proteggermi e ad intervenire appena ce ne fosse stata la necessità. Poi un giorno, le milizie fasciste mi fermarono, volevano sequestrarmi la merce. A quel punto mio padre uscì allo scoperto, intervenne per difendermi, così lo arrestarono conducendolo al commissariato di Campo dé Fiori.

La vita continuava a procedere fra un espediente e l’altro, finche arrivò l’otto settembre ed ogni sogno di libertà fu infranto dall’occupazione tedesca.

Non potete certo immaginare il terrore provato nell’udire le sparatorie e i cannoneggiamenti quasi sotto le finestre di casa. Ma tutto questo non fu nulla in confronto a ciò che sarebbe accaduto in seguito.

Il 16 ottobre era un sabato, mio padre era appena uscito per recarsi al Tempio, percorrendo la strada a piedi, notò subito che qualche cosa non andava per il verso giusto. Alcuni correligionari lo avvertirono che era in corso un rastrellamento nel ghetto e che i tedeschi avevano gli indirizzi di tutti gli ebrei. Mio padre corse indietro e cercò di avvertire le famiglie di sua conoscenza che abitavano in zona, affinché si mettessero in salvo. Anche noi uscimmo di casa in quel grigio e cupo giorno, camminammo sotto la pioggia, avevo l’impressione che come il mio cuore, anche il cielo piangesse. Camminammo incessantemente fino al Quadraro perché papà pensava che forse lì avrebbe trovato aiuto presso alcuni suoi conoscenti antifascisti, purtroppo non andò così, in zona c’erano molte squadracce che sorvegliavano e essendo conosciuti come famiglia ebraica avremmo messo in serio pericolo i nostri amici quindi ce ne tornammo zuppi e stanchi e senza alcuna speranza verso casa, ma come succede a volte, nei momenti di buio totale si intravede uno spiraglio di luce, per noi questa luce fu il signor Dino, il portiere dello stabile dove vivevamo; Dino si assunse una grande responsabilità, ci fece rientrare in casa raccomandandoci di fare finta che l’appartamento fosse vuoto. Così aveva dichiarato alla milizia e ai tedeschi. Le finestre dovevano restare sempre chiuse, non potevamo muoverci liberamente e soprattutto dovevamo parlare a bassa voce. Capirete quanto non fosse facile per un bambino vivere così. Nel novembre del 1943 mamma mise alla luce mia sorella più piccola, l’ultima delle quattro. Con la nascita di Silvia le cose si complicarono sempre di più. Io ero terrorizzata dalla guerra e quindi quando eravamo in casa non aprivo bocca neanche per respirare, ma come avremmo fatto a spiegare ad un neonato che non avrebbe potuto piangere se avesse avuto fame? Per non parlare poi delle fasce che, non potendo aprire le finestre, venivano stese in casa. Ancora oggi, in inverno, non riesco a sopportare la vista dei panni umidi che si asciugano vicino al termosifone, mi ricordano troppo quei momenti.

Mia madre, per sfamare le mie sorelle e me, fu costretta a vendere tutte quelle piccole cose che le erano rimaste come ricordo di una vita normale, un paio di orecchini che papà le aveva regalato per il suo compleanno, un braccialetto di quando era ragazza e perfino l’anello di fidanzamento, barattati per un pugno di crusca mescolata a un po’ di farina.

Poi giunse la primavera e nell’aria accanto al profumo dei fiori sentivamo l’imminente arrivo degli alleati. Erano sempre più vicini e le nostre speranze che tutto finisse, sembravano divenire realtà.

Nella mia mente i ricordi del mese di maggio si fanno confusi. Mi sembra tutto assurdo… Inaccettabile… Non doveva accadere… A pochi giorni dall’ingresso degli alleati a Roma! Era intorno alla fine del mese, mio padre uscì di casa e da quel giorno non l’ho più visto.

Ci raccontarono tante storie sulla sua cattura, sulla sua carcerazione a Regina Coeli, sul suo transito a Fossoli, sulla sua deportazione ad Auschwitz, sulla sua morte.

Una bambina, una bambina tante cose non le capisce ed io capivo soltanto che una mattina mio padre era uscito di casa e non era più tornato. Con il passare del tempo le cose non cambiarono, non capivo perché tante persone tornavano e Lui: Lui che io amavo più di tutto, lui non bussava alla porta, non fischiava sotto la finestra per avvertirci che era tornato. Ho aspettato, non so quanto ho aspettato che questo accadesse, aspettando e aspettando non riuscivo più nemmeno a percepire il tempo che passava e cambiava le cose attorno a me.

Gli anni passavano, io crescevo, non ero ormai più una bambina, ma nella mia mente mio padre non invecchiava era rimasto lo stesso uomo che io avevo visto andare via. Finché un giorno, era ormai il 1957 accadde un episodio che mi spaventò terribilmente e mi fece pensare molto. Ero sull’autobus con il mio fidanzato, oggi mio marito, quando intravidi un uomo per la strada che somigliava in tutto a mio padre, non capii più nulla, scesi di corsa dall’autobus e cominciai a rincorrerlo finché non lo raggiunsi. Non potete immaginare la sofferenza e il dolore provata nel capire che non era mio padre. Nei miei ricordi lo rivedevo così come quel triste giorno in cui aveva chiuso dietro di sé la porta di casa, ma in realtà erano già passati più di dieci anni.

Credo sia stato solo allora che per la prima volta io abbia cominciato a maturare l’idea della morte di mio padre. Nulla mi è rimasto dell’uomo che mi ha dato la vita, nulla tranne alcune foto, un muro al cimitero che ricorda le vittime della Shoà e una lapide che riporta il suo nome nel palazzo di Via Marmorata n. 169”.

(Fortunata Di Porto)

Dante Calò

via Marianna Dionigi 17

Richiedente Raffaele Sabbadini

Nato nel 1890, arrestato il 13 gennaio 1944, deportato ad Auschwitz, morto in luogo ignoto e in data ignota.

Nato nel 1890, Dante Calò aveva partecipato alla Prima Guerra Mondiale combattendo in prima linea, nella stessa guerra dove era stato ucciso il fratello Silvio.

Un articolo comparso sul sito del Circolo Canottieri Aniene traccia molto efficacemente una parte del profilo di Dante Calò: “….Tra i caduti, non perché gli altri non lo meritino, ma solo per ragioni di spazio, ricordiamo in particolare Dante Calò: il popolare zio Dante, scapolo inveterato, trascinatore delle gite fluviali nelle quali era capace di coinvolgere chiunque volesse. Gagliardo organizzatore di gite sociali; condusse addirittura i soci da Roma ad Orte in una festosissima navigazione sul Tevere. Lo zio Dante convinse tra l’altro un gruppo di consoci giovani al “canottaggio di fondo” rendendo le domeniche sempre più belle e memorabili.”.

Così poi lo ricordava il nipote Alberto Di Nepi: “Avvocato di spiccate capacità, uomo di vasta cultura, spirito acuto e caustico, brillante oratore, elegante, sportivo, donnaiolo, era uno dei soci dell’Aniene più popolari e benvoluti dell’epoca. Antifascista accanito e aperto, scomparve tragicamente deportato durante l’occupazione tedesca per essersi temerariamente esposto nella sua attività di partigiano e rifiutandosi di nascondere il suo vero nome”.

Il resto delle informazioni sono estratte dal libro “Toccare il fondo” di Gianna Di Nepi, pronipote di Dante che ha ricostruito la vita della sua famiglia tra la prima guerra mondiale ed il 1947.

Il 16 ottobre l’avvio della deportazione degli ebrei romani corrispose all’inizio della clandestinità anche di Dante. E proprio Dante scrisse “infamia tedesca” sull’oramai famoso foglio del calendario in corrispondenza al 16 ottobre 1943 ed arrivato fino ai giorni nostri grazie al nipote Goffredo Roccas.

Profondo antifascista Dante partecipò attivamente alla Resistenza Romana.

Tra le attività che videro Dante protagonista spicca il 7 novembre 1943 il trasferimento effettuato, assieme al nipote Goffredo, degli arredi sacri del Tempio Maggiore che dal 1941 erano nascosti nella sede del Banco di Napoli in piazza del Parlamento.

Quel giorno proprio mentre nella Banca erano presenti i fascisti alla ricerca dei beni della Comunità, Dante, Goffredo ed altri usciti dai nascondigli riuscirono con non pochi rischi a caricare gli arredi su un carretto ed a portarli presso lo spedizioniere Bolliger. Le casse per destare meno sospetti furono inserite dallo spedizioniere in un magazzino che già conteneva beni di proprietà dell’Ambasciata Tedesca!

Dante e Goffredo decisero quindi di cambiare nascondiglio trasferendosi in un garage usato per riunioni ed attività clandestine volte a trovare documenti falsi e nascondigli agli ebrei romani.

E’ proprio in questo garage che il 13 gennaio 1944 a causa della delazione da parte di un italiano, cosa che si ripetè per quasi tutti gli arrestati dopo il 16 ottobre, Dante venne arrestato dai fascisti.

Erano sette i presenti quel giorno nel garage. Qualcuno pensò di colpire alle spalle i fascisti ma Dante si oppose con fermezza dichiarando: “ non ucciderò due soldati italiani: dura lex sed lex”. Nel trambusto causato da una rissa inscenata dai presenti, uno riuscì a fuggire, mentre gli altri vennero tutti interrogati.

Goffredo Roccas e Guido Coen si salvarono grazie ai documenti falsi, ma i fascisti arrestarono ed incarcerarono gli altri quattro presenti nel garage: Dante, il fratello Pio, la cognata Pia di Cave e Santoro Caviglia collaboratore di Dante. In particolare Dante venne trovato in possesso del biglietto da visita con il suo vero nome.

Vedendosi scoperto Dante rivendicò orgogliosamente la sua identità dichiarando: “Si, sono Dante Calò, ebreo, capitano dei Bersaglieri, ferito e decorato in guerra. Vergognatevi di quello che fate!!”.

L’8 marzo i quattro arrestati vennero tradotti nel campo di Fossoli e da qui Dante mandò i biglietti che sono arrivati fino ai nostri giorni grazie a Goffredo Roccas.

Il 5 aprile 1944 da Fossoli il gruppo insieme ad altri ebrei internati venne deportato ad Auschwitz dove arrivò dopo 5 giorni con il convoglio 09.

Di Dante e Pia il Libro della Memoria dice “morti in luogo e data ignota”, Pio viene ucciso all’arrivo e Santoro sopravvive fino a febbraio del 1945.

Sulla tomba monumentale del fratello Silvio Calò caduto nella prima guerra mondiale, la famiglia dopo la liberazione ha aggiunto: “ Qui riposano in spirito i fratelli Pacifico e Dante vittime della viltà e della ferocia dei nazifascisti”.

Finita la guerra Goffredo Roccas, avvocato, portò in giudizio i delatori italiani che denunciarono Dante e gli altri: grazie anche alle connivenze generalizzate di fascisti nella Magistratura che dopo la guerra mantenne gli stessi componenti presenti nel periodo fascista, i denunciati vennero tutti assolti!!

(Raffaele Sabbadini)

Gino Pace, Sergio Pace, Fernanda Piazza, Emma Seppilli, Gisella Grego

via Piramide Cestia 21

Richiedente Enrico Modigliani

Gino Pace, nato nel 1885, arrestato il 16 ottobre 1943, deportato ad Auschwitz, assassinato il 23 ottobre 1943.

Sergio Pace, nato nel 1926, arrestato il 16 ottobre 1943, deportato ad Auschwitz, morto

in luogo ignoto dopo il 3 dicembre 1943.

Fernanda Piazza, nata nel 1888, arrestata il 16 ottobre 1943, deportata ad Auschwitz, assassinata il 23 ottobre 1943.

Emma Mazaltov Seppilli, nata nel 1857, arrestata il 16 ottobre 1943, deportata ad Auschwitz, assassinata il 23 ottobre 1943.

Gisella Grego, nata nel 1875, arrestata il 16 ottobre 1943, deportata ad Auschwitz, assassinata il 23 ottobre 1943.

Gino e Fernanda Pace si erano sposati, trentenni, appena finita la Grande Guerra e avevano avuto subito due figli, Mario e Sergio.

Una famiglia della media borghesia e una vita tranquilla, circondata dall’affetto di numerosi zii e cugini con cui condividevano le feste e le tradizioni ebraiche.

Da via Calabria, dove abitavano, presto si trasferirono in viale della Piramide Cestia, in un quartiere nuovo dove erano stati appena costruiti moderni condomini e dove già abitava uno zio materno. Intanto, con le leggi razziali, i due ragazzi frequentavano, come tutti gli altri,  le scuole ebraiche mentre gli eventi precipitavano verso la guerra.

Non c’è niente che può descrivere meglio lo stato d’animo di allora  se non le  parole  del diario che Mario  scrisse alcuni anni dopo: “La massa degli ebrei era  formata da piccoli commercianti, impiegati, professionisti. … Quelli più ricchi o più arditi, se ne andarono… quelli che soffrirono di più furono quelli di mezzo, che non avevano beni di fortuna che permettessero loro di  sopravvivere senza  lavorare ed erano incapaci di muoversi in modo illegale. Qualcuno  riuscì a sopravvivere, nei cinque anni che durò la tempesta, qualcuno, come i miei, arrivò alla stretta finale esausto, e non ci riuscì”.

Allo scoppiare della guerra, intanto, era venuta ad abitare con loro la nonna materna, Emma Seppilli, molto anziana, che ormai non poteva più vivere da sola.

Le notizie che arrivavano sulle persecuzioni negli altri paesi erano minime e soprattutto incredibili: la confusione regnava. Nel luglio gli eventi precipitarono: i primi bombardamenti della città, il 25 luglio e l’arresto di Mussolini, il proclama di Badoglio, l’oscuramento, colpi di fucile per le strade e l’8 settembre, l’armistizio.

Chi poteva era fuggito, ma la famiglia Pace non aveva soldi, la nonna  non si poteva abbandonare e Sergio appena adolescente era troppo giovane per vivere senza i genitori. Si pensò di allontanare almeno Mario, che aveva quasi 20 anni e che poteva  essere  preso dai tedeschi per il lavoro coatto.

Così, pochi giorni prima del 16 ottobre, Mario fuggì a Firenze insieme a Brunello Sadun, dove l’amico aveva dei parenti. Qui riuscirono ad avere dei documenti falsi e con i nomi di  Mario Noschese e Bruno Sadini si arruolarono  come ausiliari  della Polizia dell’Africa Italiana per passare inosservati.

“Poi anche a Firenze ci fu la retata degli ebrei. Io avevo ricevuto  una lettera di mia madre che mi aveva scritto  il 13 ottobre, per la mia festa dei vent’anni. Mi faceva gli auguri e mi diceva di stare tranquillo. Ma a Roma c’era già stata la questione dell’oro del riscatto e io non lo sapevo. Mia madre scriveva solo quello che poteva per rassicurarmi”.

Dopo una ventina di giorni arrivarono le prime notizie e Mario decise di tornare  a Roma.

I vicini raccontarono che i tedeschi erano arrivati alle sei di mattina e il portiere si era affrettato ad accompagnarli all’appartamento. Dalle  persiane socchiuse, avevano visto portare  via i genitori, il fratello e la nonna con la sua sedia e ancora la cuffietta bianca da notte. I vicini del piano di sotto avevano steso dei materassi sulla terrazza e cercarono di convincere Sergio a buttarsi di sotto, ma lui non volle farlo”.

Mario dormì quella notte  nel letto dei suoi genitori. “Era ancora disfatto, così come era stato lasciato la mattina del 16 ottobre. Riconobbi l’odore della trapunta blu e rossa , e fu l’ultima volta, in vita mia, che annusai, se così si può dire, il calore della famiglia”.

I vicini, dopo la cattura, erano entrati in casa e avevano  portato via tutti gli oggetti di valore che poi furono restituiti: la solidarietà fu straordinaria.

Mario  però doveva fuggire, l’appartamento era già stato segnalato al “commissariato degli alloggi”, sarebbe stato requisito ed era troppo pericoloso farsi vedere. La caccia agli ebrei era solo all’inizio.

Riuscì fortunosamente ad essere accolto nel convento della Montagnola, dove vestito da prete poté rimanere nascosto insieme ad altri rifugiati.

All’arrivo degli americani, nel giugno 1944, si arruolò nel primo gruppo di militari che incontrò, le “salmerie da combattimento” .

Al ritorno dalla  guerra, nel 1945, Mario ebbe le prime conferme che tutta la sua famiglia non sarebbe tornata! Qualcuno aveva raccontato che Sergio, selezionato per il lavoro, era fuggito dalla fila ed era tornato in quella dei genitori, per condividerne il destino. Una  pietosa bugia.  Sergio, che aveva appena 17 anni, fu immatricolato con il n°158601 e inviato a  sgomberare le rovine del ghetto di Varsavia con  una ventina di altri giovani italiani. Tre mesi dopo non era più in vita, ma questo si seppe solo molti anni dopo, nel 1991, alla pubblicazione di una ricerca storica.

Nessuno invece si ricordava di Gisella Grego, triestina, deportata insieme alla famiglia Pace, della quale nessuno mai aveva parlato. Ne avemmo notizia solo un paio di anni fa, da una lettera indirizzata al “commissariato degli alloggi”, scritta da un parente alla fine della guerra, per recuperare alcuni beni rimasti in casa. Nessuno sa da quanto tempo Gisella vivesse con loro, né se avesse dei parenti. Probabilmente, scampata  alla retata degli ebrei triestini, era venuta a Roma e si prendeva cura della nonna Emma Seppilli, sua concittadina e vecchia amica.

(Enrico Modigliani)

Alberto Pascucci

via Venezia 14

Richiedente Luigi Filippetti

Nato nel 1912, arrestato come politico il 23 dicembre 1943, deportato a Kz Mauthausen, morto il 18 maggio 1944 a Ebensee.

Figlio di fu Torquato e di Sani Agnese, dom. in via Venezia n.14, tipografo, celibe.

Arrestato il 23.12.1943 da agenti Questura Roma entrato a Regina Coeli il 24.12.1943 alle ore 18.00, matr. n.13654, per disposizione Questura Com. Casini. Il 4.1.1944 “richiesto questura”

Deportato e immatricolato a Mauthausen il 13.1.1944 con il n. 42160. Deceduto a Ebensee il 18.5.1944.

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