Una sera a Riace nella Locride calabrese due migranti somale mi hanno raccontato il loro viaggio verso l’Italia.
Parlavano di un deserto orrendo e rovente da attraversare, un deserto di morte in cui ci incontrano spesso resti di uomini e donne, mucchi di scarpe che spuntano all’improvviso mentre il camion arranca sulla pista carovaniera, ossa che spuntano qua e là.
E’ il viaggio della paura, con quei pochi dollari nel reggipetto con cui si dovranno pagare i passaggi a Tripoli o a Bengasi.
Ci sono bambini che non ce la fanno già lì, nel, deserto. Muoiono, vengono abbandonati come un peso di troppo, il convoglio deve procedere.
C’è la paura per i predoni, che ti possono sequestrare per chiedere poi soldi alle famiglie. I terribili predoni del Sinai, i predoni egiziani. Già, ma quali soldi si possono trovare per costroro?
Guardavo le due donne migranti, belle nei loro lineamenti finissimi, felici di essere approdate a Riace dove un sindaco fantastico come Mimmo Lucano ha trasformato i migranti che arrivano sui barconi in una risorsa.
C’era in tavola un po’ di pecora, un pasto inventato da Mimmo, lo ringrazio. E poi c’era quel racconto che nessuno di noi sente mai, perché le tv e i media non lo raccolgono.
Quanti sono i migranti che sbarcano, perché nessuno chiede mai che nome hanno, che storia si lasciano alle spalle, cosa cercano?
Maledetta Bossi-Fini, con quei due che l’hanno partorita ormai diventati degli infimi spettri.
Però i danni continuano a farli eccome.
Maledetta Europa, con i suoi cittadini spesso invecchiati, spesso gelosi di quel poco che hanno, spesso ciechi di fronte al mondo, spesso avari e ributtanti nello loro miserabile razzismo che dice “non li ho chiamati io, il Papa che li invita li gestisse lui, non possiamo caricarci certo tutti i mali del mondo”.
No tutti i mali del mondo, no, ma qualcosa sì…
Maledetta ipocrisia, come quella di chi come l’ex ministro Andrea Riccardi fondatore di Sant’Egidio, comunità molto attenta ad acquisire i beni di chi viene aiutato (non si chiamava una volta carità pelosa?), che a Rosarno aveva allestito il suo bel presepino pro immigrati salvo poi scoprire che non serviva a nulla se non a trasformarsi in una orribile favela…
Ecco, quella sera a Riace mi sono sentito inadeguato di fronte alle tragedie che mi venivano raccontate, molto sommessamente.
Sulla Libia le due donne somale ricordavano lo stalking dei libici musulmani, l’impossibilità di professarsi cristiane, doversi camuffare da islamiche, subire sexual harassements di continuo.
Racconto questo perché penso a Giusi Nicolini, la povera sindaca di Lampedusa, che saluto qui. Che può fare da sola?
Lo racconto perché questa tragedia dei morti in fondo al mare è cominciata tanti anni fa con una tragedia che metteva resti di morti nelle reti dei pescatori di Porto Palo (Siracusa). Una strage dimenticata per anni e ritrovata grazie al coraggio del pescatore Salvo Lupo e del giornalista, oggi direttore di Sardiniapost.it, Giovanni Maria Bellu. Nella notte tra il 24 e il 25 dicembre del 1996 avvenne quella che, fino ad oggi era stata la più grande tragedia navale del mediterraneo nel dopoguerra: 283 morti al largo delle coste di Porto Palo, nel siracusano. I migranti stavano scendendo dalla nave madre per salire su una motonave maltese, che li avrebbe, in due turni, portati sulle coste italiane. Ma al momento di fare manovra, la piccola imbarcazione speronò la nave madre, portando con sé, sul fondo del mare, le vite di quasi 300 persone. Il comandante della nave madre fuggì in Grecia e scaricò li sulle coste del Peloponneso i superstiti: un centinaio. Poi q uindici anni dopo Salvo Lupo, nel 2001, ruppe le proprie reti su un oggetto, un paio di jeans che contenevano un tesserino indicativo, quello di Ampalagan Ganeshu, un 17enne Tamil. Il tesserino arrivò nelle mani di Bellu che, dopo mesi di ricerche riuscì a filmare il relitto, certificando così che la terribile strage del Natale ’96 era realmente avvenuta.
Ecco, cari connazionali, va avanti così dal lontano 1996.