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Venticinque anni dall’uccisione di Mauro Rostagno nella Trapani dei D’Al

Il 26 settembre di 25 anni fa veniva ucciso a Trapani Mauro Rostagno. Venticinque anni dopo un processo che finalmente è stato istruito nella giusta direzione dei mandanti e degli esecutori mafiosi va avanti a Trapani, lontano dall’interesse dei media, con le sue lentezze e asperità dibattimentali. Ciononostante oggi nella 56° udienza si è appreso che a novembre inizierà, dopo oltre un anno e mezzo di udienze, la fase conclusiva del giudizio, cioè la cosiddetta discussione. Insomma ci si avvicina al momento della sentenza.

Imputati Virga e Mazzara, certo, ma oltre loro c’è quel corno di Sicilia che è riassumibile nella famiglia Messina Denaro e dintorni.

Il paradosso infatti delle aule giudiziarie trapanesi è quello di aver sentito nelle udienze del processo Rostagno una decina di collaboratori di giustizia che vengono dalla mafia affermare concordemente come e con chi è stato istruito l’omicidio di Mauro Rostagno. E cioè è stato ribadito che l’ordine di uccidere è stato pronunciato in un oleificio delle campagne di Castelvetrano dove don Francesco Messina Denaro, padre di Matteo oggi considerato il capo della mafia, ebbe a ordinare di togliergli di mezzo “chiddu a varva”, Mauro Rostagno. Lo chiese don Ciccio a Vincenzo Virga (nella foto) e il resto è stato dunque poi come organizzare l’omicidio, questo è ciò che ha scritto l’accusa.

Il paradosso, l’ho ricordato pubblicamente durante l’incontro che per ricordare Mauro Rostagno si è tenuto il 31 agosto scorso a Catania nella sede della Camera del Lavoro, è legato ad alcune immagini recenti che ci vengono proprio da Trapani dove è in corso il processo Rostagno nell’Aula di Assise intitolata a Giovanni Falcone.

Un’immagine, diciamo imbarazzante, riguarda il protocollo antimafia siglato alla presenza del ministro Cancellieri pochi mesi fa a Trapani, presente il senatore Pdl Antonio D’Alì, proprio il rappresentante di quella famiglia per la quale lavorava come “campiere” don Ciccio Messina Denaro. Non è un segreto che il capomafia sia morto in un terreno dei D’Alì. Che colpa ne ha Antonio D’Alì? Nessuna certo, tanto è vero che gli hanno perfino permesso in passato di essere con Berlusconi premier sottosegretario all’Interno.

Ma attenzione, c’è una seconda istantanea ancor più recente e riguarda sempre D’Alì. Lo ritrae sotto processo sempre a Trapani per concorso esterno in associazione mafiosa. Il processo è in corso, non sta a me anticipare verdetti o attestati di colpevolezza-innocenza. Lasciamo alla magistratura questo compito.

Però questo scenario fa impressione, non è vero?

Abbiamo ricordato Rostagno a Modica e a Catania, l’associazione Ciao Mauro si appresta a ricordarlo nel trapanese, a Torino altri ancora si apprestano a ricordare all’amministrazione della città in cui è nato Mauro che c’è un ponte sulla Dora che dovrebbe essergli intitolato e che se non lo è finora stato è stato per miserie di bassa istituzionalità. Ma ci dovranno essere ancora altre occasioni, anche in Sicilia, per ricordare nel modo giusto Mauro Rostagno.

Intanto oggi è stata Sonia Alfano, presidente dell’Associazione Nazionale Familiari Vittime di Mafia e della Commissione CRIM (sul crimine organizzato, la corruzione e il riciclaggio di denaro) del Parlamento Europeo, a dedicargli a Palermo queste parole: “Sono passati venticinque anni dal giorno in cui Mauro Rostagno, giornalista libero che denunciò i rapporti tra mafia, politica e massoneria, fu ucciso in un agguato mafioso. Un quarto di secolo fatto di silenzi e di depistaggi e nessuna sentenza. Oggi a Trapani si sta finalmente celebrando un processo, la cui conclusione, però, appare ancora lontana. Le lungaggini alle quali i familiari delle vittime di mafia sono costretti a sottoporsi, rimangono ancora oggi una delle più palesi vergogne italiane. Mi auguro che i familiari di Rostagno possano presto ottenere la verità e la giustizia che si deve loro. La memoria di Mauro Rostagno va custodita giorno dopo giorno, per i suoi meriti di giornalista coraggioso e indipendente, per il suo profondissimo impegno civile e perché la sua storia possa essere un monito per le nuove leve del giornalismo d’inchiesta, in un Paese in cui la libertà di stampa è ancora utopia”.

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