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Marco Revelli: metà del Paese è fuori da questo governo

La nuova casa della sinistra

Marco Revelli

«Ti avverto. Adesso guarderò questo schifo, dato che me lo ordini. Ma è l’ultima volta…». Così dice Clov a Hamm nella celebre piéce di Samuel Beckett Finale di partita. E in effetti forse il teatro dell’assurdo beckettiano è l ‘unica chiave con cui rappresentare la farsesca tragedia italiana delle ultime settimane.
A cominciare dalla resurrezione del Cavaliere, appena pochi mesi fa sbalzato di sella – politicamente morto, relitto di un naufragio dalle cui vicinanze fuggivano anche gli uomini (e le donne) più fidati – e ora ricomparso miracolosamente a cavallo, assurto al ruolo di salvatore della patria, “statista” nientemeno, colui che con la propria benevolenza ha permesso di uscire da una crisi istituzionale senza precedenti, un padre della patria che si candida addirittura a presiedere una nuova Costituente senza che si levi nel Palazzo non dico un urlo di Munch ma almeno un autorevole coro di «non est dignus»!!!
Certo, ha ragione Ezio Mauro quando scrive che si tratta in buona misura di una finzione, necessaria per sostenere la sua exit strategy dai giganteschi guai giudiziari in cui si è cacciato. Di una “bolla”, insomma, costruita dagli spin doctors al suo servizio – tanti, distribuiti trasversalmente dentro il sistema mediatico -, perché ingigantire la figura e il ruolo di Berlusconi significa rimpicciolire il peso dei suoi vizi, ridimensionarli a dettaglio marginale permettendone l’asportazione chirurgica silenziosa, come si rimuove un foruncolo dal corpo di un gigante.
Ma – bisogna aggiungere – si tratta purtroppo di una “finzione reale”, se la bolla che cresce non trova almeno uno spillo che la buchi. Se chi dovrebbe contrastarla la subisce e tace. Fuor di metafora, se un Pd allo sbando, intontito dal tracollo strategico subìto e vittima di un’atavica subalternità allo spirito berlusconiano, l’avalla aprendo la strada – attraverso il foro d’entrata della Convenzione – alla costituzionalizzazione dell’anomalia italiana (per usare ancora un’espressione del direttore di Repubblica). Alla riconciliazione definitiva non degli italiani tra di loro, ma dell’Italia con i propri eterni vizi. Con le proprie peggiori tare storiche.
Per intanto quell’anomalia selvaggia è stata istituzionalizzata, e pesa come un macigno sulle condizioni di esistenza e sull’immagine esterna di questo governo. L’aver incorporato Silvio Berlusconi e il suo partito personale in un’unica, totalitaria maggioranza politica di governo guidata dalla forza che ne avrebbe dovuto costituire l’antitesi morale, lasciando l’opposizione a quella che ci si accanisce a definire l’anti-politica, equivale a dire, ufficialmente, che nella politica italiana quell’anomalia è neutralizzata. Che la politica italiana è quella cosa lì, senza differenze discriminanti. Il che la dice lunga sulla cecità degli strateghi, anche di altissimo rango, che hanno concepito questo orribile connubio pensando di trovare una soluzione alla drammatica crisi di sistema delle nostre istituzioni. In realtà preparando un nuovo, forse più grave, cedimento strutturale.
In primo luogo perché il governo che nasce da questo assemblaggio contro natura è debole, anche sul piano del numeri. Non ci si lasci ingannare dai valori percentuali, come fanno gli aedi del potere che esibiscono trionfalmente numeri da maggioranza bulgara (oscillanti intorno al 75 per cento del consenso), come a dire: il paese è col governo Letta-Berlusconi. Si tratta di un’illusione ottica. Se anziché alle percentuali si guarda ai valori assoluti si scopre che i due partiti che costituiscono l’architrave su cui si regge lo sbilenco edificio del governo, tutti e due insieme, Pd e PdL, non fanno più di 16 milioni di voti, su un “corpo elettorale” di 47 milioni di cittadini: a malapena un terzo. Aggiungendoci anche i montiani e i cespugli del Pdl, si arriva a sfiorare il 50 per cento. Metà del Paese sta fuori. E in prevalenza contro. Ne fanno parte gli oltre 13 milioni di astenuti e di schede bianche o nulle, e gli 8 milioni e mezzo di “grillini”. Insieme, queste due forme di exit dalla politica tradizionale avevano espresso una domanda esplicita di discontinuità. Un segnale d’allarme, potente, forse ultimativo, che è stato platealmente ignorato (in primis dal Capo dello Stato).
In secondo luogo questo governo è debole perché la sua nascita, la sua filosofia, la sua composizione riesce, contemporaneamente – e non era facile – a contraddire la volontà degli elettori di tutte e tre le principali forze rappresentate in Parlamento. Gli elettori Cinquestelle, naturalmente. Ma anche gli elettori del Pd, che avevano espresso il proprio consenso come “voto utile” per farla finita una volta per tutte col berlusconismo, e che ora vedono i propri voti usati dai gestori di quel capitale elettorale per un risultato esattamente opposto, un po’ come fanno i banchieri fedifraghi col capitale finanziario dei propri clienti. E persino gli elettori del Pdl, in fondo – che avevano creduto alla balla della resistenza contro i “comunisti” -, hanno buone ragioni per sentirsi traditi. Cosicché quella che nasce, lungi dall’essere la somma di due forze, finisce per essere l’assemblaggio informe di due debolezze, destinate a galleggiare su un magma elettorale instabile, sofferente e smarrito, soprattutto sul versante del centro-sinistra dove sembra impossibile un ricupero della fiducia così platealmente dilapidata.
Ma c’è un terzo fattore, dirimente, di debolezza di questo governo. E sta nel fatto che, con la cecità dei folli, a Berlusconi è stato dato in mano il congegno con cui può far brillare in ogni momento la carica esplosiva che sta sotto i piedi del governo che ha contribuito a far nascere. O, per usare la metafora nautica di un suo ministro, lo spillone con cui può bucare il gommone su cui, non a caso, ha fatto salire i suoi uomini meno fidati – quelli che erano pronti a tradirlo nei tempi duri -, tenendo a terra i fedelissimi… Il Caimano ha cioè una sorta di diritto di vita e di morte sul governo dei “due vice”, e possiamo star certi che ne farà buon uso al primo accenno di sentenza sfavorevole dei giudici. O quando un sondaggio favorevole, o un nuovo segno di cedimento economico gli consiglierà di cavalcare la tigre del populismo e della rivolta (magari fiscale) che stanno nelle sue corde, e di incassare il relativo premio elettorale.
Si dirà che non c’era più tempo. Che l’Europa e i mercati imponevano una qualche fine del vuoto politico. E, comunque, che non c’erano alternative, visto il fallimento del tentativo di Bersani di “agganciare i grillini”. Si crede forse che questo governo avrà la necessaria autorevolezza in Europa, per condurre – come dovrebbe – una seria battaglia per modificarne strutturalmente le linee guida, con sulle spalle l’ombra dell’uomo che ci ha condotto, un anno e mezzo fa, sull’orlo del fallimento e che con la sua volgarità ci ha alienato la stima universale? O che, d’altra parte, se scegliesse, come è più probabile, di sottostare ai vincoli dell’Agenda Monti, riuscirà a contenere gli appetiti da rentier di quel socio ingombrante, esperto in falsi in bilancio e pronto ai rilanci più spericolati pur di compiacere un elettorato affollato di affaristi e speculatori.
E quanto all’alternativa, esisteva eccome. Sarebbe bastato che il Capo dello Stato avesse affidato l’incarico a una personalità di alto profilo indipendente dai partiti, con un programma limitato alla riforma elettorale e alle emergenze economiche, e la convergenza dei 5 stelle sarebbe stata a portata di mano. Il fatto è che sull’irto colle si diffidava molto di più di chi portava una domanda di discontinuità politica che di chi ne incarnava la peggiore continuità. Che faceva assai più paura un “nuovo radicale”, che non la riproposizione del “vecchio peggiore”. E che in fondo, con l’anomalia selvaggia di destra si era convissuto amichevolmente in questo ventennio di compromesso strisciante, mentre con l’anomalia dirompente venuta dal basso si rischiava lo stato di natura.
Per questo i mesi che ci aspettano non saranno di stabilizzazione, ma di turbolenza. La tempesta perfetta non è affatto alle spalle, forse ci sta davanti. In una situazione in cui il presidenzialismo di fatto inaugurato un anno e mezzo fa da Giorgio Napolitano e consolidato dopo febbraio (in una forma cripto-monarchica) ha finito per corrodere e infine assorbire in sé gli altri corpi istituzionali – Parlamento e Governo – e per accelerare la crisi dei partiti politici, lasciando lo Stato nudo, senza più significative mediazioni con la società (e le sue convulsioni). Per questo sarà decisiva nei prossimi mesi la partecipazione e la mobilitazione dal basso, delle reti organizzate che ancora resistono. Intanto – è il minimo – per impedire che si metta mano alla Costituzione, almeno finché sarà in gioco la presenza eversiva del Grande inquinatore.
E poi per offrire una casa (nuova e organizzata) ai tanti – troppi – esodati della politica che vivono oggi l’esperienza sradicante di uno spaesamento che non ha precedenti nella storia della nostra Repubblica. Sapendo che la crisi del Pd è divenuta, dopo gli ultimi strappi, irreversibile: che da un gruppo dirigente ridotto a viluppo di personalismi tra loro conflittuali non ci si può aspettare la spinta ideale e la determinazione collettiva indispensabili per rimediare a una caduta così catastrofica («Mi sento troppo vecchio, e troppo lontano, per formare nuove abitudini », dice Hamm a Clov prima di uscire di scena). E che la nuova casa, se saprà sorgere, dovrà essere ricostruita lontano da Bisanzio, dai veleni del Palazzo, dai giochi e dai tiri incrociati di un ceto politico esaurito, dalle macerie fumanti del centro-sinistra. La manifestazione della Fiom, il 18 maggio, è una prima occasione per guardarsi e per contarsi. Ma sarebbe importante che in ogni città si organizzassero assemblee (come va proponendo Alba): si aprisse uno spazio libero di incontro e di riflessione, per non trasformare l’esodo in una disfatta. Se non ora, quando?

Da “Il Manifesto” del 3 maggio 2013

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