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In memoria di Ilaria, povera ragazza uccisa nelle terre di un poeta

L’Aurelia procede da San Vincenzo verso nord, arriva a Donoratico, un cartello sulla destra indica Castagneto Carducci, avanza verso Bolgheri e sfiora il viale con i cipressi in duplice filar di “Davanti a San Guido”, va avanti ancora e si lascia sinistra Marina di Bibbona (dove oggi soggiorna in una villa al mare l’attor comico che fa politica), arriva alla mitica La California periferia di Cecina…

E’ in questo scenario che si è consumato un nuovo delitto contro una donna. Ilaria Leone, una giovane di 19 anni, una cameriera di ristorante che tornava dal lavoro verso casa, trovata morta in mezzo a un uliveto nei pressi di Donoratico. Un omicidio. Forse dopo una violenza sul suo corpo. Morte da strangolamento. L’ha trovata un passante, sua madre l’ha attesa invano nella casa popolare in cui vive.

Centocinquant’anni fa questa era una terra di cipressi, alti e schietti, “quasi in corsa di giganti giovinetti” ha scritto Carducci. Il poeta di corte era cresciuto lì fino a 14 anni, con una civetta, un falco e un lupo in casa (a Ilaria invece piaceva il suo cane…). Un anno prima di morire gli dettero poi il Nobel, uno dei primi assegnati.

Quei cipressi che gli ricordavano la nonna lasciano il passo a questa tragedia di oggi, tra gli ulivi. Del resto i cipressi di Bolgheri si erano già ammalati anni fa, in parte sono morti. E Giosuè Carducci? Resta solo quasi sotto forma di un toponimo legato a castagni, altri alberi ancora. Il suo nome è così ormai desueto. E poi chi lo legge più…

Il resto è femminicidio che spazza via anche le ultime sembianze di un posto che sembrava un esercizio poetico e che è invece si è trasformato in una nuova tappa di spaventosa morte inferta a donne.

In ricordo di Ilaria Leone ecco “Davanti a San Guido” che un tempo era poesia famosa e imparata a memoria:

I cipressi che a Bólgheri alti e schietti

van da San Guido in duplice filar,

quasi in corsa giganti giovinetti

mi balzarono incontro e mi guardar.

Mi riconobbero, e— Ben torni omai —

Bisbigliaron vèr’ me co ‘l capo chino —

Perché non scendi ? Perché non ristai ?

fresca è la sera e a te noto il cammino.

Oh sièditi a le nostre ombre odorate

ove soffia dal mare il maestrale:

ira non ti serbiam de le sassate

tue d’una volta: oh non facean già male!

Nidi portiamo ancor di rusignoli:

deh perché fuggi rapido cosí ?

Le passere la sera intreccian voli

a noi d’intorno ancora. Oh resta qui! —

— Bei cipressetti, cipressetti miei,

fedeli amici d’un tempo migliore,

oh di che cuor con voi mi resterei—

Guardando lor rispondeva — oh di che cuore !

Ma, cipressetti miei, lasciatem’ire:

or non è piú quel tempo e quell’età.

Se voi sapeste!… via, non fo per dire,

ma oggi sono una celebrità.

E so legger di greco e di latino,

e scrivo e scrivo, e ho molte altre virtú:

non son piú, cipressetti, un birichino,

e sassi in specie non ne tiro piú.

E massime a le piante. — Un mormorio

pe’ dubitanti vertici ondeggiò

e il dí cadente con un ghigno pio

tra i verdi cupi roseo brillò.

Intesi allora che i cipressi e il sole

una gentil pietade avean di me,

e presto il mormorio si fe’ parole:

— Ben lo sappiamo: un pover uom tu se’.

Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse

che rapisce de gli uomini i sospir,

come dentro al tuo petto eterne risse

ardon che tu né sai né puoi lenir.

A le querce ed a noi qui puoi contare

l’umana tua tristezza e il vostro duol.

Vedi come pacato e azzurro è il mare,

come ridente a lui discende il sol!E come questo occaso è pien di voli,

com’è allegro de’ passeri il garrire!

A notte canteranno i rusignoli:

rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire;

i rei fantasmi che da’ fondi neri

de i cuor vostri battuti dal pensier

guizzan come da i vostri cimiteri

putride fiamme innanzi al passegger.

Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,

che de le grandi querce a l’ombra stan

ammusando i cavalli e intorno intorno

tutto è silenzio ne l’ardente pian,

ti canteremo noi cipressi i cori

che vanno eterni fra la terra e il cielo:

da quegli olmi le ninfe usciran fuori

te ventilando co ‘l lor bianco velo;

e Pan l’eterno che su l’erme alture

a quell’ora e ne i pian solingo va

il dissidio, o mortal, de le tue cure

ne la diva armonia sommergerà. —

Ed io—Lontano, oltre Apennin, m’aspetta

la Tittí — rispondea; — lasciatem’ire.

È la Tittí come una passeretta,

ma non ha penne per il suo vestire.

E mangia altro che bacche di cipresso;

né io sono per anche un manzoniano

che tiri quattro paghe per il lesso.

Addio, cipressi! addio, dolce mio piano! —

— Che vuoi che diciam dunque al cimitero

dove la nonna tua sepolta sta? —

E fuggíano, e pareano un corteo nero

che brontolando in fretta in fretta va.

Di cima al poggio allor, dal cimitero,

giú de’ cipressi per la verde via,

alta, solenne, vestita di nero

parvemi riveder nonna Lucia:

la signora Lucia, da la cui bocca,

tra l’ondeggiar de i candidi capelli,

la favella toscana, ch’è sí sciocca

nel manzonismo de gli stenterelli,

canora discendea, co ‘l mesto accento

de la Versilia che nel cuor mi sta,

come da un sirventese del trecento,

piena di forza e di soavità.

O nonna, o nonna! deh com’era bella

quand’ero bimbo! ditemela ancor,ditela a quest’uom savio la novella

di lei che cerca il suo perduto amor!

— Sette paia di scarpe ho consumate

di tutto ferro per te ritrovare:

sette verghe di ferro ho logorate

per appoggiarmi nel fatale andare:

sette fiasche di lacrime ho colmate,

sette lunghi anni, di lacrime amare:

tu dormi a le mie grida disperate,

e il gallo canta, e non ti vuoi svegliare.

— Deh come bella, o nonna, e come vera

è la novella ancor! Proprio cosí.

E quello che cercai mattina e sera

tanti e tanti anni in vano, è forse qui,

sotto questi cipressi, ove non spero,

ove non penso di posarmi piú:

forse, nonna, è nel vostro cimitero

tra quegli altri cipressi ermo là su.

Ansimando fuggía la vaporiera

mentr’io cosí piangeva entro il mio cuore;

e di polledri una leggiadra schiera

annitrendo correa lieta al rumore.

Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo

rosso e turchino, non si scomodò:

tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo

e a brucar serio e lento seguitò.

Giusuè Carducci

(1835-1907)

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