Ancora silenzio sugli affari dei Benetton a Dacca, Bangladesh, dove centinaia di donne continuano a chiedere notizie – foto alla mano – dei loro congiunti “scomparsi” nell’immane catastrofe di un palazzo “unsafe”, per usare il gergo benettoniano.
Benetton produce le sue magliette anche in questo modo, ricorrendo a operai malpagati e ostaggio di strutture pericolose che come è avvenuto più volte crollano oppure bruciano, facendo stragi.
La paga di questi operai è quella che è stata denunciata dallo stesso Papa Francesco domenica scorsa all’Angelus: “Trentotto euro al mese”.
Vuol dire poco più di un euro al giorno.
Anni fa era un dollaro al giorno, in Indonesia, il salario per crepare nelle fabbriche di pneumatici americani sature di gas venifiuci.
In tanti anni e nel cosiddetto miracolo economico del Pacifico le cose non paiono migliorate granché.
Alessandro Benetton ha un blog, lo trovate con facilità sulla rete, in cui filosofeggia: Each time a man, lo slogan logo. Parla volentieri di Giò Ponti o di Aung San Suu Kyi. Di Dhaka però non c’è cenno. L’azienda che dirige ha meschinamente emesso un comunicato in cui negava l’esistente. Grazie ai media internazionali la versione è durata poco ed è stata poi aggiustata.
Ma il problema non è tanto Benetton, quanto il fatto che la potenza del suo gruppo industriale deve davvero fare paura a tanti se i media italiani hanno taciuto sui legami di Benetton col palazzo del disastro operaio a Dacca.
Hanno taciuto contrariamente a quanto invece ha fatto la stampa internazionale.
Una pagina nera del giornalismo italiano.