Poche ore fa finalmente si parla di Benetton, lo fa il Fatto quoitidiano intervistando la responsabile della Clean Clothes Campaign,. Ecco l’articolo online del 30 aprile 2013:
“In Bangladesh, Benetton e le altre aziende devono garantire sicurezza”
L’azienda di Treviso aveva commissionato alcune produzioni agli operai impiegati in un edificio a Dacca, morti in un rogo. Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti: “Le ditte devono firmare un protocollo per salvaguardare la vita e la salute dei lavoratori”
di Marco Quarantelli | 30 aprile 2013
“Fino a oggi avevano detto di non avere avuto rapporti con il Rana Plaza. Ora, davanti a queste foto, non hanno davvero potuto negare l’evidenza”. Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti, braccio italiano della Clean Clothes Campaign, punta il dito contro la Benetton. Gli scatti diffusi dall’Associated Press lasciano adito a pochi dubbi: le camicie fotografate tra i ruderi del palazzo di 8 piani crollato a Dacca, in Bangladesh, sono griffate United Colors of Benetton.
“La procedura è sempre la stessa – spiega la Lucchetti – nelle ore successive alla tragedia le multinazionali tendono a negare di avere legami con le fabbriche interessate: lo fece anche Wal-mart in occasione del rogo della Tazreen Fashion Limited, a novembre. Poi cominciano ad uscire le prove e allora arrivano le ammissioni. In questo caso abbiamo la copia di un ordine risalente al settembre 2012, ritrovato tra le macerie (leggi): significa che la Benetton è stata almeno in un’occasione tra i clienti di uno di quei laboratori, come dimostra il fatto che ancora mercoledì scorso le camicie con il suo marchio fossero presenti sul luogo del crollo”. Quella veneta non è l’unica ditta italiana che si riforniva in una delle manifatture inghiottite dal crollo.
“Stiamo contattando tutte le aziende che possono aver avuto rapporti commerciali con il Rana Plaza – continua la portavoce italiana di Clean Clothes Campaign – finora l’unica ad aver ammesso di aver effettuato ordini era stata la Essenza Spa, proprietaria del marchio Yes-Zee. Una volta stabilite le responsabilità, cosa accade? “Stiamo ricostruendo la filiera – continua Lucchetti – quando avremo chiaro il quadro, promuoveremo un’azione di sostegno e di risarcimento alle famiglie delle vittime e ai sopravvissuti rimasti senza lavoro”. Difficile ancora parlare di cifre: “In queste situazioni noi proponiamo che parte del risarcimento sia a carico del governo locale, in questo caso quello del Bangladesh, e parte, circa il 45% dell’intera somma, sia a carico dei committenti internazionali. Qui si parla di milioni di dollari. Ma finché non ci sarà un bilancio ufficiale delle vittime è impossibile parlare di cifre”.
Ma per salvaguardare la vita e la salute dei lavoratori occorre guardare più in là, nel futuro: “Chiederemo alle nostre aziende che lavorano e comprano lì di firmare il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement, un protocollo sulla sicurezza degli edifici che ospitano i laboratori. La statunitense PVH Corp, proprietaria di Calvin Klein e Tommy Hilfiger, e il distributore tedesco Tchibo lo hanno già fatto nel 2012″. Ora è il turno delle italiane: “Coinvolgeremo anche i sindacati nazionali. In queste ore li stiamo contattando perché facciano pressione sulle aziende e le convincano a firmare il protocollo”. Che impegnerà le multinazionali a comportamenti più responsabili: “Aziende importanti come la Benetton hanno la responsabilità di accertare a quali condizioni vengono prodotti i loro capi e di intervenire preventivamente per garantire salute e sicurezza nelle fabbriche da cui si riforniscono”.