Informazioni che faticano a trovare spazio

Otto arresti per la strage di Capaci. Uomini di Graviano. Manca all’appello però il fascista mafioso Pietro Rampulla. E che fine hanno fatto altri aspetti “militari”?

Novità per la strage di Capaci, la Procura di Caltanissetta spicca otto mandati di arresto per altrettanti mafiosi già in carcere per altre condanne. Appartengono al clan di Filippo Gravano, in sostanza, che come è emerso nel processo di primo grado di Tagliavia Francesco è considerato dagli inquirenti il referente di Marcello Dell’Utri (la fonte è sempre il pentito Gasparo Spatuzza).

Manca però almeno un none, perlomeno per quanto è ricostruito su Capaci nel libro appena uscito di Stefania Limiti “Doppio livello”. Il nome secondo la Limiti è quello di un mafioso fascista, Petro Rampulla, che il giorno dell’attentato marcò visita a quanto pare “”per motivi di famiglia”. Ce ne ha parlato sul Venerdì Piero Melati (lo riporto più in basso).

E forse aspettano risposta anche altri aspetti inquietanti della strage più millimetrica e precisa mai fatta: ad esempio perché c’è traccia di un collante militare nell’esplosivo usato? E ancora: più volte è circolata la voce che l’attentato fosse stato preceduto da una prova su strada, una via fatta saltare in aria, sempre in zona. Possibile che tutto questo non venga investigato?

Perché in sostanza Capaci e via D’Amelio – dove è certo che fu usato un esplosivo “militare” – non sono cose differenti. O no?


Ecco di seguito la notizia oggi dei provvedimenti da repubblica.it:

CALTANISSETTA – Vent’anni dopo, emerge un altro pezzo di verità dai misteri del 1992: la Procura diretta da Sergio Lari e la Dia hanno dato un nome ai componenti del commando mafioso che procurò e preparò l’esplosivo che uccise il giudice Giovanni Falcone, la moglie e i tre poliziotti della scorta. E’ stato l’ultimo pentito di Cosa nostra, Gaspare Spatuzza, a offrire gli spunti giusti, chiamando in causa alcuni fedelissimi di Giuseppe Graviano, il capomafia del quartiere palermitano di Brancaccio che sta dietro tutte le stragi del ’92 e del ’93. Si tratta di Giuseppe Barranca, Cristofaro Cannella, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino e Lorenzo Tinnirello. Sono tutti in carcere già da tempo, con condanne pesanti per reati di mafia ed omicidio. Nei loro confronti è scattata una nuova ordinanza di custodia cautelare, firmata dal gip di Caltanissetta Francesco Lauricella, su richiesta del procuratore aggiunto Domenico Gozzo e dei sostituti Onelio Dodero e Stefano Luciani. Il provvedimento riguarda anche Cosimo D’Amato, il pescatore che consegnò al gruppo di sicari l’esplosivo prelevato da alcuni vecchi ordigni trovati in mare, e Salvo Madonia, uno dei reggenti della potente famiglia palermitana di Resuttana, ritenuto uno dei mandanti della strage Falcone, assieme a tutta la Cupola mafiosa. Anche D’Amato e Madonia sono già in carcere. L’ultimo ad essere arrestato è stato il pescatore di Santa Flavia, nel novembre dell’anno scorso: la Procura di Firenze, che indaga sulle stragi mafiose del 1993, ritiene che D’Amato avrebbe fornito l’esplosivo anche per gli eccidi di Roma, Milano e Firenze.

L’ultima indagine
Di quel commando di Brancaccio mai nessun pentito aveva parlato nel corso dei processi celebrati per la strage di Capaci, conclusi con una quarantina di condanne, fra mandanti ed esecutori. Giuseppe Graviano aveva ordinato massima risarvatezza per le operazioni di confezionamento dell’eplosivo, e così avvenne: 200 chili di tritolo, prelevato dal mare, furono poi consegnati a Giovanni Brusca, che intanto aveva procurato altri 200 chili di esplosivo utilizzato nelle cave, “l’Euranfo 70”. Per la sistemazione della carica finale, Brusca si avvalse di due consulenti: il cugino, che lavorava con gli esplosivi nelle cave, e Pietro Rampulla, un estremista di destra che aveva anche lui molta dimestichezza con gli esplosivi.

“Con quest’ultima indagine  –  dice il procuratore Sergio Lari  –  riteniamo di aver fatto una ricostruzione completa della fase organizzativa della strage del 23 maggio 1992. E non sono emerse responsabilità di soggetti esterni a Cosa nostra”. Per la Procura di Caltanissetta non ci sono dunque zone d’ombra nella fase esecutiva dell’eccidio di Capaci. L’unica mano sarebbe stata quella dei sicari di mafia, che agirono su un preciso mandato di Totò Riina.

Il racconto di Spatuzza
“Ricordo che un mese e mezzo prima della strage di Capaci, Fifetto Cannella mi chiese di procurargli una macchina voluminosa, per recuperare delle cose. Ci recammo pertanto con l’autovettura di mio fratello nella piazza Sant’Erasmo di Palermo, dove incontrammo Peppe Barranca e Cosimo Lo Nigro, e dove avremmo dovuto incontrare Renzino Tinnirello, il quale però tardò ad arrivare. Ci recammo quindi a Porticello, ove trovammo un certo Cosimo, ed assieme a lui ci recammo su un peschereccio attraccato al molo, da dove recuperammo dei cilindri delle dimensioni di 50 centimetri per un metro legati con delle funi sulle paratie della barca. Al loro interno vi erano delle bombe”. Durante il tragitto verso Palermo, i mafiosi trovarono un posto di blocco dei carabinieri, ma non furono fermati. Così ricorda ancora Spatuzza: “Una volta arrivati a casa di mia madre, in cortile Castellaccio, scaricammo i bidoni all’interno di una casa diroccata di mia zia, che si trova a fianco”. Il giorno dopo, i “cilindri” furono spostati in un magazzino di Brancaccio: “Lì cominciammo la procedura  –  spiega il pentito  –  tagliando la lamiera dei cilindri con scalpello e martello ed estraendo il contenuto”. Ma quell’operazione era troppo rumorosa: “Mi resi conto che eravamo all’interno di un condominio, quel posto non era adatto al lavoro”, ricorda Spatuzza davanti ai magistrati di Caltanissetta. Così, l’esplosivo fu trasferito ancora: in un magazzino della zona industriale di Brancaccio dove aveva sede la ditta di trasporti “Val. Trans.”, lì Spatuzza lavorava come autista.

“L’esplosivo che macinavamo era solido, di colore tra giallo chiaro e panna. Lo macinavamo schiacciandolo con un mazzuolo, lo setacciavamo con lo scolapasta sino a portarlo allo stato di sabbia”. Quell’esplosivo prelevato a Porticello non bastò: “Ci recammo a prelevare altri due bidoni alla Cala, sempre legati a un peschereccio”, prosegue Spatuzza. Una parte di quella micidiale carica fu consegnata poi a Giuseppe Graviano per la strage di Capaci, una parte servì per la strage Borsellino.

Ed ecco il Venerdì di una settimana fa dove Piero Melati ci parla di Rampolla sotto un titolo però che dice: A Capaci la mafia non era sola…

Le ombre di Capaci, Cosa nostra non era sola

di Piero Melati – 15 aprile 2013
Palermo. C’era un fascista, a Capaci, che doveva schiacciare il bottone del telecomando. Ma si è defilato in extremis, scomparendo dalla scena principale. Con lui, è sparito un intero cantiere, aperto la notte prima del botto. Ipotesi: era servito per “rinforzare” i 500 chili di tritolo della mafia con un “collante” militare. Molti testimoni videro quel cantiere. Ma furono ignorati.

Capaci, 1993: una storia di ombre. Capaci, 2013: si torna sul luogo del delitto. Ci sono inquirenti, nella sede romanda della Direzione nazionale antimafia, nelle stanze della procura di Caltanissetta, negli uffici palermitani e calabresi dell’intellicence, che hanno deciso di ripartire da zero. Circolano note riservate che utilizzano un codice cifrato: “muovere l’ombra”, “operazione sotto falsa bandiera”, “l’asimmetria”, “il piano inclinato”. Oppure “l’eliminatore” e “il fuciliere”, per distinguere, all’interno di un commando, i soldati avvertiti dei pini più segreti dai semplici, ignari “manovali. Un linguaggio più utile a comporre i “pezzi mancanti”. O a spiegare personaggi finora rimossi, come il depistatore Elio Ciolini (che previde le stragi), oppure strane morti (il suicidio in carcere del corleonese Antonino Gioé, che delle stragi sapeva troppo).
Si sono rimessi al lavoro fli analisti. Stanno rileggendo i massacri nella cui voragine è scomparsa la Prima Repubblica. A cominciare da Capaci. Prima conclusione? Non è stato un attentatuni, quello del 23 maggio del ’92 contro Giovanni Falcone. Alle 17 e 58, all’altezza del km 5 della A24, tra Capaci e Isola delle Femmine, è snada in scena quella che lo scrittore brasiliano Jorge Amado definì Tocaia Grande. La grande imboscata. Il presupposto di questo lavoro è duro da accertare. Si tratta della consapevolezza che l’inchiesta Borsellino è stata depistata. Falsi pentiti, finti processi, condanne ingiuste: senza le rivelazioni dell’ultimo pentito, Gaspare Spatuzza, il massacro di via D’Amelio (dove morirono Borsellino e la sua scorta) si sarebbe conclusa in una farsa. “E se non fosse l’unico caso?” è stata la domanda. Meglio rivedere tutto. A cominciare da Capaci.
Oggi anche un’inchiesta giornalistica (Stefania Limiti, Doppio Livello, Chiarelettere, pp. 480, euro 18,60) offre spunti per guardare al lavoro degli analisti. Nell’ultimo capitolo, False bandiere a Capaci, la giornalista riprende il filo delle “simulazioni” al computer effettuate dagli esperti dell’Esercito a Capaci, poi confluite nelle indagini dei pm Paolo Giordano e Luca Tescaroli. Bastavano 500 chili di tritolo a realizzare un attentato senza precedenti? Mai, nella storia, era stata colpita con esplosivo un’auto in corsa a velocità elevata. Un solo precedente: l’attentato spagnolo da parte dell’Eta a Luis Carrero Blanco, il delfino del generalissimo Franco (20 dicembre del ’73). Quella volta la vettura venne scagliata a trenta metri d’altezza. Ma procedeva a passo d’uomo. A differenza di quella di Falcone. Gli esperti assimilano Capaci a quel tipo di azione militare denominata “imboscata”. E la considerano tecnicamente un modello unico nella storia del terrorismo. L’esplosivo, come noto, venne collocato dentro un condotto sotto l’autostrada, in tredici bidoncini trasportati sottoterra con l’aiuto di uno skateboard. Poi, raccontò il pentito Giovanni Brusca, venne ripulito tutto per non lasciare tracce. E invece, dentro al cratere dell’esplosione vennero trovati un sacchetto di carta con una torcia a pile, un tubetto di alluminio con mastice, guanti in lattice da chirurgo. “Lattice? Ma no, noi avevamo guanti da muratore, per spostare i bidoni. Quelli damediso si sarebbero strappati” dirà Brusca. A cosa servivano, dunque, quei guanti buoni a non seminare impronte?
E ancora, tra le tracce di esplosivo, è stato rinvenuto un “collante” di tipo militare. Nulla a che vedere con il contenuto dei barilotti usati dalla mafia. Viene utilizzato per rendere più potente un’esplosione. La mafia, si è appreso di recente, aveva estratto il suo tritolo da vecchi ordigni per la pesca di frodo. Possibile, quindi, che non sarebbe stato sufficente. Si scopre poi che, secondo diveris testimoni, la notte pirma, in quel punto dell’autostrada, venne avvistato un furgoncino. Accanto, sei persone al lavoro. Chi erano? Non risultano interventi autorizzati da enti o da Comuni. I pentiti hanno detto che, la notte prima, in zona non c’erano mafiosi. Gli identikit dei misteriosi personaggi vennero poi ricostruiti in base alle descrizioni di chi li aveva visti. Ma quella pista venne abbandonata. Almeno uno dei testimoni era altamente attendibile: un ingegnere oggi deceduto, cognato del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Non basta. Sono state individuate “discrepanze” nel racconto di sei dei pentiti che hanno parlato di Capaci. Una circostanza la cita Stefania Limiti: Giovanni Brusca ha raccontato che fu lui a premere il bottone del telecomando, perché il “fuciliere” designato, Pietro Rampulla, che aveva effettuato personalmente le prove, “quel giorno aveva un impegno familiare”. Un impegno? Nel giorno della strage? “Questa circostanza è servita a far sparire in un cono d’ombra Pietro Rampulla, lasciando invece sulla scena il mafioso Giovanni Brusca”. Ma forse, di questo abile gioco di prestigio, Giovanni Brusca non si è neppure reso conto. Pietro Rampulla è un “uomo d’onore” di Mistretta. Ma è anche “un neofascista esperto di bombe da attivare con congegni radiocomandati, legato a Ordine Nero”. Sulle sue tracce, si arriva agli scontri politici degli anni 70 e alla rivolta del “Boia chi molla” di Reggio Calabria. Il primo che parlò di lui du Luigi Ilardo, vicino a Bernarso Provenzano, divenuto nel ’94 la “fonte Oriente” del colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Ilardo non ebbe tempo di dire tutto su quegli strani mondi. Nel’95 si offrì per catturare Provenzano. Ma il capo dei Ros, Mario Mori, scelse di attendere. Quando venne ucciso, nel maggio del ’96, Ilardo aveva deciso di pentirsi. Dopo il delitto, Riccio accuserà i suoi capi di avergli “bruciato” il confidente. Si studia anche un’altra circostanza. Totò Riina voleva uccidere Falcone a Roma. Tutto era pronto. Poi cambiò idea e scelse la strage. Rampulla la ideò, preparò ordigno e telecomando. Resta un mistero: chi consigliò Riina? Oggi, forse, il boss si vergogna di ammettere che qualcuno lo ingannò, spingendolo sul “piano inclinato” dello stragismo, che finì per annientare la “sua” Cosa Nostra. Su rilegge il fallito attentato dell’Addaura dell’89. Il procuratore aggiunto della Dna, Gianfranco Donadio, invita a considerare pe rintero la frase che Falcone pronunciò poco dopo. “Non parlò solo di menti raffinatissime” ricorda Donadio “ma di menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono punti di collegamento tra i vertici di Cosa Nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile, se si vogliono capire le ragioni che hanno spinto qualcuno a tentare di assassinarmi”. Tre anni dopo, “lo scenario più attendibile” si ripeté a Capaci. Falcone era tornato dagli Usa. Aveva incontrato il re dei pentiti, Tommaso Buscetta. Sei mesi dopo don Masino dirà, su chi indagava sulle stragi: “Se ne intendono quanto i dottori si intendono di astrologia. Io vedo altre cose intorno a queste cose”.

Tratto da: Il Venerdì di La Repubblica

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