Ma chi ha detto che “troie” sia per forza un termine riferito a donne? In “Troie” dell’americano Dennis Cooper, pubblicato da Fazi nel 2007, la “troia” è il giovane Brad, che mette annunci da marchetta e si ritrova subissato dal web. La troia è Brad. Si dirà, è una traduzione, il titolo originale era “The Sluts”, cioè i promiscui, senza moralità ecc, con “slut” termine inizialmente neutro (1400) e poi sempre più riferito a donne. In italiano però oggi è stato usato “troie” e la prima troia in questione nel romanzo è il giovane Brad, un uomo.
Prendiamo poi Elio Vittorini. Ha detto: “Troie, siamo. Siamo un fiorellino all’occhiello della giacca dei padroni”. Riferito a se stesso e alla categoria scrittori. Forse esagerava, ma non parlava di donne.
Infine Fabrizio De André, nella “Domenica delle salme”: “I polacchi non morirono subito e inginocchiati agli ultimi semafori rifacevano il trucco alle troie di regime lanciate verso il mare…”.
Insomma, il genere non è definitissimo, anche se i dizionari lo danno come molto definito. Prendiamo lo Zingarelli: “Troia, dal latino tardo come femmina del maiale. Figura volgare, puttana”. E puttana è più difficilmente riferibile al genere maschile.
Detto così, vediamo allora cosa fa Dante, massimo ambasciatore della nostra lingua ai suoi inizi. Dante non usa questo termine di “troia”, peraltro in uso, ma gli preferisce quello di “puttana”. Se scrive infatti “Troia” intende la città. “Vedeva Troia in cenere e in caverne…”. Così nel XII canto (verso 61) del Purgatorio. E così anche nell’Inferno, canti I (verso 74) e XXX (versi 98 e 114). Altrimenti nen senso di prostituta usa più semplicemente “puttana” (Inferno XVIII verso 133 e Purgatorio XXXII versi 149 e 160). Così se deve indicare una puttana sceglie magari Taide e la chiama Taide la puttana, figura derivata dalla letteratura latina (Terenzio, nell’Eunuchus, e poi in un trattatelo di Cicerone).
Secondo la filologa Anna Matura il termine “troia” era comunque presente dall’VIII secolo nel latino medievale, insieme a quello di porcus troianus.
“Troia” era poi passato nel volgare col significato che ha oggi, ma così non era stato in francese (truie) e in spagnolo (hembra del cerdo), lingue neolatine che non assegnano alla parola altri significati se non quello di femmina del porco. Perciò – Dante lo dimostra – il termine non ha avuto subito gran successo, neanche in Italia. E peraltro non compare neanche negli autori letterari successivi, restando a lungo confinato al gergo parlato.
Veniamo all’etimo di “troia” (nell’accezione di puttana) nella lingua italiana: non avrebbe nulla a che fare con Elena di Troia ma secondo alcuni filologi alluderebbe invece al famoso espediente usato da Ulisse, cioè il cavallo di Troia, ripieno di uomini. In latino volgare troia indicava comunque la scrofa, ed era anche il nome di un piatto a base di carne di maiale ripieno di cacciagione (porcus troianus).
Perciò in conclusione il dubbio sull’universo di genere a cui il termine è riferito resta. Crocetta comunque ha tagliato corto e ha allontanato Battiato dall’assessorato cultura.
Bibliografia:
Galli de’ Paratesi, Nora (1969), Le brutte parole. Semantica dell’eufemismo, Milano, Mondadori.
Nobili, Paola (a cura di) (2007), Insulti e pregiudizi. Discriminazione etnica e turpiloquio in film, canzoni e giornali, Roma, Aracne.
Pistolesi, Elena (2008), La banalità dell’altro: dallo stereotipo all’insulto etnico, inMigrazione e identità culturali, a cura di S. Taviano, Messina, Mesogea, pp. 227-238.
Tartamella, Vito (2006), Parolacce. Perché le diciamo, che cosa significano, quali effetti hanno, Milano, Rizzoli.