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Trentasei nuove “pietre d’inciampo”, trentasei vittime del nazifascismo, le loro storie: a Roma il 14 e 15 gennaio in cinque municipi

Trentasei nuove pietre d’’inciampo saranno posizionate a Roma il 14 e il 15 gennaio. Cinque i municipi coinvolti, I, II, IX, XVII e XVIII. Ecco alcune storie raccontate da parenti e amici:

1.

(Piazza Mattei, 3)

Un ricordo di Adele Ascarelli

Adele Ascarelli era cugina di mia madre Vera Sed, il cui padre era fratello della madre di Adele.

Non era sposata, viveva da sola con il suo vecchio padre malato e lavorava in casa facendo cappelli: di feltro d’inverno, di paglia d’estate.

I miei ricordi, ovviamente sono lontanissimi. Nel ’43 ero una bambina di 7 anni.

Ricordo che accompagnavo mia madre a trovare sua cugina Adele, che abitavamo molto vicine e che la guardavo mentre con il ferro da stiro dava forma ai cappelli.

Partecipando all’ottima iniziativa delle pietre d’inciampo, desideravo ricordare questa mite e laboriosa persona, ma poiché ero piccolissima e la chiamavo “zia Lella” ho dovuto chiedere aiuto alle mie cugine più grandi per saperne il nome.

Il 16 ottobre 1943 mentre i tedeschi la portavano via, Adele telefonò a mia madre, nascosta presso una famiglia estranea e terrorizzata dalla telefonata, per affidarle il padre che non poteva alzarsi dal letto e che, credo, sia morto subito dopo.

(Noretta Piperno)

***

2.

(Via Marmorata 169)

Adolfo Caviglia

Adolfo Caviglia, figlio di Sabato Caviglia e di Ester Citoni, era uno dei fratelli di mia nonna materna, Elvira.

Nato a Roma il 5 ottobre 1898, era un commesso del negozio Tessilgrosin di via delle Botteghe Oscure  n.39, di proprietà di un correligionario.

Arrestato la mattina del 9 marzo 1943 dalla Milizia fascista, zio Adolfo fu portato a via Tasso e poi a Regina Coeli, prima di essere tradotto alle Fosse Ardeatine.

Di lui, che ho conosciuto attraverso i ricordi pieni di angoscia di mia nonna, la sorella che lo cercò e lo attese fuori di Regina Coeli, conservo una serie di cose da sempre nella nostra casa: un severo pendolo a muro che scandisce le mezze ore, un gentile servizio da tè in porcellana a piccoli fiori azzurri, le vecchie tazzine da caffè con la base in argento.

Seppure mai conosciuto, neppure in fotografia, questo zio è stato, fin da piccola, una presenza viva nei racconti di famiglia, richiamando ogni volta un dolore palpabile e forte, ancora dopo molti anni, forse proprio per quella, anche allora, inconcepibile “sparizione”, seguita dall’affannosa ricerca, dall’alternanza  di notizie e indicazioni di speranza e di angoscia, dalla paura per quella perquisizione, avvenuta in casa il giorno stesso, durante la quale venne percossa zia Silvia, un’altra sorella da allora malata di cuore.

E poi, ancora, la disperazione, il raccapricciante riconoscimento, effettuato da nonna, grazie ad un cucchiaino che Adolfo portava sempre con sé per prendere una medicina indispensabile.

L’odore acre della morte. Lo strazio infinito di una donna fortissima, mia nonna, che aveva già perso un marito e poi un altro fratello deportato, ed era diventata suo malgrado il capofamiglia.

Sensazioni e sentimenti appena accennati, lasciati soprattutto ai lunghi sospiri, e a quegli occhi azzurri di mia nonna che, anche dopo molti anni, si velavano di pianto guardando qualcosa di invisibile, un punto lontano. Poche le parole strappate negli anni di avvenimenti che non voleva ricordare, ultima testimone di una barbarie che vorrei non si ripetesse mai più per i nostri figli, ma che purtroppo è in agguato oggi come ieri, ed è negli occhi di ciascuno dei mille “diversi” che la vivono nelle strade del mondo, ma che incontriamo, se facciamo attenzione, anche qui, vicino a noi, ogni giorno.

Il valore di questa piccola pietra è tutto qui: non  ricorda  un uomo soltanto, la sua fine ingiusta, il dolore di una famiglia, ma sollecita la mente e il cuore di chi cammina per le strade della città, di chi esce o entra in un portone per essere consapevole che quella barbarie c’è stata davvero e che è compito di ciascuno di noi essere vigile perché non torni più.

(Ariela Riva)

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3. (Via Santa Maria del Pianto, 10)

Per non dimenticare Pacifico Tagliacozzo

La tragedia della Shoah non si deve dimenticare, e mantenere vivo il ricordo nei nostri figli è un dovere che compio con grande dolore.

Era il 29 Marzo del 1944. Eravamo tutti seduti a cena. Bussarono alla porta: “Chi è?” chiese mia sorella più grande, (12 anni).
“Lorenzo, un amico di papà” risposero, ma non era lui, era un fascista che, entrato, disse: “Vieni e non fare storie altrimenti portiamo via tutti!”.
Questo è l’ultimo ricordo che le mie sorelle hanno di mio padre.

Due giorni dopo compivo due anni, e non ricordo mio padre. Guardo una sua foto, ma non conosco il suo viso, ha giocato con me? Mi sorrideva? NON RICORDO !
(Alberto Tagliacozzo)

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4.b (Via Licia 56)

Gioacchino Gesmundo nasce a Terlizzi (Ba) il 20 Novembre 1908, ultimo di 6 figli.                                                          La sua vita fin dall’infanzia è aspra, una vita difficile e grigia.                                                            Perde a 2 anni la madre e a 6 anni il padre.                                                                                            Sono i fratelli maggiori e le due sorelle  Isabella e Maria che si prendono cura di lui.                             Frequenta la Scuola Elementare e la Scuola Tecnica a Terlizzi e successivamente il Regio Magistrale “Bianchi Dittula” di Bari. Qui incontra il filosofo Giovanni Modugno suo professore e suo principale formatore spirituale.                                                                                                                                   Così lo ricorda una sua condiscepola Stasi-Grassi in una sua lettera inviataci alcuni anni fa.  “Gioacchino era uno studente bravo, uno dei migliori della classe, invidiato da tutti per la sua intelligenza, per la preparazione, sempre pronto a rispondere a tutti i quesiti in filosofia, per l’affetto che il Prof. di filosofia Modugno dimostrava verso l’allievo più bravo della classe”.                                

Si diploma nella sessione estiva del 1928 e si trasferisce a Roma per l’insegnamento.                             E’ maestro dal 1928 al 1932 presso la Scuola Elementare di Sette Camini e Tor Sapienza.                       Il suo rapporto con gli alunni è molto cordiale, buono e tollerante.                                                       Ecco un sonetto in romanesco trascritto e donatogli da Guido Tommasi; manifesta la                                                                                               benevolenza, il rispetto e la considerazione che si deve avere per il proprio maestro.

A chi se vo’ più bene

(Parla la mamma)

-Lore’ vie’ a “cavallucci’ ”: e fa’ attenzione

a la domanda che te faccio io:

Quale so’ su’ sto monno le perzone

che vòi più bene, doppo der gran Dio?

E Renzo senza facce rifressione: A mamma bella, insieme a papà mio,

a nonna che cammina cor bastone,                                                                                                                                 e poi abbasta…….. Aspetta:pure a zio!

-E non c’è più gnisuno, dimme un po’?                                                                                                    annamo, su ripenzece un pochetto…….

-A ma’ nun m’aricordo, nu lo so’!

-Ah, nu’ lo sai? Te lo dirà tu’ madre:                                                                                                                                    ce sta er Maestro, e porteje rispetto                                                                                                                                   uguale, come fusse n’atro padre!

Nello stesso anno 1928 si iscrive all’Istituto Superiore di Magistero in Roma e per le sue spiccate qualità intellettive si fa apprezzare dal Professore Guido De Ruggiero e dal Professore  Giuseppe-Lombardo-Radice.                                                                                                                                                             Consegue la Laurea il 1932 discutendo la tesi “Mito e Realtà con il Prof. De Ruggiero.                           Insegna “Storia e Filosofia” presso il Liceo Classico Vitruvio Pollione di Formia nel 1932.                                 Così l’Onorevole Pietro Ingrao suo studente:

Conobbi Gioacchino Gesmundo a Formia nel Liceo di cui ero allievo. Egli vi era giunto da Roma per insegnare Storia e Filosofia.

Cogliemmo fin dalle prime lezioni, in quel giovane professore, una singolare volontà e capacità di comunicazione. Ma la cosa che gradualmente doveva colpirci in una maniera impressionante più di tutte le altre era questa; egli era lì non per un atto di “routine” o per una formalità burocratica, ma per insegnarci quello che era indispensabile fare per costruire un domani diverso per noi stessi e per gli altri.

Gesmundo era un Professore molto aperto al rapporto con gli allievi, generoso nella comprensione, dava molto spazio alla confidenza, cercava con generosità il rapporto diretto con gli alunni.

Non usava in alcun modo il titolo gerarchico. Non ricordo mai che abbia avuto bisogno di alzare la voce o abbia fatto ricorso a richiami disciplinari. Non si metteva in alto, ma a fianco dell’allievo .

Successivamente viene nominato docente presso il Liceo Terenzio Marrone di Rieti e dal 1934, fino al 1944, anno in cui fu trucidato alle Fosse Ardeatine, presso il Liceo Classico Scientifico  “ C. Cavour “ di Roma.                                                                                                                                                              All’ingresso dell’Istituto si trova questa lapide:


In questo Liceo
Additò ai diletti discepoli

l’Amore alla Libertà

l’Odio alla tirannide

Gioacchino Gesmundo                                                                                                                             Caduto alle Fosse Ardeatine

vittima della barbarie nazista


24 Marzo 1947

Su una parete una lastra in bronzo con inciso un suo pensiero:

Io sono un apostolo                                                                                                                                                      della Libertà, la mia esistenza                                                                                                                          è votata al suo servizio; sono                                                                                                          impegnato a tutto fare, tutto osare,                                                                                                                 tutto soffrire per essa.                                                                                                                                               Fossi io perseguitato e odiato                                                                                                                                 per causa sua, dovessi pur                                                                                                                         morire per essa, che farei di straordinario?                                                                                                     Non altro che il mio dovere assoluto.

Nel 1943  aderisce al P.C. (clandestino) dopo un autonomo percorso ideologico di rifiuto al fascismo, crea nella sua casa una base clandestina che per un certo tempo è anche la redazione de “ l’UNITA’ “ deposito di giornali per lo smistamento della stampa antifascista nella zona e centro di riferimento per ricercati che avevano bisogno di aiuto, era anche il ritrovo di tutti i suoi allievi bisognosi di consigli e di affetto.
Era aperta a tutti e si sentiva felice quando si poteva intrattenere con loro, sapere cosa facessero, dare consigli e parole di conforto e di speranza
Sentiva che il suo compito non si esauriva fuori le pareti dell’aula, continuava le sue preziose lezioni a casa, vero tempio di fede e di studio “. (A. Marchini)
E’ esponente di spicco della Resistenza Romana e collabora attivamente con M. Fiorentini nella lotta partigiana con diverse azioni di disturbo e di attentati agli automezzi nazifascisti in transito per alcune vie di Roma.
E’ arrestato il 29/01/1944 dai militari della Guardia Nazionale Repubblicana (G.N.R.) e condotto in Via Tasso, dove subisce le torture più crudeli e sevizie per oltre 40 giorni fino al 22/03/1944 giorno del suo processo in cui è condannato a morte e viene trucidato alle Fosse Ardeatine il 24/03/1944.
Così il Dottor Patara e alcuni suoi ex allievi lo ricordano nel video realizzato dagli studenti del Liceo Scientifico “Cavour” di Roma nel 1990. 

“Noi studenti abbiamo avuto come professore Gesmundo per 3 o 4 anni, a secondo dei casi.                                                                                                               Manteniamo nel nostro cuore un ricordo splendido; di un uomo innanzitutto e di un bravo maestro.
Noi non avevamo un professore severo, ma un amico, un fratello più grande, non un padre; sì, proprio un fratello più grande.                                                                                                                                             Spiegandoci la Filosofia Lui ci faceva capire cos’era innanzitutto la Libertà, ma lo faceva come può fare un filosofo, come lo può fare chi è veramente convinto delle proprie idee, perciò non c’era propaganda. Nel mondo era un asceta.
Era un poeta.
Era più che un filosofo.
Era una persona che vedeva nei ragazzi uno strumento per far capire quale fosse veramente la libertà per tutti.
Nel Museo Storico della Liberazione in Via Tasso, che fu il carcere, la sede di torture e di sofferenza per tanti antifascisti è custodita la sua camicia insanguinata.

Il 24/04/1948 gli viene conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare.
Il 14/11/1960 gli viene intitolata a Roma in Piazza Cesare De Cupis, 20 (Tor Sapienza) la Scuola Elementare dove ha insegnato al suo arrivo.
Il 30/09/1965 gli viene intitolata a Terlizzi in Via Salamone la Scuola Media di Secondo Grado.               

Ecco la lapide all’ingresso della Scuola. 

“A GIOACCHINO GESMUNDO”                                                                                                                         nobile figura di pensatore                                                                                                                                            di educatore e di martire                                                                                                                                                              che alle Fosse Ardeatine                                                                                                                                   consacrava all’eternità                                                                                                                                                 i sacri ideali di libertà                                                                                                                                                                 di dignità umana e di Patria                                                                                                                                                     col sacrificio supremo                                                                                                                                                   memore la nuova generazione                                                                                                                          dedicò”.                                                                                                                                                                                                                                                  30 Settembre 1965

(Gioacchino Gesmundo)

5. (Piazza Campo de Fiori 41)

Mio Zio Claudio Piperno

Purtroppo posso raccontare molto poco su mio zio Claudio.

Sono nata il 28 giugno del 1943, nel pieno delle persecuzioni razziali.  I miei erano fuggitivi; lui, invece, fu preso per una spiata. Allora, per la denuncia di un ebreo davano 5.000 lire.

E per questa somma fu denunciato. La sua unica colpa: la religione.

Dopo la guerra, mio padre incontrò colui che vendette il fratello: lo prese a pugni. Questo tizio viveva tranquillamente,chissà se ha mai avuto degli scrupoli di coscienza!

A detta dei miei, Zio era un ragazzo gioioso ed esuberante.

Aveva 21 anni quando l’hanno assassinato.

Non posso dire altro.

Ricordo, però, che con Papà andavamo spesso alle Fosse Ardeatine a portargLi un fiore.

Ancora adesso mi chiedo: “Perché?”.

Mio Zio Claudio. Una vita rubata.

(Rosa Piperno)

(nella foto un momento della fiaccolata del 16 ottobre)

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