Migranti: volevamo braccia, sono arrivati uomini
Il Fatto Quotidiano, 11-01-2013
Erika Farris
“Volevamo braccia” è il recente video-documentario prodotto dal movimento Alcamo Bene Comune per denunciare le condizioni di lavoro dei braccianti stranieri nella vendemmia alcamese, in provincia di Trapani. Un piccolo spaccato del Paese. Una singola storia per raccontarne molte altre.
A settembre la città si popola di migranti. Alle cinque del mattino il raduno in Piazza Pittore Renda. Oltre duecento persone in attesa che un furgoncino si fermi per offrirgli una giornata di lavoro.
Alle sette la vigna è già in fermento e la raccolta dell’uva procede sino alle quattro del pomeriggio, o forse anche più tardi. Nove o dieci ore di campagna per una paga che varia dai 35 alle 45 Euro. Poi il ritorno in piazza, un pasto offerto dalla Caritas e una notte arrangiata all’aperto per i malcapitati senza alloggio. Gli altri anni venivano allestiti degli spazi con servizi igienici e letti per l’accoglienza dei braccianti settembrini, ma il 2012 è stato più duro del solito.
Anche Hedi Mahmudi sa cosa significa un mese di vendemmia ad Alcamo. Lui non compare nel video, ma ogni mattina, alle cinque, anche lui scende in piazza e spera in una giornata di lavoro. Hedi è nato 31 anni fa in Tunisia e dal settembre del 2004 vive in Italia. “Sono arrivato sopra un barcone con circa 250 ragazzi – spiega. Ho pagato 1500 Dinar (circa 733 Euro, ndr) di risparmi miei e di mio padre. Soldi che non spenderei mai più così. Li avrei potuti usare per fare qualcosa nel mio Paese, invece mi sono imbarcato nell’avventura più spaventosa della mia vita. Siamo partiti alle quattro del mattino e siamo arrivati a Pantelleria alle otto di sera, senza mangiare né bere, mentre il mare agitato buttava acqua nel barcone e la gente pregava Allah pensando alla morte. Giunti a destinazione un volo ci ha accompagnati al Centro accoglienza di Crotone, ma dopo quattro giorni sono scappato perché avevo paura di essere rimandato in Tunisia”.
Il primo treno per Milano e circa sei mesi in Lombardia, poi un breve periodo tra Palermo e dintorni siciliani con arrivo finale ad Alcamo: la cittadina che da circa quattro anni è divenuta la sua nuova casa, fra lavori da bracciante in campagna a operaio in cava. Dal 2007 i documenti di Hedi sono in regola. Un permesso di soggiorno che ha già rinnovato tre volte, perché i contratti di lavoro sono sempre a breve termine.
Con i soldi guadagnati paga i 180 euro di affitto del piccolo appartamento in cui vive assieme al suo cane. Quando può, manda qualcosa anche alla sua famiglia. Lui è il più grande dei sei figli che i suoi genitori hanno lasciato. Hedi sente soprattutto la responsabilità della sorellina di dieci anni e dell’altra di ventitré, affetta da una malattia che le impedisce di essere autosufficiente.
Hedi ha molti amici ad Alcamo, e vivere in Italia gli piace. “Qui mi sento libero – racconta. In Tunisia non potevo neanche bere una birra in pubblico. Adesso però, dopo Ben Ali, le cose sono cambiate. Ad esempio, uomini e donne sono uguali e c’è più libertà su tutto. Io purtroppo non ci torno da oltre due anni. Non c’ero neppure quando è morto mio padre e ancora ne soffro”. Hedi comincia a ripensare alla Tunisia. “Magari andrò a lavorare con mio fratello nella campagna di famiglia – pensa – e magari un giorno anche io riuscirò a godermi la vita”.