Venticinque novembre. Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Il mio contributo è di pubblicare qui di seguito un paio di capitoli di “Uomini e donne del Sud” uscito da poco. Il primo riguarda le sindache della Calabria, parecchie sotto scorta, il secondo la coraggiosa emittente nata nella Locride da poco più di un mese che si chiama “Fimmina tv”. Realtà poco seguite, in generale, che vale la pena di conoscere. Fimmina Tv segue in questi giorni il processo per le violenze subite da Anna Maria Scarfò. La sua vicenda è stata così riassunta da Globalist all’inizio del processo, in febbraio.
Giovane e donna, isolata dal paesino della provincia reggina in cui viveva, violentata più volte dal branco, indifesa. La storia di Anna Maria Scarfò, nonostante tutto, è una storia di estremo coraggio. Il coraggio che lei, ancora minorenne, ha trovato per denunciare chi, ripetutamente e in gruppo, la stuprava. Quando fu invitata a portare con sé anche la sorella Concetta – per farla partecipare a quegli squallidi incontri forzati – non ce l’ha fatta più e ha rotto il muro del silenzio. Ha denunciato anni di violenze e persecuzioni, iniziati quando lei aveva ancora 13 anni. Chi ha abusato di lei è già stato condannato. Ma non è bastata quella condanna a farle vivere una vita normale. Sia perché quelle immagini di brutale violenza ancora sono davanti ai suoi occhi, sia perchè questa vicenda non si è completamente chiusa. Lo scorso lunedì, infatti, il giudice monocratico del Tribunale di Cinquefrondi (sede staccata del tribunale di Palmi), Giuseppe Ramondino, non ha potuto fare altro che accogliere le istanze dei legali di quattro dei sedici imputati e sospendere l’udienza, decidendo la rimessione del processo scaturito dalle denunce per minacce contro Anna Maria. Per gli avvocati non era opportuno fare partecipare il pubblico e la stampa al processo, per il clima di tensione che si era creato nei giorni che hanno preceduto l’udienza. E perché, gruppi di associazioni erano presenti in aula a manifestare il sostegno alla ragazza che oggi ha 26 anni. “Una eccessiva pressione mediatica – per i legali – non consentirebbe una serena decisione del giudice monocratico di Cinquefrondi”. A pronunciarsi sul caso, dunque, ora sarà la Cassazione.
E’ vero: per la prima volta dopo tantissimi anni, la stampa – locale e nazionale – ha acceso i riflettori sul caso Scarfò. La giovane non è più sola. A supportarla cittadini e associazioni, non solo locali. Ma, dall’altra parte, c’è sempre la comunità di San Martino, quella comunità che ha condannato Anna Maria attribuendole l’etichetta di “puttana”, provocatrice. Per quella comunità, maschilista e piuttosto arretrata, lei è colpevole. Dopo essere stata violentata la prima volta e aver chiesto aiuto al prete della piccola frazione del comune di Taurianova, San Martino, tutti le hanno girato le spalle e lei ha continuato a subire in silenzio. Per paura. Anna Maria è ‘colpevole’, solo di essere donna e, ancora una volta, sola. Ha subito diverse pressioni, minacce di morte, il bucato sporco di sangue la notte, telefonate anonime, il cane ammazzato. Lei e la sua famiglia sono stati costretti a chiudersi in casa. Lunedì a Cinquefrondi, i parenti aspettavano gli imputati a braccia aperte e guardavano con occhi di sfida giornalisti a associazioni che invece circondavano la giovane donna.
Fino a quando non ha denunciato i suoi persecutori la sua vita a San Martino è proseguita fra privazioni e silenzi. Mai nessuno le avrebbe dato un lavoro, mai nessuno l’avrebbe sostenuta concretamente, mai nessuno si sarebbe scontrato con chi le dava fastidio. Riesce a entrare nel programma di protezione per stalking, va finalmente via dalla Calabria. Ma appena il giudice decide di rinviare il processo non ce la fa, scoppia in lacrime. La madre si sente male a abbandona l’aula. Tra gli imputati ci sono anche tre dei suoi stupratori. Il suo avvocato, Rosalba Sciarrone, non smette di starle vicino. “Anna Maria ha affrontato tutti i suoi processi da sola – non esita a dire – non ha mai avuto l’appoggio del paese, la stampa ha taciuto. Anna Maria è comunque stata ammessa ad un programma di protezione. Oggi non ha la solidarietà di associazioni ma di uomini e donne che hanno letto la sua storia. Anna Maria ha affrontato da sola anche il processo per violenza carnale”. L’avvocato non ha dubbi: “oggi è una giornata di vittoria – dice nonostante la notizia del rinvio – l’istanza è infondata. Abbiamo vinto perché per la prima volta abbiamo rotto il muro del silenzio e proprio questo ha fatto paura”.
L’udienza adesso si svolgerà senza la presenza del pubblico e della stampa. Ma non importa. Ormai Anna Maria sa di poter contare su centinaia di persone che l’hanno raggiunta da Catania, da Reggio Calabria e da Napoli. Una rete di solidarietà partita dal web.
Due mondi che si scontrano. Da una parte il Sud in cerca di riscatto, vicino alle vittime e a chi subisce delle ingiustizie. Dall’altro lato, la parte arretrata di un Sud che non vuole cambiare, che continua a trovare la forza nell’omertà e nel silenzio. Il silenzio che ha contraddistinto la piccolissima comunità ai piedi dell’Aspromonte. Anna Maria però guarda avanti e, nonostante non voglia essere ripresa per motivi di sicurezza né scambiare molte parole con i giornalisti, trova la forza per dire: “mi sento meno sola”.
DA “Uomini e donne del Sud” (Imprimatur editore, 2012)
La tv delle fimmine
Fimmina tv, con l’accento sulla prima i. Da lunedì 24 settembre 2012 la Locride calabrese ha questa nuova televisione che trasmette in tutta la Calabria da Roccella Jonica sui canali 384 e 684 del digitale terrestre. Una televisione di donne che parla di donne e si rivolge soprattutto alle donne è una piccola rivoluzione per i 42 piccoli comuni della Locride. A metterla in piedi è stata una cronista di cronaca nera che in passato ha lavorato un po’ con tutti i principali media calabresi e ne ha fatto anche uno da sola, “Ifmagazine” (Il fatto magazine, molto prima del nuovo giornale nazionale) per quasi tre anni. La giornalista si chiama Raffaella Rinaldis. Rinunciando a comprarsi una mezza casa ha gettato tutto il suo piccolo capitale in questa impresa straordinaria nella quale ha coinvolto una dozzina di giovani donne trasformate in redazione (a cui si aggiungono anche tre uomini). Il successo è stato istantaneo.
Lo testimonia questa poesia che il poeta calabrese, Salvatore Lucisano, ha subito spedito alle ragazze di Fimmina Tv: “Passa pa tutti ciangendu e scherzando, st’avventura ch’esti chiamata vita, cu nta ricchizza, cu limosinandu, C’è cu vinci e cu perdi sta partita. E’ rregulata di na fimmanazza , chi tutti quanti jiamunu fortuna, chi faci parti di na brutta razza, chi và e veni, comu nci gir’a luna…”. E ancora: “ Pecchì fimmina esti a felicità, pecchì fimmina esti ogni mamm,
pecchi fimmina è pur’a verità , pecchì fimmina esti pur’a fiamma…”.
Naturalmente la poesia che è molto più lunga è stata letta in tv, entrando nel palinsesto di otto ore che si ripete per due volte al giorno dalle 7 alle 23. Ma, oltre al poeta calabrese e a qualche altro uomo, sono soprattutto le donne ad apprezzare tutto lo spaccato femminile che rubrica dopo rubrica, approfondimento dopo approfondimento va in onda su Fimmina tv.
Hanno fatto subito sensazione le intervistate di “Professione donna”, mezz’ora di trasmissione per sentire dalla viva voce di donne calabresi le loro esperienze in corso. Tra le prime a comparire su “Professione donna” è stata Maria Carmela Lanzetta, la sindaca di Monasterace, che a tutto il comprensorio della sua Locride ha mandato il suo chiaro messaggio: “Non ho fatto nulla di speciale, fare bene il proprio lavoro dà però fastidio a qualcuno, non esistono però vari gradi legalità, o si sta con la legalità o si è contro…”. Un manifesto politico chiaro e semplice che ha riempito presto la mail della tv (fimmina.tv@facebook.com) e scaldato la cornetta del telefono.
E poi dopo la sindaca ecco Liliana Esposito Carbone una maestra di Locri, soprattutto madre di un ragazzo ucciso dalla ‘ndrangheta. Oppure una ragazza disabile di Roccella Jonica che racconta come è stata discriminata all’università di Milano dove, dopo aver conseguito la laurea breve in Calabria, si era iscritta a sociologia per andare avanti ma le è stato negato di fatto il primo esame
Da dare. La studentessa si chiama Chiara e dal suo racconto è nato subito un nuovo programma per la denuncia delle discriminazioni che si chiama “Ditelo a Chiara”.
Il telegiornale ha fin dalla testata una evidente vocazione a raccogliere le occasioni delle battaglie che le donne possono fare. Suona infatti così: “Tg fimmina sociale”. Ed è lì che è stata ascoltata la storia di una madre di 34 anni che ha un figlio affetto da autismo. Questa vicenda a cavallo tra la Calabria e Genova, dove la madre calabrese risiede oggi, ha messo a nudo lo scarso aiuto del servizio sanitario nazionale che si limita ad offrire alcune ore (cinque settimanali) per la fisioterapia e la logopedia, ma si guarda bene dall’investigare smeglio sulle frontiere del problema.
Man mano che scorre la programmazione della televisione di Roccella Jonica si incontrano programmi come una sorta di talk show che è “Il sofà di Fimmina”, programmi ambientali come “Gazza ladra” sulle normative e kle informazioni utili o “Pianeta magazine” sulla tutela degli animali (la tv ha subito adottato un cagnolino a distanza, in un canile di Gioiosa Jonica).
E poi naturalmente si parla parecchio anche di informazione. Ha suscitato molto interesse la storia delle croniste minacciate nel Mezzogiorno. Se ne è parlato a proposito dell’e-book di Geraldo Gerardo Adinolfi, “La donna che morse il cane. Storie di croniste minacciate” che racconta la vita di cinque giornaliste: Rosaria Capacchione, Marilena Natale, Amalia De Simone, Stefania Petyx e Maria Luisa Mastrogiovanni. Le telespettatrici della Locride hanno così fatto la diretta conoscenza di queste donne dell’informazione che raccontano con lucidità i fatti dei propri territori in mano alla criminalità organizzata. Alberto Spampinato, fratello del giornalista ucciso in Sicilia e giornalista a sua volta nonché direttore di “Ossigeno per l’informazione”, l’osservatorio dei giornalisti vittime di minacce, è stato presente con la sua bella prefazione.
Insomma, per la Locride e la Calabria di Reggio e Catanzaro dove si vede Fimmina Tv è in corso un evento importante che facilita la libertà di denuncia e di nuova relazione sociale.
Reazioni? “Una ragazza di Catania ci ha subito contattato per partecipareal lavoro redazionale – spiega Raffaella Rinaldis -. Vengo, anche senza stipendio, ci ha detto. Prendo il primo treno e sono da voi…”.
La tv segue anche quando può i processi in corso, come quello per gli abusi sessuali subiti da Anna Maria Scarfò una giovane donna di Cinquefrondi. E poi c’è Zip, cinque minuti tra un programma e l’altro, in cui una giornalista recita magari piccoli brani come quello in cui Tahar Ben Jelloun racconta l’estraniazione che un extracomunitario prova quando si ritrova ad emigrare in un paese straniero…
Libere donne di Calabria
La mattina del 27 marzo 2012 Maria Carmela Lanzetta, farmacista e sindaco “femmina” di Monasterace in Calabria, uscita di casa, notò subito quei fori nella carrozzeria della sua piccola Panda. “Strano”, pensò, “ieri non c’erano di sicuro, chissà…”. Poi ne notò anche altri sulla serranda della farmacia. Presa da altri pensieri di lì a poco raggiunse la sede del Comune e incontrato il presidente del consiglio comunale, un amico eletto con la sua stessa lista, a un certo punto gli chiese cosa potessero essere quei fori. La risposta seguita da un rapido riscontro sul posto la raggelò. “Sono pallottole, Maria Carmela, pallottole contro di te, contro di noi…”.
Il primo attentato Carmela Lanzetta l’aveva già subito nel giugno dell’anno prima. Le avevano dato fuoco, di notte, alla sua farmacia. A quel punto, dopo un secondo pesante gesto intimidatorio, il sindaco Lanzetta è stata messa sotto scorta. Lanzetta è al suo secondo mandato nel paese della costa jonica. Donna minuta e decisa gira opra col suo angelo custode, un agente armato.
Non è l’unica sindachessa calabrese sotto scorta, un’altra è Elisabetta Tripodi eletta a Rosarno subito dopo la rivolta dei raccoglitori extracomunitari. Donne in Calabria, qualcosa di rilevante sta succedendo. Donne sindaco, donne di denuncia, donne che rischiano la vita ma vanno avanti, e poi altre donne che rompono i legami di famiglia dentro la ‘ndrangheta..
Spesso lo si dimentica ma la ‘ndrangheta è l’unica consorteria mafiosa su base strettamente familistica. Le altre organizzazioni criminali mafiose possono essere considerate più affini ad associazioni di delinquenti che si richiamano a volte anche alle loro famiglie ma che non necessariamente ne sono espressione. E questo crea una differenza calabrese che si chiama in ultima analisi donna. Da questo fronte stanno nascendo le novità positive più significative: le donne della ‘ndrangheta hanno cominciato a dichiararsi contro i loro clan pagando spesso prezzi altissimi e rimettendoci a volte la vita. Sono i nomi di questa nuova resistenza al peggio che stanno facendo la differenza: come Giuseppina Pesce che ha avuto il coraggio di affrontare frontalmente in un’aula giudiziaria la sua “famiglia” a Rosarno, come Maria Concetta Cacciola sempre di Rosarno madre di tre figli che nell’agosto 2011 si è uccisa ingerendo acido muriatico, come Lea Garofalo di Petilia Policastro diventata testimone di giustizia e uccisa dalla famiglia che l’ha eliminata sciogliendola in cinquanta chili di acido (ma Denise sua figlia, scampata alla morte, è riuscita a denunciare suo padre).
Tempo fa a Gerace in piena Locride la cantastorie Francesca Prestia ha ricordato Lea Policastro suonando in pubblico «La ballata di Lea». Era il 25 giugno 2012, a Gerace la piazza era in mano alle donne di “Se non ora quando”. Francesca ha cantato, vicino al palco c’era Francesca sorella maggiore di Lea, otto anni di differenza. «Lea era una ribelle, fin da ragazzina», ha raccontato quel giorno alla giornalista Maria Grazia Gerina scesa in Calabria per vedere da vicino questo evento straordinario, fatto di donne finalmente diverse. Francesca ha ricordato questa sorella di appena 35 anni sciolta nell’acido, perché non doveva parlare, non doveva denunciare quello che aveva visto da donna sposata con un uomo di ‘ndrangheta. «Lei ha sempre avuto più coraggio di me», si è schermita Francesca. «È per i figli», ha aggiunto “che le donne come Lea decidono di non sottomettersi. Mia sorella aveva una figlia, Denise, diciott’anni quando Lea è stata uccisa. Ora la testimone di giustizia è diventata lei. Non so nemmeno dove sia», dice Francesca che di figli ne ha tre. Ecco, siamo in Piazza del Tocco. E’ lì che 25 giugno si èp levato alto il grido “«La Calabria è delle donne». Cose mai viste in Calabria. Ci sono le sindachesse, in piazza, ci sono delegazioni di Rosarno, Monasterace, Decollatura, Isola Capo Rizzuto. «È l’onda lunga di “Se non ora quando” – dice quel giorno compiaciuta Cristina Comencini che è arrivata fin lì, per ritrovarsi con Anna Carabetta di Snoq Calabria o con Filomena Fotia, consigliera di Marco Rossi Doria per i progetti contro la dispersione scolastica, calabrese anche lei. «Fuggita via» ragazza e tornata inesorabilmente ora ad occuparsi della sua terra. E lì c’è anche Maria Carmela Lanzetta, con la sua scorta. Lanzetta si muove a suo agio tra questi 42 comuni della Locride, malfamatissima zona che si è fatta un nome in mezzo mondo per i sequestri di persona. La Locride sono 130 mila abitanti, i paesi vanno da comunità minuscole a entità di 3500 abitanti. Lanzetta è la dimostrazione fisica di un’altra Locride. “Monasterace – dice – è chiamata anche Caulonia, un nome che richiama la Magna Grecia”. Un nome che oggi è teatro del festival di musica meridionale con Eugenio Bennato in testa. Le donne del paese lavorano nelle serre della campagna, si o occupano come braccianti delle talee di crisantemo, Monasterace è il regno del bel fiore che la nostra cultura ha legato al culto dei morti e che in Giappone, per fare un esempio di segno opposto, è invece un fiore della vita. “Sono diventata sindaco di questa comunità che considero sana e per bene nel 2006 – spiega Maria Carmela Lanzetta -. Dopo solo un anno ecco che di notte vengono bruciate le auto di due miei assessori. Poi ecco gli attentati contro di me. Una settimana fa hanno bruciato l’auto di Clelia Raspa, una dottoressa che è anche capogruppo della nostra lista “Indipendenza e libertà”. Purtroppo si crea un clima in cui ognuno di noi pensa: “Adesso toccherà a me?”.
Lanzetta racconta la vita di queste donne delle campagne che ha preso sotto tutela, il loro salario che spesso salta del tutto e che da ultimo è arrivato a non essere pagato da ben due anni. Quando le hanno sparato all’auto il giorno successivo era convocato un consiglio comunale aperto proprio sul salario non pagato alle raccoglitrici. “Nel 2011 sono stata rieletta, con me altre quattro donne e quattro uomini giovani – prosegue -. Un mese dopo ecco l’incendio alla farmacia. Qualcuno trova indigeribili le nostre attività. Il paese è piccolo e povero, le ferrovie ci hanno tagliato fuori e Monasterace non ha più un collegamento diretto con Roma, nella periferia le scuole sono chiuse. E poi ci sono le donne dei crisantemi, 29 euro al giorno per una media di lavoro di 51 giorni all’anno, salari che diventano fantasmi. Noi combattiamo contro la cattiva gestione di queste serre, che coprono 75 mila metri quadri di terreno, avviate un quarto di secolo fa da olandesi che poi si sono dileguati. E allora ecco che noi cerchiamo contratti con gruppi di acquisto solidale, appoggiamo la nascita di cooperative e spingiamo queste donne a diventare perfino imprenditrici di se stesse producendo prodotti biologici…”.
Il cruccio di Elisabetta Tripodi, eletta a Rosarno, è l’idea che giudica falsa di una popolazione del suo paese da considerare razzista. “Il 90% di Rosarno non lo è affatto”, dice con decisione. “Ho colto questa occasione che si è presentata, quella di fare il sindaco, come possibilità concreta di ricostruire l’immagine di Rosarno. Però non mi aspettavo dopo soli otto mesi di ritrovarmi sotto scorta…”.
Arrivata nell’ufficio del sindaco Elisabetta Tripodi ha guardato nei cassetti. E ha trovato pratiche sepolte. Come quella che giaceva dal 2003 per una casa occupata abusivamente da familiari del boss Rocco Pesce.
“Ho deciso di far sgombrare quella casa occupata dalla madre e dal fratello di Pesce, era un’ordinanza che doveva essere eseguita dal 2003, ma evidentemente aveva prevalso la paura”, spiega la sindachessa di Rosarno. E così ha fatto, senza pensarci due volte: i Pesce sono uno dei clan che comandano a Rosario. Passa poco tempo ed ecco recapitare alla Tripodi una lettera dal carcere. A spedirla è Rocco Pesce. Il detenuto dice che nel suo paese ci sono troppe cose che non vanno. Tipo: il Comune si sta costruendo parte civile nei processi alla ‘ndrangheta e poi fa case per extracomunitari. “Mi fa soffrire che ti occupi di extracomunitari clandestini”, le scrive Pesce dal carcere.
“Mi sono sentita diffamata, come se fossi stata votata dai clan e quindi richiamata all’ordine”, protesta Elisabetta Tripodi. “Sono subito andata dai carabinieri. La lettera era vera, era stata autorizzata dal carcere, allora ho denunciato Pesce per l’intimidazione, ne è nato un processo in cui l’uomo che è già ergastolano è stato condannato ad altri 5 anni di reclusione e al 41 bis”.
“Ho reagito, i cittadini mi hanno espresso vicinanza, non si può uccidere la speranza, noi abbiamo portato una forte rottura in paese, con me su 20 consiglieri comunali ne sono stati eletti 13 nuovi e di loro 5 sono le donne entrate in consiglio, insomma per Rosarno una rivoluzione”.
Queste sindache spesso hanno studiato fuori e ora sono tornate per occuparsi del proprio paese. A Decollaturta, nel casentino, Anna Maria Cardamone ha fatto così. “Per dodici anni i miei compaesani avevano avuto lo stesso sindaco, che per due volte aveva subito un accesso agli atti della commissione antimafia – spiega la sindachessa di Decollatura -. E così quando un gruppo di ragazzi e ragazze mi ha chiesto: “Vogliamo rivoltare il paese?”. Io che vivevo a Catanzaro ho risposto: “Va bene, vi do cinque anni della mia vita ma non ci devono essere politici nella nostra lista…”.
Cardamone doveva fermarsi alla terza media, così voleva la sua famiglia. Capa tosta ha disubbidito ed eccola laureata a Messina in economia e poi, addirittura, se ne va a prendere un master a Sheffield in Inghilterra. Tornata in Calabria dirigeva un ufficio economico della regione. A Decollatura è tornata come un oggetto di curiosità. “Non ci facevano neanche entrare nelle case durante la campagna elettorale – ricorda-. Avevano paura di essere visti dagli altri. Contro di me tre candidati uomini, ex sindaci ed ex consiglieri regionali, potenti. Io guidavo un drappello di quattro donne e cinque ragazzi giovani, età media 32 anni. Abbiamo stravinto. Poi quando ho cominciato a fare un po’ di pulizia ecco che sono fioccate le lettere anonime, lettere di minaccia. Io intanto ho eliminato il contratto sui rifiuti con una società esterna che costava 18 mila euro al mese e ho ridotto la spesa a 7 mila euro. Ho avviato una pulizia amministrativa, cambiando il dirigente dell’ufficio tecnico. Poi abbiamo aperto una scuola estiva in aiuto alle madri che lavorano in agricoltura e nel commercio. Non abbiamo ancora un nido, lo costruiremo presto…”.
Elisabetta Tripodi ascolta e commenta: “Mica ci sentiamo sole. A Rosarno c’è Mamma Africa, il suo vero nome è Onorina Ventre, ha 83 anni e da oltre dieci anni è lei che organizza ogni domenica una mensa per gli immigrati. Con le sue sole forze ogni domenica accoglie dalle 16,30 in poi tre turni di 33 persone con pasti caldi. Fa mangiare un centinaio di raccoglitori sulla sua terra sotto una tettoia…Onorina Ventre, cercate di ricordare il nome di questa coraggiosa e generosa ultraottantenne…”.