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“Perché il 9 ottobre del 1982 era stata tolta la polizia di fronte alla Sinagoga?”. L’accusa di Riccardo Pacifici di fronte a Napolitano nel giorno in cui si ricorda Stefano Taché

“Signor Presidente, perché quel giorno, e sottolineo solo quel giorno, non vi era la presenza delle Forze dell’ordine di onte alla Sinagoga? E’ forse vero, come abbiamo letto da più parti, che siamo stati anche noi vittime del cosiddetto “lodo Moro”, noi come altre vittime italiane in Italia e all’estero?”.

Le parole di Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica di Roma, calano come un gelo dentro il Tempio Maggiore in cui di fronte al presidente della repubblica Giorgio Napolitano (nella foto con Gadiel Tsaché e Riccardo Pacifici di spalle) e ai rappresentanti dello stato si commemora il 9 ottobre del 1982 con il feroce attentato palestinese che provocò la morte del piccolo Stefano Gaj Taché di appena due anni e il ferimento di altre 42 persone. Alla presenza anche dei due presidenti di Camera e Senato, del ministro dell’interno Anna Maria Cancellieri, dei presidenti della regione e della provincia oltre al sindaco Alemanno, la cerimonia ha registrato i discorsi tutt’altro che di circostanza anche del rabbino capo Riccardo Di Segni, del presidente dell’Ucei Renzo Gattegna e dopo il saluto di una studentessa del Visconti di Gadiel Taché, fratello del piccolo Stefano. Commozione, frequenti applausi, soprattutto una ripetuta accusa per ricevere una giustizia che ancora non è stata fatta. Al termine della cerimonia il presidente Napolitano e il ministro Cancellieri hanno consegnato la medaglia d’oro alla memoria della piccola vittima.

“Sono il figlio di un sopravvissuto a quel vile gesto terroristico – ha esordito Riccardo Pacifici, citando il padre Emanuele rimasto ferito in modo gravissimo e dato per morto -. Nel dare a mio padre l’ultimo saluto e la benedizione il nostro Rabbino emerito Elio Toaff si rese conto che ancora

respirava, cercò quindi di richiamare l’attenzione dei medici tra i quali il professor Oliviero Schillirò implorandolo di tentare il tutto per tutto. Così fece assieme ai professori Stefano Picchioni e Giuseppe Cucchiara e oggi mio padre non sarebbe ancora vivo se quei medici e tanti altri negli anni a venire non si fossero prodigati con amore per le sue cure…”. Ma dopo ai ringraziamenti ai medici (che al termine della cerimonia hanno ricevuto insieme ad altri soccorritori del 9 ottobre certificati di gratitudine) ecco risuonare un forte richiamo di chi ha visto quel giorno “mutare la propria vita: “Quel giorno giurai a me stesso che avrei combattuto con anima e corpo per la mia comunità, per Israele”. E poi ecco la constatazione della solitudine di allora, con quella bara vuota lasciata di fronte al Tempio durante un corteo sindacale un mese prima dell’attentato, l’accoglienza a Roma del capo dell’Olp, le accuse agli ebrei per la guerra del Libano, trovare dalla propria parte solo Giovanni Spadolini e Marco Pannella. E così Pacifici dopo aver ricordato le rivelazioni dei brigatisti sui legami con l’Olp e la mancata esecuzione di un ordine di cattura emesso dal giudice Carlo Ma stelloni nei confronti di Arafat ha chiesto con forza che gli ebrei vogliono risposte alle domande poste “togliendo anche tutti i segreti di stato al riguardo”.

Anche il rabbino capo Riccardo Di Segni è partito da una testimonianza personale poco nota, ricordando l’arrivo del presidente Sandro Pertini quel giorno all’Isola Tiberina “accolto nelle strade da un assordante gelido silenzio” e di averlo visto poi piangere a dirotto di fronte alla bara del piccolo Taché: “Sono convinto che fosse una commozione sincera, ma quel pianto rappresentava per noi il culmine di una drammatica contraddizione, tra la commozione per la tragedia e l’atmosfera in cui si era determinata. L’attentato alla Sinagoga non era stato un evento isolato. Il dissenso legittimo nei confronti di una guerra e di un governo si era trasformato in una campagna di demonizzazione degli ebrei in quanto tali, condivisa a tutti i livelli. Fu elaborato con disinvoltura un mito collettivo di colpevolizzazione , che doveva portare a una sorta di sacrificio rituale di cui noi fummo le vittime designate”. Renzo Gattegna poi ha invece voluto apprezzare una dichiarazione oggi di Napolitano quando il presidente ha ricordato: “Antisionismo significa negazione della fonte ispiratrice dello Stato ebraico, delle ragioni della sua nascita ieri e della sua sicurezza oggi, al di là dei governi che si alternano nella guida di Israele. No all’antisemitismo anche quando esso si traveste da antisionismo”.

Momenti di commozione infine quando ha preso la parola Gadiel Taché, che all’epoca aveva quattro anni e che rimase gravemente ferito. “Sono un testimone, ma anche un sopravvissuto di quel vile attentato – ha ricordato il fratello di Stefano -. La mia vita fu miracolosamente salvata dai medici del Fatebenefratelli e poi del San Camillo, a cui devo il mio più affettuoso ringraziamento. Se oggi sono qui in piedi a parlare lo devo principalmente a loro…”. E poi: “La cosa più terribile che mi è stata fatta è stata togliermi la possibilità di conoscere mio fratello, mi è stato portato via un compagno di giochi, un compagno di vita, con cui parlare, confidarsi, scherzare e anche litigare”.

Dopo aver ricordato che oggi l’atmosfera è molto diversa da quella di allora Gadiel ha ringraziato  il presidente Napolitano “per le belle parole pronunciate il 9 maggio scorso in occasione di tutte le vittime italiane del terrorismo, in cui nominò il mio piccolo fratellino”. Alla cerimonia era presente anche una rappresentanza degli ultimi testimoni della Shoah, con sopravvissuti ai campi di sterminio come Piero Terracina ed Alberto Mieli. Con loro Marika, la vedova di Shlomo Venezia scomparso da pochi giorni.

Paolo Brogi

Corriere.it 10.10.12

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