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Gramsci, tra “prigione fascista” e “labirinto comunista”

Perché i Quaderni del carcere sono 33, e non 34, come in origine e più volte annunciato dallo stesso Togliatti? Un quaderno «si è perduto»? Gramsci sapeva che Sraffa trasmetteva le sue lettere a Togliatti? Nonostante la successiva «vulgata» del partito, che avrebbe dipinto un Gramsci «morto nelle carceri fasciste», egli passò i suoi ultimi due anni e mezzo in libertà condizionale. È verosimile che in quegli anni abbia smesso quasi completamente di scrivere? E perché non riprese i contatti con i vertici del partito e dell’Internazionale comunista? Alcune di queste domande sono inedite. Tutte aspettano ancora risposte convincenti. Ad affrontare il problema è Franco Lo Piparo con I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (Donzelli editore, pp.152, euro 16,00) che ha appena vinto, per la sezione Saggistica, il Premio Letterario Viareggio-Rèpaci 2012. Lo Piparo – spiegano da Donzelli – sceglie di partire da un indizio, che gli appare subito forte, decisivo. Esamina con la lente del linguista la lettera di Gramsci a Tania del 27 febbraio 1933 che la cognata definì, per la sua scrittura allusiva, «un capolavoro di lingua esopica». La lettera è il grimaldello con cui viene forzato lo scrigno che racchiude la complessa personalità, politica e umana, del prigioniero. Entrato in carcere come «segretario del Partito comunista d’Italia», Gramsci ne uscì convinto che tutta la sua vita era stata «un grande errore, un dirizzone». Franco Lo Piparo è ordinario di Filosofia del linguaggio all’Università di Palermo. In Lingua, intellettuali, egemonia in Gramsci (1979) documentò la provenienza dagli studi universitari di glottologia della nozione gramsciana di egemonia. Recentemente in Gramsci and Wittgenstein: an intriguing connection (2010) ha mostrato la strana e imprevista influenza di Gramsci su Wittgenstein via Sraffa.

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