Riprendo da corriere.it questa storia, riguarda una donna coraggiosa che sta sfidando la ‘ndrangheta in Calabria: Rosy Canale.
La storia di Rosy – Un laboratorio di saponi per combattere la ‘ndrangheta
di Micol Sarfatti
Portare cultura del lavoro e sviluppo dove questi valori non esistono perché alla legalità si preferiscono le leggi non scritte della malavita. Un’impresa ardua, ma non per Rosy Canale, imprenditrice calabrese 38enne che ha fatto della lotta alla ‘ndrangheta una missione di vita.
A lei lavorare piace da sempre: “ero proprietaria e gestore di un locale a Reggio Calabria -racconta Rosy- inaugurato e fatto crescere con tanti sacrifici” ma un giorno è costretta a smettere. La criminalità organizzata la prende di mira, vuole che il suo locale diventi una base per lo spaccio di droga. Lei si ribella, loro la minacciano.
Una sera Rosy sale in macchina dopo aver finito di lavorare, ad attenderla ci sono due aggressori. “Mi hanno picchiata fino a ridurmi in fin di vita -racconta- Ho capito che lì non ero più al sicuro”. Lascia la Calabria, ma alla fine decide di tornarci, e non in un posto a caso.
Nel 2007 si trasferisce nella Locride, a San Luca, roccaforte della ‘ndrangheta. “Volevo dare un’altra chance alla mia terra -spiega- Ho scelto un paese in cui la malavita comanda. Ho pensato che se un seme riesce a germogliare nella roccia, allora può farlo ovunque”.
Qui Rosy fonda il Movimento donne di San Luca e della Locride: un’associazione che vuole salvare madri e figli dalla criminalità e diffondere la cultura della legalità attraverso il lavoro. “Prima ho aperto una ludoteca, un posto sicuro per i bambini abituati a giocare con le pistole”, spiega la Canale.
“Poi ho avviato un laboratorio per la produzione di saponi artigianali e uno di ricamo”. Lavori semplici, ma che possono cambiare la vita di chi vive in una terra dove il tasso di disoccupazione femminile è al 13, 6% (Fonte Istat). Le donne di San Luca oggi sono 18, hanno tra i 35 e i 40 anni. Sono madri, mogli, sorelle di uomini vittime e carnefici della ‘ndrangheta. Fanno le braccianti e vivono dei prodotti che loro stesse coltivano.
“Hanno creduto molto in questo progetto e nel loro lavoro”, precisa Rosy. “All’inizio abbiamo avuto attenzione e fondi per comprare i macchinari. L’obiettivo-spiega la Canale- era dare un primo impiego per creare occupazione, entrare nel mercato dell’equosolidale, partecipare alle fiere di settore”.
Le cose sembravano funzionare, ma poi la crisi non ha risparmiato nemmeno loro. “Vendiamo poco, facciamo fatica a ripagarci le spese. Non voglio che le mie donne lavorino gratis -puntualizza- un compenso è la base di ogni lavoro onesto”. “La difficile congiuntura economica ha reso le persone impermeabili alla solidarietà. Prima c’era più interesse vero la nostra realtà”.
L’imprenditrice si dice stanca e non nasconde la delusione avuta dalle istituzioni locali: “Ci hanno lasciate sole-denuncia- speravamo di ricevere aiuto, almeno nella fase di start up e invece nulla. Vogliono combattere la criminalità, rilanciare il Sud, ma solo a parole”.
Rosy ammette che le cose sono sempre più difficili e la tentazione di mollare tutto ogni tanto c’è. “Per ora proviamo, tutte insieme, a continuare-spiega-fermarsi sarebbe come urlare al mondo “Viva la ‘ndrangheta””.