Rosario Bentivegna quella sera di un mese fa nella sala delle Protomoteca in Campidoglio. Tendeva l’orecchio agli interventi di Lutz Klinkhammer, di Vittorio Vidotto, di Walter Veltroni. Gli sfuggiva qualche parola, non il senso delle cose che ancora nel 2012 doveva ripetere per difendersi dalle accuse di chi ha sempre cercato di rovesciare la colpa scaricandola sulle vittime. Accusare i parrtigiani per non parlar troppo male degli aguzzini, rovesciare le parti, il vecchio metodo piuttosto schifoso di addossare ai giovani coraggiosi di allora responsabilità che non hanno mai avuto. Bentivegna era contento di aver vinto poco tempo fa, nel 2010, una sua ultima battaglia processuale: era riuscito a far condannare Maurizio Belpietro, per un articolo uscito su “Il Giornale” il 18 agosto 2002 in cui erano state ripetute le solite accuse per via Rasella. Titolo? “Il marxista che pensava solo alla propreia vita”.
Con l’occasione insieme a tanti altri nomi di questa compagnia di giro esperta in falsificazioni – a far da clou come sempre il falso appello dei tedeschi ai partigiani a presentarsi – Rosario Bentivegna aveva ricordato brevemente anche Bruno Vespa, che è oggetto nel suo libro appena uscito “Senza fare di necessità virtù” di una corposa digressione, sempre basata sulla solita falsificazione.
“Nel suo ponderoso volume Storia d’Italia, da Mussolini a Berlusconi – ha scritto Bentivegna – si tornava a parlare di me come di un giovane terrorista ribelle, esasperato dal fanatismo comunista, che aveva preso di testa sua l’iniziativa di “fare esplodere due bombe in via Rasella (….) mentre passava una compagnia del battaglione altoatesino Bozen” causando “la rappresaglia tedesca (che) fu oltremodo feroce…”.
Prosegue Bentivegna: “E come al solito mi si accusava di non essermi “consegnato ai nazisti per risparmiare la vita di centinaia di innocenti”, nonostante “l’avvertimento scritto sui manifesti fatti affiggere dal comando tedesco”. (pagina 21 del libro di Vespa, Milano, 2004).
Un falso variamente ripetuto, ora parlando di manifesti, ora di appelli radio, ora di inviti pubblici, smentito dai fatti: tra l’attentato e l’eccidio alle Fosse Ardeatine passarono solo 22 ore, non ci fu materialmente il tempo per simili iniziative. Ma Vespa scrive lo stesso dei manifesti inesistenti.
Bentivegna aveva raccontato un mese fa in Campidoglio di aver intavolato uno scambio di lettere col Vespa, al termine del quale Vespa ha così cambiato la frase “nonostante l’avvertimento scritto sui manifesti fatti affiggere dal comando tedesco…” con la frase “nonostante la certezza della rappresaglia”. Aveva poi ricordato però che Vespa è tornato comunque all’attacco nel 2006 ricordando che i soldati del battaglione Bozen erano in realtà degli italiani padri di famiglia…
La sera della presentazione del suo libro, alla fine a me che moderavo l’incontro, Bentivegna disse: “Peccato che stasera non ci fosse Carla…”. Carla è Carla Capponi, scomparsa qualche anno, compagna di Bentivegna nei gap e anche per un lungo periodo moglie nella loro vita in comune. Restano di lei le parole molto nette scritte nel bel libro “Con cuore di donna” (basta rileggersi come entrò nei gap), di Rosario ci rimane ora questo bel libro in cui ha ricostruito tante storie a partire da quella della sua famiglia siciliana (un antenato fu ad Aspromonte con Garibaldi), un testo che costituisce un punto di approdo molto solido e autorevole in tempi di derive revisioniste. Di fronte alle quali Bentivegna diceva: “Se pensano di farmi paura…”. Inciso: in quei tempi in cui ci si muoveva in bicicletta quanto tempo era occorso per spingere quel carrettino fino a via Rasella passando per tutto il centro? Sorriso di Bentivegna: “Mi pare un’oretta…”. Un’ora a spasso per Roma, tra nugoli di tedeschi, travestito da netturbino, con un carretto che Giulio Cortini aveva imbottito di dinamite, così si era mosso il ventiduenne Rosario Bentivegna deetto Sasà, allora Paolo.