Informazioni che faticano a trovare spazio

Giovani tunisini dispersi, una madre si è data fuoco a Tunisi

Migranti tunisini dispersi, ancora silenzio
Madre si dà fuoco: “Vogliamo verità”

Una  delegazione di donne rappresentanti delle famiglie di migranti scomparsi è stata ricevuta dal consigliere del primo ministro Hamadi Jebali. Ma le ricerche sui clandestini che potrebbero essere sbarcati sul nostro territorio non vanno avanti. Si teme che molti di loro siano morti in mare

di SABINA AMBROGI

Si chiama Jannet Rhimi, abita a Tunisi, nel quartiere popolare di Ennour. Alle 4 di giovedì pomeriggio si è data fuoco e ha ustioni gravissime sul torace e sulla gola. E’ stata la cognata a salvarla da morte certa.

La mamma di Oussam, 19 anni, ha voluto così drammaticamente protestare contro le autorità tunisine e, indirettamente, contro le autorità italiane che dopo un anno non hanno dato né a lei né alle altre famiglie informazioni di alcun genere sulla sorte dei migranti dispersi.

Oussam voleva raggiungere il fratello in Europa.  E’ partito la notte del 29 marzo  2011 per l’Italia assieme ad altri 35 ragazzi su un’imbarcazione di fortuna da una spiaggia vicino Sfax, a sud della Tunisia. Da allora, né lui né i suoi compagni di viaggio hanno più dato notizie  di sé.

Jannet è ora ricoverata nell’ospedale di Ben Arous, lo stesso in cui tentarono invano di salvare  il venditore ambulante Mohamed Bouazizi  avvolto nelle fiamme che accesero  la rivoluzione dei Gelsomini.

In seguito a questo avvenimento, ieri mattina, una  delegazione  di madri rappresentanti delle famiglie di migranti (molti dei quali protagonisti della rivoluzione) è stata ricevuta dal consigliere del primo ministro Hamadi Jebali. Si dicono deluse da questo incontro (“ancora promesse”), e deluse dalla vaghezza con cui Houcine Jaziri, sottosegretario agli Affari Sociali, sta gestendo le informazioni che in Tunisia sembrerebbero arrivate – solo parzialmente – dal nostro paese, generando però  confusione e maggiore angoscia, fino a  reazioni radicali come quelle di Jannet, che si può anche temere vengano emulate visto il livello di esasperazione dopo un anno di attese.

Il primo ministro tunisino Hamadi Jebali, durante il suo viaggio in Italia, il 15 marzo scorso, ha incontrato la delegazione dei rappresentanti dei familiari dei dispersi che si trova a Roma da qualche mese. Jebali ha dato la massima disponibilità a collaborare con le nostre autorità per dare buon esito alle ricerche. Anche il presidente del Consiglio, Mario Monti si è impegnato a fare il possibile. Così come il ministro Riccardi e la ministra Cancellieri che si sono impegnati in questo senso durante il loro recenti viaggi a Tunisi. C’è perfino una commissione al Senato per i diritti umani che se ne sta occupando. Di sicuro ci sono dei tempi burocratici e delle procedure da rispettare, ma di fatto è da ormai un anno che le famiglie tunisine attendono di sapere qualcosa circa la sorte dei propri figli.

Solo prossimamente saranno resi noti i risultati complessivi dell’esame che sta effettuando il Servizio Immigrazione del ministero degli Interni. Si tratta dei raffronti tra le impronte digitali che in Italia si prendono all’arrivo dei migranti, o nei Cie, o nelle carceri, e quelle mandate dalla Tunisia, rilevate al momento del rilascio della carta di identità. Anche se i dispersi sarebbero molti di più, si parla di 250 impronte digitali disponibili. Solo dopo lunghe attese, le autorità tunisine hanno mandato in Italia le impronte dei connazionali sui supporti adatti per essere “lavorate”. E, dato di non poco conto, nel periodo di cui stiamo parlando, molto spesso in Italia  non sono state prese affatto le impronte digitali dei migranti. Il mese di Marzo  2011, quello dello “tsunami umano” come lo chiamò  Berlusconi,  la parola d’ordine era svuotare Lampedusa. Portati in massa dentro le navi, i migranti, furono allora trasferiti nelle strutture allestite ad hoc, tra cui quella di Manduria, da dove in molti sono fuggiti.

Di certo, le impronte confrontate restano la traccia più sicura (anche se non l’unica)  per sapere se le persone cercate sono arrivate vive sul suolo italiano, giacché la maggior parte dei migranti, se identificati, dà nomi falsi al momento dello sbarco. Per questo sono chiamati  “harraga”, dall’arabo “bruciare”, per indicare che, bruciando le loro identità,  bruciano, metaforicamente,  le barriere tra paesi. Per estensione, ciò significherebbe allora riaffermare la prerogativa di essere umano, a prescindere dalla provenienza. Una questione  profondissima che viene rilanciata di continuo sul tappeto della politica, tunisina e italiana, dalle madri dei dispersi: queste donne di origini umili e di condizioni economiche disperate,  vogliono sapere  quale sia stato il destino dei loro  figli, in quanto esseri umani. E  lo vogliono sapere anche se  vengono considerati  “clandestini” perché avrebbero agito illegalmente secondo le leggi di entrambi i paesi. Vogliono  saperlo anche se alcuni di loro erano dei pregiudicati evasi dalle carceri e vogliono sapere  cosa  hanno fatto i due stati con le loro politiche migratorie.

Va sottolineato che trovare un solo passeggero, di una sola imbarcazione significa  essere informati sul destino di tutti i compagni di viaggio. Pertanto le stime, per quanto riguarda la parte italiana, si  sarebbero potute fare più in fretta: basta  trovare un solo  membro di una sola imbarcazione per sapere della vita o della morte degli altri. Si tratta in particolare delle imbarcazioni  partite l’1, il 14 e  29 marzo 2011 (quella che portava anche il figlio di Jannet Rhimi).

La  delegazione di famiglie tunisine in Italia ha portato con sé una serie di “prove” che hanno tenuto in vita e continuano a tenere in vita le speranze. Si tratta di  telefonate dal mare nella notte;  cellulari che  hanno suonato a vuoto per lungo tempo; immagini catturate dai video dei tg; foto sgranate con volti familiari, chiamate ricevute una sola volta dopo gli sbarchi presunti, e non andate mai a buon fine, notizie di sbarchi che si accavallano con quelle dei naufragi. Sono i frammenti di un’ illusione collettiva o indizi da seguire?  Di certo mostrano tutta la loro fragilità perché non trovano  né conforto né smentita da parte di chi avrebbe i mezzi e i poteri per verificare.

E di nuovo allora  tutto torna alle madri e alle loro richieste, con i sit-in non autorizzati davanti alle sede diplomatiche di entrambi i paesi, sostenute da alcune donne italiane: il collettivo femminista “2511” e l’associazione Pontes, che hanno dato vita  alla campagna “Da una sponda all’altra: vite che contano”.

E chiedono alle autorità italiane e tunisine: “Perché non fate tutto quello che è in vostro potere fare? Quali risorse state stanziando realmente per verificare gli indizi che vi portiamo?”  E’ una posizione radicale che le madri dei migranti tunisini  pongono  di continuo anche di fronte alla sola vera prova che oggi fa pensare il peggio, e che è poi quella più ovvia e evidente: da un anno a questa parte nessuno dei dispersi ha mai veramente

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