Ricevo da Riccardo Orioles questa lettera sul “caso” Catania. A seguire il documento di cui parla Orioles.
“Questo documento – il promemoria del Giudice Giambattista Scidà, Presidente Emerito del Tribunale dei Minori e protagonista prestigiosissimo, da oltre un quarto di secolo, dell’antimafia a Catania – è uno strumento indispensabile per la comprensione di almeno una delle possibili interpretazioni del “caso Catania”, di cui la stampa ufficiale non ritiene di dovere dar conto al lettore. Di che si tratta?
La città di Catania, tormentata da un sistema politico-mafioso fra i più potenti d’Italia, non ha mai potuto contare, in tutti questi anni, su un impegno giudiziario anche lontanamente paragonabile a quello del pool palermitano. Non è storia di oggi ma degli anni Ottanta (mancate indagini sull’omicidio Fava), Novanta (enucleazione delle responsabilità imprenditoriali), Duemila (privatizzazione della città da parte dei monopoli). L’inquietudine della società civile si accresce ora, e trova forse un’ “ultima goccia” decisiva, nella pubblicazione di un documento che ritrae insieme un boss mafioso e il principale candidato a una carica importantissima nel Palazzo: compresenza, per quanto auspicabilmente priva di significati penali, che non aumenta certo la fiducia dei cittadini nel Palazzo.
Il nostro mestiere di giornalisti ci impone di accertare e diffondere una notizia che non può essere negata all’opinione pubblica. Non certo per avversioni o simpatie personali o per volere schierarsi nelle faide che, disgraziatamente, consumano in questi tempi non solo la classe politica, ma parte della giustizia siciliana. Ma perché non è in nostro potere di privare i lettori del loro diritto alla verità.
Il nostro non è prevalentemente, come si dice oggigiorno, “giornalismo investigativo” (non lo fu quello di Giuseppe Fava), né corre dietro agli scoop; per noi l’investigazione è solo una parte di un processo complesso di ricostruzione e racconto della realtà che al centro ha la cultura e la società.
La nostra verità, insomma, non si estrinseca mai in un “viva questo e abbasso quello”, non grida, non cerca facili notorietà; ma cerca di rappresentare al lettore un quadro il più possibile fedele e veritiero di un mondo che, come i veri giornalisti sanno, è articolato e difficile e non si lascia rinchiudere in facili ovvietà.
* * *
Questo modo di pensare, in questo momento , non è molto popolare. Le idee del giudice Scidà non sono state contestate, sulla stampa ufficiale, ma aggredite. Ultimamente l’attacco ha raggiunto (sempre attentamente guardandosi dall’affrontare in qualsiasi modo la descrizione dei fatti) forme odiose e personali e se n’è resa responsabile, nell’edizione locale, “Repubblica”.
Il che apparrebbe incongruo, pensando all’impegno civile di cui questa testata ha sempre dato prova a Palermo e sul piano nazionale. Ma non lo è, purtroppo, se si considera il ruolo che questo giornale (o meglio, il suo editore) ha sempre avuto a Catania. Aperta alleanza con Ciancio, silenzio sugli affari, autocensura dei contenuti (fino a poco tempo fa si evitava di distribuire la cronaca) in ossequio all’alleato. E questo non per scelte “ideologiche” o culturali, ma banalmente per la comunanza d’affari col piccolo Berlusconi catanese.
Hanno questi interessi un ruolo nell’attacco personale e violento a Scidà, nella difesa dunque del Sistema catanese qui ed ora? Non lo sappiamo. Ma, non essendo affatto arbitrario né privo di connessioni con schieramente vecchi e nuovi, è un dubbio che dobbiamo consegnare – con tutto il resto – al lettore.
Al quale, per l’ennesima volta, forniamo dunque non la Verità rivelata o lo scoop maiuscolo ma, più semplicemente, un utile strumento di lavoro. Questo è sempre stato il nostro principio e il nostro stile e questo, sommessamente, intendiamo mantenere.
Riccardo Orioles
Il documento Scidà
Giambattista Scidà
Il caso Catania
www.ucuntu.org
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Nota editoriale
Questo documento – il promemoria del Giudice Giambattista Scidà, Presidente
Emerito del Tribunale dei Minori e protagonista prestigiosissimo, da oltre
un quarto di secolo, dell’antimafia a Catania – è uno strumento indispensabile
per la comprensione di almeno una delle possibili interpretazioni del
“caso Catania”, di cui la stampa ufficiale non ritiene di dovere dar conto al
lettore. Di che si tratta?
La città di Catania, tormentata da un sistema politico-mafioso fra i più potenti
d’Italia, non ha mai potuto contare, in tutti questi anni, su un impegno giudiziario
anche lontanamente paragonabile a quello del pool palermitano. Non è
storia di oggi ma degli anni Ottanta (mancate indagini sull’omicidio Fava),
Novanta (enucleazione delle responsabilità imprenditoriali), Duemila
(privatizzazione della città da parte dei monopoli). L’inquietudine della
società civile si accresce ora, e trova forse un’ “ultima goccia” decisiva, nella
pubblicazione di un documento che ritrae insieme un boss mafioso e il
principale candidato a una carica importantissima nel Palazzo: compresenza,
per quanto auspicabilmente priva di significati penali, che non aumenta certo
la fiducia dei cittadini nel Palazzo.
Il nostro mestiere di giornalisti ci impone di accertare e diffondere una notizia
che non può essere negata all’opinione pubblica. Non certo per avversioni
o simpatie personali o per volere schierarsi nelle faide che, disgraziatamente,
consumano in questi tempi non solo la classe politica, ma parte della giustizia
siciliana. Ma perché non è in nostro potere di privare i lettori del loro diritto
alla verità.
Il nostro non è prevalentemente, come si dice oggigiorno, “giornalismo investigativo”
(non lo fu quello di Giuseppe Fava), né corre dietro agli scoop; per
noi l’investigazione è solo una parte di un processo complesso di ricostruzione
e racconto della realtà che al centro ha la cultura e la società.
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La nostra verità, insomma, non si estrinseca mai in un “viva questo e abbasso
quello”, non grida, non cerca facili notorietà; ma cerca di rappresentare al lettore
un quadro il più possibile fedele e veritiero di un mondo che, come i veri
giornalisti sanno, è articolato e difficile e non si lascia rinchiudere in facili
ovvietà.
* * *
Questo modo di pensare, in questo momento , non è molto popolare. Le idee
del giudice Scidà non sono state contestate, sulla stampa ufficiale, ma aggredite.
Ultimamente l’attacco ha raggiunto (sempre attentamente guardandosi
dall’affrontare in qualsiasi modo la descrizione dei fatti) forme odiose e personali
e se n’è resa responsabile, nell’edizione locale, “Repubblica”.
Il che apparrebbe incongruo, pensando all’impegno civile di cui questa testata
ha sempre dato prova a Palermo e sul piano nazionale. Ma non lo è,
purtroppo, se si considera il ruolo che questo giornale (o meglio, il suo editore)
ha sempre avuto a Catania. Aperta alleanza con Ciancio, silenzio sugli affari,
autocensura dei contenuti (fino a poco tempo fa si evitava di distribuire
la cronaca) in ossequio all’alleato. E questo non per scelte “ideologiche” o
culturali, ma banalmente per la comunanza d’affari col piccolo Berlusconi
catanese.
Hanno questi interessi un ruolo nell’attacco personale e violento a Scidà, nella
difesa dunque del Sistema catanese qui ed ora? Non lo sappiamo. Ma, non essendo
affatto arbitrario né privo di connessioni con schieramente vecchi e
nuovi, è un dubbio che dobbiamo consegnare – con tutto il resto – al lettore.
Al quale, per l’ennesima volta, forniamo dunque non la Verità rivelata o lo
scoop maiuscolo ma, più semplicemente, un utile strumento di lavoro. Questo
è sempre stato il nostro principio e il nostro stile e questo, sommessamente,
intendiamo mantenere.
Riccardo Orioles
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www.ucuntu.org
supplemento telematico a “i Cordai”
Direttore responsabile Riccardo Orioles
Reg. Trib. Catania 6/10/2006 nº26
febbraio 2011
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I L C A S O C A T A N I A
Da via Crispi a viale Africa – Nel “teatro” di San Giovanni la Punta –
Il sangue di Rizzo – Volontà di non sapere e verità non cercata – Il Tabù
Premessa
Si tratta di cose e di uomini di un trentennio compatto, dall’ ’82
ad oggi: concatenati i fatti, e sempre gli stessi, da allora, taluni
dei magistrati protagonisti.
La situazione all’inizio
Si diffidava diffusamente, al principio degli anni ottanta, della
Procura della Repubblica: in paradossale diminuzione, per questo,
le denunce di reati contro la Pubblica Amministrazione,
mentre la frequenza dei fatti andava crescendo. La mafia?
Pretendevano di far credere che Catania ne fosse immune, pur
mentre la lotta tra i clan insanguinava la città.
Fu dal lato della Giustizia Minorile che venne nell’ ’81 l’allarme.
La criminalità, tutta, era in rapido aumento; quello era un annosvolta;
l’avvenire poteva essere tremendo; era necessario far pre-
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sto: i mesi contavano come anni. Per il riscatto della città, nelle
sue parti malate – matrici terribilmente feconde di disadattamento
minorile – ci voleva impegno concorde dello Stato e degli
Enti Locali: danaro, competenza nel progettare, probità nella gestione.
Quella relazione del Presidente del Tribunale per i Minorenni
cadde nel vuoto. Il Prefetto ne sorrise.
Se qualche speranza si poteva nutrire, erano i Pretori ad ispirarla:
uomini nuovi (Gennaro, D’Angelo e altri) dai quali non pochi
cittadini si aspettavano progressivo rinnovamento della Giustizia.
Ma i fatti delusero, amaramente.
I fatti
CAPITOLO I : da “via Crispi” a “viale Africa”
1. L’appalto di una nuova sede, proprio per la Pretura, in via
Crispi, fu denunciato con clamore come variamente illegale: dal
prof. D’Urso, Direttore del Dipartimento Urbanistica dell’Università,
da un gruppo di architetti e da molti giornalisti; in Consiglio
Comunale ne fu fatta critica serrata : ma nessuno si mosse,
né la Procura , né i Pretori. Esortato da un giornale ad agire,
Gennaro tacque. L’appaltatore trionfò.
Nella storia della città quell’inerzia fu come una spezzata, come
una curva a gomito. Le forze dominanti potevano ora guardare
senza preoccupazione alla “magistratura progressista” (l’espressione
è nelle cartelline dell’imprenditore Rendo, cadute in
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sequestro a Roma). Costituì, quell’inerzia, una tappa di cruciale
importanza nella costruzione della pax cathinensis, la pace di
una comunità senza “eretici”.
Se si fossero impegnati nel contrastare, avrebbero sfidato, nello
stesso tempo, le forze politiche ed economiche egemoni e la mafia
(inquietante era infatti per la sua composizione la giunta municipale
del tempo, proprio dal lato più attivo in quell’affare).
All’opposto, l’astenzione da ogni atto di guerra spianava al gruppo
e al suo abile proselitismo, la strada del più ampio successo,
nella triplice direzione, della conquista di un seggio in CSM,
come oggetto di permanente appannaggio, dell’accesso a postichiave
della Procura della Repubblica e della scalata dell’ANM.
Vero è che la caduta di prestigio fu netta; vero è anche che isolati
autori di anonimi sfruttarono l’aura di grande tentatrice che avvolgeva
l’impresa, per mettere avanti spiegazioni diffamatorie
dell’inattività, ma la risonanza di quegli scritti, archiviati all’unanimità
dal CSM, fu tra minima e nulla, e presto le vociferazioni
maligne parvero tacersi per sempre.
2. Il Prefetto di Palermo, Dalla Chiesa, autore della fatidica intervista
sulla mafia a Catania e sulle collusioni con essa degli
imprenditori catanesi (La Repubblica del 10/08/’82), venne ucciso
il 3 settembre, 24 giorni dopo.
Durante la solenne inaugurazione del nuovo edificio, in ottobre,
il costruttore potè esaltare, tra gli applausi, i meriti dell’imprenditoria
catanese. Dall’interno di quel nuovo tempio della Giustizia
il disinvolto artefice di callidi affari replicava al caduto servi-
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tore della legalità.
A Dalla Chiesa successe, con poteri di Alto Commissario Antimafia,
un ex Questore di Catania, che con i grandi imprenditori
locali aveva sempre avuto rapporti scorrevoli, improntati a fiducia
reciproca.
3. Il quotidiano diretto da Giuseppe Fava fu chiuso quell’anno
stesso; Fava venne ucciso il 5 gennaio dell’ ’84. Aveva raccolto il
testimonio caduto di mano al Prefetto di Palermo Dalla Chiesa,
fondando un mensile di battaglia, sul tema Catania, e radunandovi
giovani di valore (col figlio di lui, erano Orioles, i Roccuzzo,
Gulisano, Gambino; altri come Faillaci, ancora ragazzo, accorreranno
dopo).
La mafia assassina fu buona interprete dei grandi interessi in
gioco : quel sangue era necessario al sistema.
Il quotidiano La Repubblica accettò di chiudere il proprio ufficio
di corrispondenza e di non metter piede nella provincia etnea
con la sua cronaca regionale.
4. Nel clima creato dalla vicenda della nuova Pretura, l’inchiesta
del CSM su Catania, provocata dal prof. D’Urso e dal Comandante
della GdF, venne facilmente esorcizzata. Poteva mettere in
luce inveterate prassi devianti della Procura Repubblica, ma fu
ridotta a tenzone attorno alle responsabilità di due persone. La
realtà di Catania, ben più vasta e più profonda nel tempo, non ne
sarebbe emersa per nulla.
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5. Quando Uffici Giudiziari di Torino, competenti per connessione,
procedettero penalmente contro magistrati di Catania (dicembre
’84), la protesta unì l’establishment tradizionale e i “progressisti”
: tutti pretesero, rumorosamente, che quell’affare fosse
consegnato alla Procura della Repubblica di Messina, ex art. 11
CPP.
Il dissenso fu di pochi. Connessione a parte, Messina era a sua
volta soggetta, per lo stesso art. 11, alla competenza di Catania;
l’autonomia di ciascuna delle due sedi, rispetto all’altra, non poteva
non soffrirne. E a Messina occupava posizione eminente un
magistrato catanese, già stato a capo di un importante Ufficio
della sua città.
Il processo rimase a Torino, e la paziente decifrazione di un diario
in sequestro rivelò che l’autore aveva raccomandato un capomafia
a colleghi di altre sedi, recandosi a visitarli nei rispettivi
uffici. Era uno squarcio nel sottosuolo della “città senza mafia”.
6. Scomparso Fava, Catania venne disarmata : meno uomini,
meno volanti, meno uomini sulle volanti. La città si trovò ceduta
alla malavita, che poteva scorrerla da un capo all’altro, con i traffici
e lo spaccio di droga, con le rapine e le estorsioni, con i furti
in casa e gli scippi. Impossibile un adeguato controllo del territorio,
impossibili investigazioni adeguate; al sicuro i grandi latitanti,
Santapaola in testa.
La protesta, pubblica, viene dalla giustizia per i minori : un arti-
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colo del Presidente del Tribunale, in settembre dello stesso ’84,
su I Siciliani che i ragazzi di Fava tengono in vita; rimostranze
al Guardasigilli, a Catania, in presenza e nel silenzio dei capi di
altri Uffici; un appello, in gennaio dell’ ’85, al Ministro degli
Interni, Scalfaro, per il diritto della città alla restituzione dei presidî
necessari : Catania non può aspettare assunzioni di agenti e
carabinieri, ha bisogno di equità nuova e sollecita nel riparto
delle risorse disponibili, o anche la lotta alla droga sarà irrisoria.
Non c’è occasione di interventi, in convegni e in altre riunioni,
che il magistrato trascuri.
7. Il quotidiano di Catania, ormai padrone del terreno, può permettersi
di sottacere avvenimenti importanti, come l’affollatissimo
convegno di Albatros, svoltosi nell’aula del Consiglio Comunale
il primo dicembre dell’ ’86. E’ l’associazione di cento catanesi,
sorta per una lotta nuova e vera alle tossicodipendenze, che
parta dalla lotta all’offerta di droga : lo Stato torni a presidiare
Catania; il Comune imposti un’articolata politica giovanile; il
Servizio Sanitario Nazionale faccia la sua parte con competenza
e decisione. È deplorevole, dice il presidente del sodalizio – e il
pubblico fervidamente attento gremisce anche l’atrio, sino alle
scale – che un Ospedale spenda 245 milioni l’anno – con l’aggiunta
di altri 40, annui del pari, di compenso per l’uso dei mobili
e di altre utilità – nella locazione passiva di una villa, nuova
sede dei suoi uffici amministrativi, mentre confina in un piccolo
garage (pareti rustiche; unica apertura la saracinesca d’ingresso)
il Centro Accoglienza Tossicodipendenti.
I lettori del giornale catanese non sapranno nulla di questa intensa
giornata cittadina.
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Voliamo per un momento da quel tempo all’anno ora in corso,
2010, e a queste ultime settimane. E’ passato da allora un quarto
di secolo, e un altro convegno, di rilevanza ancora maggiore, è
incorso nella censura de La Sicilia. Si è svolto a Palazzo Biscari,
il 28 ottobre, con grande concorso di pubblico, proprio sul tema
del ruolo avuto dall’informazione nel cosiddetto “caso Catania”,
(il quale è sempre attualissimo, più drammaticamente attuale che
mai). Nel sottacere l’evento La Repubblica non è da meno de La
Sicilia.
8. Gennaro e D’Angelo, fattisi trasferire dalla Pretura alla Procura
della Repubblica, vi hanno a collega, sino all’ ’87, il Sostituto
Anna Finocchiaro. Prima di uscire dall’Ufficio, perchè eletta
alla Camera dei Deputati, costei tratta, sino alla richiesta di archiviazione
compresa, denunce di quel contratto di locazione.
9. L’onda della criminalità è montata, come nel presagio angosciato
del 1981. Il Presidente del TM e il nuovo Procuratore
presso il Tribunale, Cortegiani, ne scrivono nell’ ’87 su Segno,
rilevando l’effetto di trascinamento che il delitto dilagante e impunito
produce in mezzo a schiere di ragazzi non preparati a resistere.
Nell’ ’88 una relazione del Presidente fa valere i numeri, spietati.
La frequenza degli arresti di minori è sconvolgente : 204 in dodici
mesi quelli di residenti italiani nel capoluogo (la cifra equivale
al 3.46% del totale nazionale, mentre la popolazione non
supera lo 0.64%). Gli indiziati di rapina, 58 su 204, costituisco-
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no il 7.67% dei minorenni italiani incorsi in arresto per tale reato,
in tutto il Paese. E’ una cifra, questa di 58 arresti per indizio
di rapina, alla quale non arrivano, messi insieme, tredici interi
Distretti di Corte D’Appello, con i loro 17 milioni di abitanti.
Il documento si sofferma sulla corruzione senza freno, e sul posto
che ha la mafia nel sistema locale di potere, ma soprattutto
sulla condizione minorile. Il CSM ne resta talmente colpito (lo
presiede il prof. Cesare Mirabelli; ne fanno parte, con Fernanda
Contri, Maddalena e Caselli, Morozzo della Rocca e Racheli,
Ambrosio e Abate) da volere che tutti i capi degli Uffici Giudiziari
Minorili lavorino sul tema per una intera giornata, nella sua
stessa sede.
Ma Catania non se ne allarma.
10. Scoppia l’enorme scandalo di viale Africa, per il mega-appalto,
a tangenti di miliardi e miliardi di lire, del Centro Fieristico
“Le Ciminiere” : enorme anche per il numero e il ruolo delle
persone coinvolte. E’ un’immensa soperchieria, anche in danno
del Comune di Catania. Il Consiglio rinnovato nell’ ’87 (ne fanno
parte uomini come Giusso del Galdo e altri, anche giovanissimi)
non consente la variante al PRG necessaria perchè l’opera, voluta
dalla Provincia, possa essere realizzata, ma uno stratagemma,
nel quale concorrono Uffici Municipali – trattenendo sin quasi
all’ultimo giorno utile per il “no” un interpello della Regione –
ne vanifica la resistenza.
L’imprenditore, a dispetto di tante evidenze, che fanno una massa,
non viene perseguito per nulla. Secondo la Procura (che il
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Tribunale e la Corte d’Appello non mancheranno di smentire),
egli è vittima di concussione. Come tale può riprendersi, se vuole,
le ingenti somme distribuite ad amministratori elettivi e a burocrati
e a politici; può riprendersele in barba all’Erario, spogliato
del suo diritto a confisca.
Molti vedono nel sorprendente trattamento dei fatti una grandiosa
sequela dell’affare Pretura. L’appaltatore – invulnerato allora,
invulnerabile ora – è lo stesso, e il magistrato che imposta il processo,
da solo o con altri più giovani, è uno dei Pretori di quel
tempo : è il dott. D’Angelo.
Alla fine, nessuno sarà stato punito : né l’imprenditore (morto
durante il giudizio di primo grado), né gli altri : perchè a morte
sono venuti anche i reati, per prescrizione.
* * *
E Gennaro? E’ tempo di riassumerne l’opera tra Catania e San
Giovanni la Punta.
CAPITOLO II : Nel “teatro” di San Giovanni la Punta
1. Un processo a carico di molti mafiosi coinvolge Sebastiano
Laudani, patriarca dell’omonimo clan (temibile clan, in lotta
cruenta con altri per il predominio), ed il figlio Gaetano. La Procura
li incrimina per un tentativo di omicidio, ma non per mafia.
Per conseguenza non intervengono provvedimenti del genere
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consueto nei procedimenti ex art. 416 bis CP (ricerche e sequestri
di cose e documenti; perquisizioni). Avuto sentore della cattura
che comunque li minaccia, i due si danno alla latitanza; passerà
un anno prima che vengano presi. Nel definire il processo,
anni dopo, la Corte d’Assise (Presid. Curasì) rileverà sobriamente
(sent. n.10 del ’92) lo spessore criminale del Sebastiano, quale
risulta dai più importanti rapporti : in contrasto (è lasciato al lettore
di rilevare) con i limiti della imputazione.
Il magistrato del PM che ha gestito fino al termine l’istruttoria
sommaria entra da privato, aspirante all’acquisto di un alloggio,
in quel comune di S. Giovanni la Punta, che è regno dei Laudani
e del loro storico manager e prestanome nel campo dell’edilizia,
Rizzo Carmelo. Una società di due soci (un ingegnere e un geometra)
nella quale è entrato il Rizzo, attraverso la moglie, intraprende
la costruzione di ville bifamiliari su terreno ceduto in
permuta da un Arcidiacono. Il magistrato stipula preliminare di
compravendita di parte predominante di una di tali ville: di quella
che la società, intestata ad inesistenti “Di Stefano”, prenderà a
costruire subito, per prima. Egli è seguito a ruota da un professionista
di Catania (il dott. X, in questo scritto) che si assicura la
metà giusta di un’altra villa, da costruirsi su lotto contiguo.
Il magistrato è il dott. Gennaro, già Pretore; il dott. X è cognato
del magistrato Anna Finocchiaro, deputato dall’ ’87: è fratello di
suo marito.
2. Rizzo non cesserà di menar vanto di quelle vendite, a compratori
tanto qualificati il cui nome innalza e qualifica lui. In un
lussuoso dèpliant del ’96, che deve esaltarne le realizzazioni di
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imprenditore, le ville di Gennaro e del dott. X illustrano la
copertina.
Dopo la morte di Rizzo (1997), un uomo di lui dirà davanti al
Tribunale che lo giudica (è quello di Catania, sezione II, 2002),
che dal suo principale (“da noi…” gli piacerà dire) venivano a
comprar case magistrati e politici; e di uno degli acquirenti saprà
rendere facilissima, pur senza nominarlo, l’identificazione nel
Gennaro.
3. Installatosi nella nuova abitazione, con la famiglia, a metà
del ’90, Gennaro stipula atto definitivo (not. Gagliardi) in gennaio
del ’91. Nel rogito, si presta a far figura di costruttore e venditore,
in luogo della Di Stefano, l’insospettabile Arcidiacono, che
nulla ha costruito e niente incassa del prezzo : è solo l’intestatario,
ancora per otto giorni soltanto, del suolo ceduto da tempo
alla Società.
Il dott. X, che non ha alternative al contrarre con la famigerata
Di Stefano, trova prudente astenersene. Stipulerà solo due anni
dopo, nel ’93 (atto notarile del 24 maggio), all’esito, favorevole
al Rizzo (decreto del 7 stesso mese) di un procedimento per misure
di prevenzione, personali e patrimoniali, proposte dal Questore.
I giudici non ritengono ci sia prova di connessioni dell’imprenditore
con i Laudani; X può comprare tranquillamente dalla
Di Stefano, senza timore che l’immagine della Finocchiaro ne
sia danneggiato : se è “pulito” Rizzo, pulita è la società.
Ma il cielo si oscura ben presto. C’è appello; è apparso sulla
15
G.U. il DPR 11/3/’93, di scioglimento del Consiglio Comunale
di San Giovanni, proprio per l’influenza che su di esso esercita
Rizzo. E la Questura spedisce irrefutabili prove delle connessioni
negate, che sono antiche e strette. Solo rudi interventi sulla
composizione del fascicolo di causa (rimandiamo per questo a
MicroMega, marzo 2006, art. di Giustolisi e Travaglio) possono
scongiurare riforma del provvedimento di primo grado.
La conferma salva Rizzo, e salva da Rizzo tutti coloro che egli
coinvolgerebbe nella propria rovina se dovesse perdere la disponibilità
del patrimonio e subire esilio da San Giovanni.
Tutto bene, dunque, per tutti? Si, ma soltanto per un certo tempo.
Il peggio deve ancora venire, e verrà per entrambi, per il
dott. X e per il dott. Gennaro. Durerà, quel peggio, dall’inizio del
nuovo secolo sino al 2009.
Il pericolo cui resteranno esposti, per tanto tempo, ambedue gli
interessati; il bisogno di proteggersene, in qualunque modo; e la
posizione di uno dei due nella Procura della Repubblica di Catania
(ossia nell’organo che per promuovere giustizia dovrebbe attaccarne
gli interessi morali e materiali) produrranno sconvolgimeti
profondi dell’attività istituzionale.
4. La villa di Gennaro è difforme dalla concessione edilizia, e
non per dettagli come l’ampiezza delle finestre, non dovrebbe
esser detta abitabile, né potrebbero esserne effettuati allacci alle
reti municipali e dell’Enel. Il magistrato ottiene tutto, e anche attacco
senza ritardo alla rete telefonica, per intervento di Rizzo.
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Al seguito di quell’alloggio, tutti gli altri, della stessa lottizzazione,
vengono costruiti in difformità.
Non è forse deplorevole che un magistrato – del PM per giunta –
richieda o accetti illegalità nella costruzione dell’alloggio che
deve essere suo, nella circoscrizione stessa del suo Ufficio?
Sanatoria sarà poi concessa a Gennaro, a firma di funzionari del
Comune, nel 2000, nel corso di indagini della Procura della Repubblica
di Catania, condotte da Sostituti e coordinate da lui,
nuovo Procuratore Aggiunto, sul Capo dell’Amministrazione.
5. L’alloggio di Gennaro, in villa bifamiliare, non è simmetrico
all’altro, non è la metà del tutto, è più che la metà. Alloggi simmetrici,
in altre ville, sono stati pagati 240 o 250 milioni di lire
ciascuno. Quanto ha pagato Gennaro per il suo, che simmetrico
non è? Secondo il Calì, già citato, i magistrati e politici ottenevano
sconti di centinaia di milioni. Chiamato dal PM di Messina,
a seguito di quelle dichiarazioni, Calì non le ha smentite; si è
solo avvalso della facoltà di non rispondere, ma aggiungendo
parole univocamente significative : se ne asteneva perchè “piccolo
così ….”.
Poiché nell’atto notarile di compravendita si legge che Gennaro
aveva pagato il prezzo di lire 165 milioni, bisognerebbe concludere
che aveva speso, per un alloggio più grande dell’alloggio
contiguo, molto di meno di quanto dovuto sborsare da ogni altro
acquirente per avere meno : per un immobile appena eguale
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all’immobile confinante.
Il dott. Gennaro dirà in seguito che nell’atto notarile fu indicata,
per motivi fiscali, somma molto inferiore a quella pagata (una
frode richiesta dal simulato venditore e consentita, deplorevolmente,
dal compratore, che pur ne usciva danneggiato?) ; e dirà
che il prezzo effettivamente corrisposto era ammontato a 240
milioni. Lo stesso prezzo, ci sarebbe da chiedere, che per un alloggio
simmetrico?, senza compenso, dunque, per il parecchio
avuto in più?
Peraltro, lo stesso computo che approda alla somma di 240 milioni
ha bisogno, per raggiungerla, di includere spese successive
all’acquisto.
CAPITOLO III : Intermezzo romano
1. Nel ’93 il dott. Gennaro volle passare alla Procura Generale;
nel ’94 fu eletto al CSM.
2. Nel ’96, vacante il posto di Procuratore della Repubblica, pervenne
al Consiglio (alla sua Commissione Uffici Direttivi, di cui
faceva parte Gennaro) un ampiamente motivato appello : si facesse
cader la nomina sopra un estraneo all’ambiente – a costo,
se necessario, di riaprire i termini per la presentazione di istanze.
L’autore denunciava lo scandalo di viale Africa, evocando l’antecedente
di via Crispi. Per tutta risposta, la Commissione propose
il più “intraneo” degli aspiranti, Procuratore Aggiunto da ben 11
anni. La proposta fu seguita da voto unanime del plenum. L’elet-
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to è stato in carica per un decennio, sino al novembre 2006.
Nessun partito aveva interesse a mutamenti di stile nella gestione
dell’Ufficio; il partito dell’on. Finocchiaro, dal quale era stato
denunciato l’appalto di viale Africa, era adesso positivamente interessato
a che mutamenti non intervenissero, data la pendenza,
a carico di suoi uomini, di indagini per estorsione, in danno di
un grande imprenditore, costretto, secondo asserito da lui, a cedere
per prezzo inadeguato la proprietà del palazzetto di via Carbone,
sede della Federazione provinciale PC. Infine, nessuno dei
Sostituti si era sentito di rifiutare sottoscrizione all’auspicio che
il posto di Procuratore venisse dato alla giunta
3. Nello stesso ’96 il CSM si trovò investito di altra questione
riguardante Catania. Il 9 febbraio di 4 anni prima, due magistrati
in servizio a Catania, dove uno di essi dirigeva un importante
Ufficio a competenza distrettuale, avevano reso testimonianze di
opposto tenore davanti alla VII Sezione del Tribunale di Roma,
persistendo nelle rispettive contrastanti dichiarazioni nel corso
di un lungo confronto, che in sentenza fu detto drammatico. Uno
dei due aveva mentito; uno dei due portava il fatto a conoscenza
del CSM, chiedendo accertamenti.
L’esposto venne archiviato, con motivazione dalla grossolanamente
evidente fallacia, senza che l’autore fosse stato sentito; e
negata gli fu riapertura della pratica, sempre senza sentirlo, pur
dopo che egli, avuto accesso al provvedimento di archiviazione,
ne ebbe messo in luce l’erroneità.
19
4. Nel ’98 – ancora in CSM il dott. Gennaro, anche se non più
componente della Commissione Direttivi – fu messo a concorso
il posto di Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di
Messina. Era un affare di estrema importanza per Catania, sotto
tre profili :
A. Il Distretto di Messina era territorialmente competente, a’
sensi dell’art. 11 cpp, per tutti i procedimenti riguardanti magistrati
in servizio nel Distretto di Catania.
B. Poteva considerarsi imminente una legge di riforma, abolitiva
della perniciosa reciprocità, per cui Messina, competente per
Catania, si trovava a sua volta soggetta alla competenza degli uffici
di questo Distretto (il Procuratore che indagasse su magistrati
della Procura di Catania, poteva essere indagato dal Procuratore
di ques’ultima sede). Il bilancio appariva tutto favorevole a
Catania. Denunce contro magistrati catanesi, proposte da privati,
erano state archiviate; denunce proposte da magistrati erano state
seguite da incriminazioni, risultate poi senza giustificazione.
La riforma avrebbe dato agli Uffici messinesi l’autonomia di cui
non avevano mai potuto godere, e spogliato Catania della possibilità
di comprimerla.
C. Pendeva, a Catania, procedimento per un omicidio di mafia
(24/02/1997) per il quale non era stata fatta alcuna indagine, o
per il quale era stata chiesta archiviazione degli atti, senza che
indagini fossero state compiute. L’affare, di per sè grave in ra-
20
gione di quelle carenze, andava giudicato gravissimo data l’identità
della vittima ed il suo ruolo nella situazione mafiosa di San
Giovanni la Punta.
5. Per quel posto di Procuratore Gennaro aveva sostenuto, senza
fortuna, un candidato della sua stessa corrente, a suo tempo
eletto al CSM (1990) con i voti di Catania, e che ora, nel ’98, doveva
con i suoi voti far succedere a lui, Gennaro, il catanese
D’Angelo (già Pretore come Gennaro al tempo della nuova
Pretura, e poi dominus, quale Sostituto Proc. Rep. del processo
per viale Africa).
Fallito quel disegno, anche per effetto di un esposto tempestivamente
giunto da Catania, Gennaro passò a patrocinare la nomina
di un catanese, veterano della locale Procura. Una tale nomina
avrebbe abolito di fatto l’alterità voluta dal legislatore dell’Ufficio
indagante rispetto all’Ufficio di appartenenza dei magistrati
indagati.
Il dott. Gennaro esplicò attività proporzionata nel suo fervore
alla importanza della posta in gioco, adoprandosi presso la Commissione,
di cui non faceva più parte, perchè questa proponesse
il dott. Vincenzo D’Agata.
Anche questo tentativo, possente, fallì per l’incontro tra le serene
osservazioni critiche, assolutamente esenti da inflessioni personalistiche,
pervenute dalla medesima fonte catanese delle precedenti,
e l’alta coscienza del magistrato presidente della Commissione.
21
Sopraggiunse di lì a poco la legge di riforma dell’art. 11, ma non
per questo cessò la mutua dipendenza, tra le due sedi, che già
tanti mali aveva prodotto. Procedimenti per mafia, a carico di
magistrati della Procura di Messina, erano pendenti a Catania
quando a Messina ebbero luogo (2001-2004) indagini, anche
queste ex art.416 bis cp, a carico di magistrati della Procura di
Catania. Pendono ancora a Catania affari del genere.
CAPITOLO IV : Il sangue di Rizzo
1. Di lotta alla mafia, anche di San Giovanni, si occupavano in
gruppo tre Sostituti Procuratori, quando un rapporto a carico di
mafiosi coinvolse anche Rizzo.
Venuto a conoscenza dell’imminente cattura, questi la eluse e avvertì
molti altri imputati (è falso che sia stato arrestato e poi
scarcerato dal Tribunale in sede di riesame). Il Tribunale annullò
le misure, per lui, latitante, e per parecchi altri, o latitanti o carcerati,
ma la Cassazione rimosse (12/02/1997) i provvedimenti
del Tribunale; Rizzo, rabbiosamente frustrato, lasciò trasparire
che non appena in carcere avrebbe cantato. Lo uccisero prima, il
24 di quel febbraio.
A Catania, nessun crimine ha mai pesato, come ha fatto questo,
sulla Giustizia, sovvertendone il corso per moltissimi anni.
2. Decenni di stretto sodalizio con i Laudani, in un ruolo speciale,
implicante contatti e rapporti con pubblici ufficiali e operatori
economici, avevano fatto di Rizzo un pericoloso conoscitore di
22
segreti del clan. Il suo pentimento ne avrebbe svelato struttura e
connessioni, messo gli inquirenti sulle tracce dei suoi capitali,
smascherato referenti non sospetti, gettato nel fango funzionari
che favori avessero fatto alla cosca, o favori ne avessero
ricevuto. Coi Laudani, ce l’aveva : ne era stato abbandonato,
“dopo tutto quello che egli aveva fatto per loro”; e anche
imprecava contro un certo bastardo di giudice di Roma, esoso
fornitore, per non meno che centinaia di milioni di lire, di
soffiate circa imminenze di arresti. Solo i capi del clan sapevano
che cosa egli sapesse e potevano fare previsioni circa ciò che
avrebbe detto.
L’eliminazione di lui, necessaria al clan, giovava a molti, affrancandoli
per sempre dalla sua offensiva, ma nello stesso tempo
assoggettava ad un servaggio nuovo e spietato quanti di costoro
fossero uomini delle Istituzioni, chiamati come tali a perseguirne
l’autore.
Perseguito e convinto, il mandante poteva reagire asserendo
d’aver commesso anche per loro il delitto che si voleva punire in
lui solo; e già con questo egli li avrebbe sradicati dalla vita civile.
E se egli trovava intollerabile il pagare, soltanto lui, per un
delitto che era giovato anche a loro, chi poteva proteggerli da altre
sue reazioni, anche fisicamente distruttive? La tremenda potenza
della quale egli era armato poteva suggerire prudenza oltre
che in quella specifica area di inchiesta, nella ricerca dei suoi capitali
e nel perseguire i suoi referenti più qualificati.
CAPITOLO V : Volontà di non sapere e rivincita della verità
23
1. Identificato il cadavere – arso – di Rizzo, le cronache giornalistiche
del 29 febbraio dissero tutto : di lui, al corrente di tutti i
segreti dei Laudani, dell’infortunio occorsogli in Cassazione, il
12, e della causale dell’omicidio, voluto dal clan per prevenirne
l’arresto e le rivelazioni. La Procura (il gruppo Antimafia; il Procuratore
Capo; gli altri Sostituti, cui fosse toccata la notizia di
reato, prima della identificazione dei resti) dovevano mettersi in
caccia della verità, dalla imponente rilevanza per il procedimento
in corso (il primo “ficodindia”).
2. C’erano molte cose da fare : sequestri di libri contabili e corrispondenza,
sequestri di beni, indagini e sequestri presso banche,
convocazioni di persone che si potessero presumere informate.
Non fu fatto nulla, da nessuno; e nel giugno dell’anno dopo, ’98,
venne chiesta archiviazione.
3. Ma di lì a poco la verità, non voluta cercare, irruppe essa in
Procura. L’esecutore materiale del delitto rese confessione e
chiamò in correità, quali mandanti, il capo clan, Laudani Alfio,
ed altri. Era il ’98 o il ’99, ma nessuna iscrizione nel registro degli
indagati fu fatta sin oltre il marzo del 2001, sebbene nel 2000
lo staff della Procura si fosse accresciuto di un pezzo forte, col
rientro di Gennaro, in veste di Procuratore Aggiunto. Iscrizioni
sopraggiunsero solo in aprile del 2001, dopo che la Procura Generale
ebbe avocato un altro procedimento per l’omicidio di Atanasio,
a carico del Laudani : al che poteva seguire avocazione,
per connessione, anche di questo.
24
4. Richiesta di comunicazione degli atti ci fu in effetti da parte
dei Sostituti assegnatari del procedimento avocato, ma ad essa
fu opposto, dal Procuratore Capo, netto rifiuto : le indagini in
corso – egli disse – esigevano speciale riservatezza. Il Procuratore
Generale si acconciò.
Deve essere di molto improbabile successo la ricerca, in tutta la
storia della Magistratura italiana, di precedenti di un tale rifiuto
o di una siffatta acquiescenza.
5. All’inaugurazione dell’anno giudiziario 2002 (12 gennaio)
qualcuno riuscì a dire – presente Gennaro; presente, verosimilmente,
l’on. Finocchiaro – le parole giuste : a proposito di San
Giovanni (luogo nel quale si incontravano tutte le devianze, tutte),
e di quell’assassinio col quale erano stati seppelliti ontosi segreti,
e a concludere – interrotto con immoderata insistenza dal
Presidente della Corte, “per l’ora già tarda” – auspicando che ad
occuparsi delle indagini fossero “mani che non tremano”. (Il testo
dell’intervento in Città d’Utopia, 2002).
6. Rinvio a giudizio fu chiesto un anno appresso; ma intanto veniva
negata la capacità del Laudani, di partecipare coscientemente
alle udienze, e la negazione, fatta propria dalla Procura,
caparbiamente, anche contro irresistibili evidenze di simulazione
(conclamate dalla CC di Parma, che deteneva l’imputato; conclamate
dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna) ha impedito la
celebrazione del processo sino al 2009. (Si veda per il seguito il
capitolo XVIII)
25
CAPITOLO VI
Scuto, residente a San Giovanni, è un grande imprenditore della
distribuzione : 49 supermercati, di cui uno in San Giovanni;
azienda valutata 1000 miliardi. Frequentato dal Rizzo, sua “staffetta”
con i capi del clan, Scuto caldeggia l’elezione di Gennaro
a Sindaco di San Giovanni
Per il gruppo Antimafia, per altri Sostituti e per il Procuratore
Capo, Scuto è vittima dei Laudani (nel 2000 ultimo tentativo di
archiviazione di atti che lo accusano, negati dal gruppo antimafia,
per silentium, al Sostituto Marino), ma è sodale del clan per
i Carabinieri (un’indagine dei quali, presso banche, per sospetto
di riciclaggio di danaro dei Laudani, viene troncata da quel
gruppo) e per il Marino (che ne ottiene cattura), nonché per la
Procura Generale, che avoca gli atti, e per il Tribunale, che in
esito ad otto anni di dibattimento ne pronuncia condanna. La
sentenza, impugnata anche dal PM, non è stata ancora depositata.
Nel corso del giudizio una proposta di legge (processo breve,
senza esclusione dei reati di mafia) è stata presentata al Senato il
19/07/2006, a firma, con altri, della Sen. Finocchiaro. E’ questa
una deplorevole disattenzione, da parte di un parlamentare catanese,
al quale sia l’esistenza che l’importanza di quel processo è
stata recata a mente, pochi mesi prima, da un articolo di Giustolisi
e Travaglio, sulla rivista MicroMega.
L’Aggiunto Gennaro che ha “vistato” (fine gennaio 2001) la richiesta
di custodia in carcere, sottopostagli dal Sostituto Marino
(inconcepibile il rifiuto del “visto”, nel pieno del clamore provo-
26
cato dai fatti di cui sub. VII e sub. VIII) fa subito apparire sul
quotidiano di Palermo (4 febbraio) una sorprendente intervista :
gli arresti di imprenditori, per asserita collusione con i mafiosi,
possono riuscire di giovamento proprio alla mafia, mentre mettono
in pericolo il pane dei lavoratori dipendenti. Solo in fine
dell’intervista si fa posto, brevemente, alla ipotesi che la collusione
sia provata, per dedurne che in tal caso etc… .
E’ una presa di distanza di cui i giudici del riesame possano tener
conto o si tratta di un messaggio?
L’avocazione, del marzo 2001, ha per motivi (e le cronache giornalistiche
ne informano il pubblico) l’ i n e r z i a, e la m a l a g
e s t i o nella quale è incorsa la Procura della Repubblica. Ma il
15 marzo appaiono sullo stesso quotidiano di Catania, fianco a
fianco, interviste del Procuratore Capo e del Procuratore Generale.
Il primo difende la richiesta di archiviazione, disattesa dal
GIP, critica l’avocazione (in Procura Generale han tempo da
perdere), sottace l’addebito di inerzia, come se non fosse mai
stato formulato, e spiega il riferimento alla mala gestio col fatto
in sé, del contrasto tra la richiesta di archiviazione (formulata
dal gruppo o pool antimafia), e quella di cattura, avanzata dal
dott. Marino, appartenente allo stesso Ufficio di Procura, e
accolta dal GIP. In altri termini, nessun rimprovero di mala
gestio sarebbe stato possibile, senza l’iniziativa del Marino.
Il Procuratore Generale si mantiene, sorprendentemente, sulla
stessa linea. Sottace anche lui l’inerzia, come motivo dell’avocazione,
e spiega allo stesso modo il motivo della mala gestio. I
27
lettori attenti ne sono sbalorditi. Impossibile, infatti, trovare una
spiegazione in personali vulnerabilità del magistrato: se i suoi figli,
entrambi, erano stati assunti dalla BAE, del Cav. Del Lavoro
Graci (uno dei grandi imprenditori attaccati dal Dalla Chiesa,
nel tragico ’82, e poi da Giuseppe Fava), le assunzioni erano avvenute
in esito a concorso; se i detti suoi figli avevano comprato
casa, entrambi, in San Giovanni la Punta, sulla via Montello, di
fronte alla casa comprata da Gennaro, a quella lottizzazione era
stato sempre estraneo o si era reso estraneo, da tempo, il Rizzo;
e se il magistrato aveva deciso come giudice tributario in favore
della BAE un certo ricorso la decisione era stata giusta.
CAPITOLO VII
Audizione del magistrato Scidà in Commissione Antimafia
(07/12/2000). Per completare l’esposizione egli chiede 60 minuti
ancora, che non gli vengono concessi.
CAPITOLO VIII
Da quali fatti l’audizione fu provocata.
Nel ’98, mentre Gennaro esce dal CSM, entra a farne parte il
dott. D’Angelo. In dicembre del ’99 Scidà si duole che non lo abbiano
voluto sentire né a proposito di “viale
Africa” (CAPITOLO I n.10 e CAPITOLO III n.2 ) né in ordine
al processo di Roma (CAPITOLO III n.3 ). La prima
Commissione viene dissuasa dal chiamarlo e indotta, con mezzi
di cui Scidà non deve avere né notizia né sospetto, a perseguirlo,
28
pur nella mancanza di qualunque giusto motivo, per
incompatibilità con l’ambiente e con la funzione di Presidente
del TM. La proposta di trasferimento deliberata, all’unanimità, il
09/11/2000 prescinde rigorosamente dall’avere egli sollevato
quelle tali questioni (su cui si vuole scenda perpetuo silenzio),
così come non contiene alcun riferimento a ciò che gli è stato attribuito
segretamente. Essa si fonda sopra asserzioni incompatibili
con la realtà, o sopra altre invenzioni difatti incompatibili
con la realtà, o sopra assunti che onorano il magistrato : di comportamenti
doverosi o addirittura meritori. L’infondatezza, assoluta,
non preoccupa. Una legge (n. 1/81) rende non perseguibili i
componenti del CSM, né penalmente né civilmente, per voti
espressi o per opinioni manifestate; e inoltre Scidà è un isolato,
ignoto a tutti (non ha rapporti con partiti politici; non ha dalla
sua nessuna corrente di magistrati; non confina con logge massoniche),
che parlerà invano davanti al plenum. I proponenti
hanno sbagliato. Al primo annuncio della proposta (un “lancio”
ANSA del 09/11/2000) la rivolta della coscienza pubblica è
corale e fragorosa : nel seno della Commissione Antimafia; in
mezzo ai giudici minorili italiani, giusto in quei giorni riuniti in
congresso; e a Catania, a Messina e a Palermo. Qualcuno chiede
perchè, invece di attaccare “una delle personalità più limpide” il
CSM non posa gli occhi sui vertici della Procura della
Repubblica di Catania; e da qui migliaia e migliaia di cittadini
chiedono alla Commissione di convocare l’anziano magistrato.
Non è valso a frenare la valanga, che gli stessi autori della
proposta si siano gettati su quella loro creatura, a soli 11 giorni
dalla deliberazione, per traversarne il cammino verso il plenum
e ridomandarla indietro col pretesto fosse necessaria
29
un’ispezione ministeriale : che fu effettuata, e constatò la totale
infondatezza degli addebiti.
Sulla dismisura di quel modo di esercizio del potere si abbatteva,
puntuale, la nemesi
CAPITOLO IX
Tacciato di aver fatto acquisto di casa da un mafioso (Rizzo),
Gennaro si discolpa producendo al CSM, come veridico, l’atto
Arcidiacono, mendace, e lo fa giungere, attraverso la Procura
Generale, a tutti gli Uffici per i quali, date le circostanze, può
presentare interesse.
In marzo 2001, mentre a Messina stanno per essere prese determinazioni
(apertura di indagine) sulle dichiarazioni Scidà all’Antimafia,
Gennaro chiede al CSM di tutelarlo.
CAPITOLO X
Il CSM interviene a tutela di Gennaro (Presidente dell’ANM),
contro Scidà e contro Marino (comparso anche questi davanti
all’Antimafia), senza voler sentire né l’uno né l’altro. La deliberazione
(processo verbale di seduta plenaria del 20/03/2001) viene
adottata a maggioranza, contro strenua opposizione di alcuni
dissenzienti (con quel voto a tutela, essi obiettano, il Consiglio
si sostituisce agli Uffici Giudiziari competenti, prevenendone gli
accertameti; il voto è una sentenza).
30
CAPITOLO XI
In maggio o giugno dello stesso 2001 Arcidiacono rivela ai Carabinieri
di Catania la verità (non è lui il costruttore e venditore;
si è prestato ad una finzione, per quell’atto soltanto) e produce la
controdichiarazione illo tempore rilasciatagli, a sua richiesta, da
Gennaro.
CAPITOLO XII
Il CSM, informato, si rifiuta di agire contro Gennaro, nonostante
richiestone da uno dei suoi componenti.
CAPITOLO XIII
Nell’agosto 2001, dal carcere catanese di Piazza Lanza, dove
sono ristretti molti mafiosi del clan Laudani, un detenuto ostile
alla mafia, che gli ha ucciso un congiunto, avverte per lettera il
“Presidente Sciatà” che “la sua vita è in pericolo, perchè si è
messo contro le persone sbagliate”. La Procura della Repubblica
di Messina omette di compiere le attività del caso. Non chiede
immediato trasferimento del mittente in altro istituto; non lo esamina
se non dopo settimane dalla denuncia; e al detenuto – che
ha subito riconosciuto per sue la lettera e la sottoscrizione, ricollegando
il segnalato pericolo alla posizione di Scidà nel “caso
Catania” – accolla il peso di dichiarare, lì, entro quelle mura,
nell’assedio di quelle tali presenze, delle quali resterà alla mercè,
la fonte del suo sapere. Alla risposta – quale ognuno in quelle
circostanze darebbe – : non ha avuto altra fonte che il suo stesso
31
animo, il magistrato tralascia ogni indagine, salvo un accertamento
risibilmente superfluo sull’autenticità della sottoscrizione,
e passa a separare gli atti dal procedimento in corso a carico di
Gennaro, per chiederne quindi archiviazione, senza aver sentito
Scidà. Il GIP rigetta opposizione dell’offeso.
CAPITOLO XIV
Archiviazione a Messina (2004) della indagine su Gennaro, ex
art.416 bis cp che è stata aperta dopo le rivelazioni Arcidiacono.
L’inchiesta ha ignorato la lettera ricevuta dal dott. Scidà (v.
capitolo XIII) tempestivamente espunta dall’incarto. La richiesta
conclusiva del PM (18/07/2003) afferma pagato da Gennaro, il
prezzo che gli altri compratori pagavano, ma prescinde dalla
consistenza e dal valore, mai adeguatamente indagati,
dell’immobile avuto dal magistrato, diversa sotto entrambi i
profili da quella che gli altri ottenevano. La richiesta evita altresì
ogni contatto con il punto, fra tutti scabroso, dell’uso fatto
dall’indagato presso il CSM, e in altre sedi, dell’atto
Arcidiacono, nel 2001, mentre riporta gli elaboratissimi conati
del dott. Gennaro, intesi a dimostrare che dieci anni prima la
simulazione (Arcidiacono costruttore e venditore) non fu diretta
a dissimulare la venditrice effettiva (società Di Stefano) ma al
risparmio di tempo prezioso, mediante riduzione ad un solo
passaggio, dei due che altrimenti sarebbero occorsi (Arcidiacono
> Società; Società > Gennaro) ma soprattutto ignora, nel senso
che non ne ha mai avuto notizia, il processo (v. CAPITOLO II n.
1) con due Laudani tra gli imputati, che avrebbe acceso curiosità
32
e suggerito domande.
Il testo della richiesta è tuttavia di grande interesse per le risultanze
che riassume : Gennaro che nega di aver mai conosciuto
Rizzo (contro la verità ampiamente accertata, ma nell’esercizio,
osserva il PM, della facoltà di mentire, spettantegli come indagato).
Interessante è quel testo anche per ciò che riporta delle affermazioni
di uomini del clan, e di altri, circa il magistrato Gennaro.
Nessuno può negare che l’ANM (lasciando indosso a Gennaro il
manto di suo Presidente, pur dopo le dichiarazioni del magistrato
Scidà all’antimafia, e pur dopo la clamorosa conferma, venuta
ad esse dalle rivelazioni Arcidiacono) ed il CSM (avventurandosi
nel voto a tutela di Gennaro, e rifiutandosi di tornare su di
esso, dopo quelle rivelazioni) hanno posto la Giustizia di Messina
nell’impossibilità di concludere diversamente l’inchiesta, senza
trapassare, trapassando quel paludamento, l’onore della magistratura
associata e senza distruggere il prestigio dell’organo di
autogoverno.
CAPITOLO XV
La politica, destra e sinistra, è tutta per Gennaro e per la Procura.
I Governi Berlusconi ne sono lo scudo, come la Commissione
Antimafia della XIV Legislatura e la Commissione della XV.
Quali gli interessi in gioco.
Per la sinistra, Gennaro, immedesimato con la Finocchiaro, era
un campione da quando, il 23 novembre 2000 (la vigilia, si può
33
dire, dell’audizione Scidà in Antimafia), aveva dato, dal podio
del congresso veneziano di MD, come Presidente dell’ANM, nel
grido di guerra : “Berlusconi non può essere Presidente del Consiglio”.
Per la destra, vincitrice delle elezioni, Gennaro diventava il miglior
Presidente dell’ANM, da quando debole ed esposto : per le
dichiarazioni di Scidà in Antimafia, e per la tremenda conferma
che esse avevano avuto, 4 o 5 mesi dopo, dalle rivelazioni Arcidiacono.
Ed era anche, così esposto all’azione del Ministero della
Giustizia (accertamenti ispettivi; azioni disciplinari) il miglior
leader di fatto della Procura di Catania, città nella quale era a
sua volta esposto all’azione di quell’Ufficio, come Sindaco, il
medico personale di Berlusconi, Scapagnini. Un’altra ragione,
formidabile, di risparmiare Gennaro, condonandogli l’uscita antiberlusconiana
di Venezia, era nell’interesse dell’On. Berlusconi
a buoni rapporti con l’On. Finocchiaro, terminale, per Arcore, di
ogni dialogo con l’opposizione (vedi Giustolisi e Travaglio in
MicroMega 3/06).
A capo del Ministero della Giustizia stava il leghista Castelli,
Sottosegretario il casiniano Vietti, già relatore in marzo del voto
del CSM a tutela di Gennaro.
L’Antimafia della XIV legislatura (presidenza e maggioranza di
destra) avrebbe dovuto portare avanti l’inchiesta che la precedente,
frenata dal partito della Finocchiaro e dalla sinistra in genere,
aveva eluso : le convocazioni del col. dei CC Pinotti,
dell’avv. Brancato, al corrente di tutti i fatti di San Giovanni la
34
Punta, e di altri, non erano neanche partite; l’audizione del Sostituto
Marino era stata variamente remorata; il tempo residuo, prima
dell’ormai scontato scioglimento delle Camere, fu preso
dall’ascolto di assertori dell’ineccepibile andamento delle cose,
in Procura. Ma la nuova Commissione si rifiutò, dal momento
della sua costituzione sino alla fine della legislatura, di
occuparsi di Catania. Non volle metter piede nella provincia
etnea, mentre accedeva a sette altri capoluoghi; e nessun seguito
dette alle segnalazioni ed istanze dalle quali era tempestata la
Presidenza.
L’Antimafia della XV (presidenza e maggioranza di sinistra)
volle andare, nel coprire Catania, ben oltre i limiti della mera
omissione, impegnandosi, sin dal primo momento, positivamente
nella messa in sicurezza della Procura e di Gennaro. Essa nominò
suo consulente, a tempo pieno, proprio uno dei tre Sostituti
del pool antimafia, che avevano trattato, nel modo già descritto
(capp. IV – V – VI) l’omicidio Rizzo e gli affari concerneti Scuto.
La portata, ingente, di quella determinazione fu contestata al
Presidente On. Forgione con una lettera aperta di Giambattista
Scidà (disponibile sul blog all’indirizzo
www.scida.wordpress.com) il testo è riportato in apposita
appendice in questo scritto.
CAPITOLO XVI
L’ANM rielegge Gennaro (2006) suo Presidente. I votanti si aggrappano
al debolissimo testo dell’archiviazione (CAPITOLO
XIV). Dopo avere reso quasi inevitabile l’archiviazione
35
dell’inchiesta messinese, mantenendo Gennaro nella posizione di
Presidente del sodalizio, i componenti del CDC mettono a frutto
la conclusione dell’inchiesta per conferire di nuovo
quell’altissimo incarico allo stesso Gennaro. Peraltro essi
valorizzano il decreto del GIP, senza leggere la richiesta del PM,
conforme nelle conclusioni, ma infesta all’indagato per quel che
riporta delle acquisite informazioni. Votano tutti a favore. La
deliberazione è di quelle che o sono unanimi o non possono
esserlo. Concorre alla elezione, se non ci inganniamo, un ex
membro del CSM (’98 – 2002) partecipe del voto di marzo del
2001 a tutela di Gennaro e informato delle rivelazioni
Arcidiacono sopraggiunte pochi mesi dopo.
CAPITOLO XVII
Il posto di Procuratore Capo a Catania è di nuovo a concorso. Il
gruppo di Unicost (ben sei componenti, uno dei quali di
Catania), il Vicepresidente Mancino, il laico Volpi (eletto in quota
bertinottiana) scongiurano la nomina di un estraneo (Di Natale,
che la Commissione ha proposto con 4 voti su 6). Viene nominato
(2007) il dott. D’Agata (v. cap.3 n.5).
Non accadrà che un occhio di estraneo – tale non soltanto perchè
mai stato in servizio nel Distretto di Catania, ma perchè non
connesso con l’élite giudiziaria dominante, che in Gennaro ha il
suo carismatico capo – si posi su vicende come quelle del processo
per falsa intestazione delle ville di San Giovanni la Punta
(v. capitolo XVIII) ancora pendente per la parte riguardante il
Laudani.
36
Nell’apparenza, la vittoria di Gennaro è di strettissima misura. In
realtà è stato come un voto unanime perchè nessuno dei votanti
per Di Natale ha osato dire le poche parole – di evocazione del
“caso Catania” – che avrebbero impedito agli altri di votare
come votarono. Il “caso” era ben noto in Consiglio anche per
l’esposizione fattane da un “appello per la salute della Giustizia
a Catania e per l’onore del CSM” pervenuto nel 2006 al Presidente
della Repubblica e dal Presidente rimesso al Consiglio l’11
settembre di quell’anno.
CAPITOLO XVIII
Procedimento a carico di Laudani per falsa intestazione (art.12
quinquies della l. 356/92) delle ville di San Giovanni, una delle
quali acquistata da Gennaro ed altra dal cognato della Finocchiaro.
Scontro, in ottobre 2005, tra il Procuratore Capo, e il Capo
dell’Ufficio GIP. Un giudice avendo fatto cessare la lunga sospensione
del procedimento, perchè simulata l’infermità mentale
dell’imputato, e altro giudice, succedutogli nella trattazione,
avendo fissato Udienza Preliminare (da tenersi in Parma), il Procuratore
pretese che il capo di quell’Ufficio la impedisse, revocando
l’autorizzazione alla trasferta : o l’avrebbe impedita lui,
Capo della Procura, ordinando ai Sostituti di non prendervi parte;
in alternativa, avrebbe denunciato alla magistratura contabile
la spesa, certamente inutile perchè effettiva la malattia.
Durissima e degna di memoria fu la risposta dello “intimato”,
resa nota da un quotidiano : in tanti decenni di attività professio-
37
nale non aveva mai udito che una parte processuale volesse coartare
il libero giudice : un giudice, nel caso, che aveva lungamente
rischiato la vita pur di fare giustizia; no, egli non avrebbe
revocato nulla : lo denunciasse pure, il Procuratore al magistrato
: egli avrebbe dedotto l’importo dell’eventuale condanna da quella
destinata agli eredi. L’udienza ebbe luogo, e rinvio fu disposto,
in difformità dalla conclusione del PM (uno dei tre del
pool); ma il Procuratore interpose elaboratissimo ricorso per
cassazione contro l’atto del GIP, di revoca della sospensione del
procedimento. L’impugnazione venne dichiarata inammissibile,
come scontato
Il processo ebbe luogo nel 2006, ma solo a carico del Di Giacomo.
L’imputato fu assolto (III sez., 15 giugno) a richiesta del
PM. Che Rizzo, alter ego degli imputati, in altri affari, fosse socio
della “Di Stefano” non era provato, per il PM; non lo era a
sufficienza, per i giudicanti, dal mero fatto che socio della società
fosse “un congiunto” di lui : espressione in verità troppo lata
(poteva intendersi un congiunto neanche prossimo; un collaterale
sino al sesto grado per il lettore non informato : “il congiunto”
era il coniuge, era la moglie convivente). Il Laudani fu tratto a
giudizio solo tre anni dopo, nel 2009. Anche lui è stato assolto
(III sez., 13 marzo), sempre in conformità di richiesta del PM,
che ha prodotto la sentenza del 2006.
Scelte lessicali a parte, il fatto che le due sentenze accettano di
opinare non sufficientemente provato (cioè che Rizzo fosse socio
della Di Stefano), era conclamato : dalle affermazioni di lui,
Rizzo; da una sentenza 23/05/2006 n. 6350/06 reg. sent. del Tri-
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bunale di Monza sezione di Desio, e da innumeri altri elementi :
Rizzo ci era entrato attraverso la moglie, a proposta del socio Di
Loreto; e a causa dell’esserci entrato lui, Rizzo, e del suo spadroneggiare,
ne era voluto uscire il socio Finocchiaro. Nel procedimento
per misure di prevenzione il fatto che Rizzo fosse socio
della Di Stefano era emerso, pacificamente, senza contraddizione.
La stampa ha celato ai lettori le due sentenze; la Procura Generale
non ne ha impugnato nessuna, e non ha sollevato questioni
di legittima suspicione. Non era questo forse un caso scolasticamente
esemplare, dato l’interesse personale del Procuratore Aggiunto,
compratore di uno di quegli immobili, alla assoluzione
degli imputati? Gli stessi processi, con le richieste del PM, in
così radicale contrasto con la realtà rafforzavano l’evidenza della
incompatibilità con l’ambiente, per non dire di altri fatti : l’impegno
del Procuratore Capo, senza rispetto di argini, nel cercar di
traversare il corso della Giustizia, opponendosi all’udienza preliminare;
la mancata incriminazione, per concorso nel reato, dei
soci della Di Stefano, Di Loreto e la vedova di Rizzo, come se il
fatto potesse essere stato commesso senza alcun apporto loro; il
mancato sequestro o il dissequestro delle ville.
CAPITOLO XIX
Il processo a carico del Laudani, per l’omicidio Rizzo, è potuto
arrivare al dibattimento solo nel 2009, a distanza di 12 anni dal
delitto, e ci è arrivato solo grazie alla consulenza collegiale, voluta
dalla Procura Generale, nel processo per l’omicidio Atana-
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sio, dalla quale è stato sbaragliato l’assunto di infermità mentale
dell’imputato.
La Corte d’Assise ha assolto Laudani : attendibile l’esecutore
confesso dell’omicidio, Troina; non provato il mandato ad uccidere,
da parte del Laudani.
E’ in corso giudizio d’appello, particolarmente interessante per
l’assunto, implicito, se non erriamo, nella decisione impugnata,
che l’uccisione di un associato dello spessore di Rizzo possa avvenire
per volere di un luogotenente, contro la volontà del capoclan
senza un seguito anch’esso tragico. Intanto la difesa ha chiesto
ennesima consulenza, risoltasi in conferma della simulazione
di malattia.
CAPITOLO XX
Il Palazzo e gli altri palazzi
Gennaro è la Procura, sin da prima di rientrarvi come Procuratore
Aggiunto : sin dalla sua elezione in CSM. Gennaro e Procura,
forti per gli strumenti di cui dispongono nei confronti di amministratori
e politici, hanno bisogno, dati i fatti, della politica tutta
: hanno bisogno della destra e della sinistra. Ciò importa, nel
fatto, che qualunque schieramento sia localmente al potere
(nominali peraltro le contrapposizioni, rispetto all’omogeneità
delle prassi), l’esposizione a seguiti repressivi scenda a livelli
bassissimi. E’ in questo quadro che, con gli abusi impuniti, lo
spareggio del bilancio si integra come un dato strutturale alla
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gestione del Municipio : colmato ogni anno dalla contrazione di
mutui, sinchè mutui fu possibile contrarre, e poi occultato, per
evitare dichiarazione di dissesto, con manipolazioni del bilancio.
La reazione processuale, attualmente in corso, colpisce solo
questi espedienti dell’ultima epoca, ma non gli sprechi ed abusi
di essa e delle precedenti.
Nel tempo l’adeguatezza dell’azione giudiziaria ha trovato altre
condizioni sfavorevoli nella pratica, dalla quale gli Enti non
hanno saputo astenersi, del contrarre rapporti di diritto privato
con magistrati, anche inquirenti : le locazioni passive insegnano.
Non si può dunque negare che la crisi, permanente, dell’Istituzione
Giudiziaria, è stata causa di crisi dell’Amministrazione
Municipale, e alla fine della comunità urbana.
IL TABU’
Del caso Catania “non si parla” (non ci si arrischia né a parlare
né a scrivere) se non per dire (semmai si sia costretti a nominarlo)
che esso è chiuso da tempo, o che non è mai nato. Il “caso
Catania” è tabù.
Ad erigerlo in tabù – a tabuizzarlo – hanno lavorato costantemente
il CSM e il Ministero della Giustizia, le Commissioni Antimafia
di più legislature e l’ANM, l’informazione locale e grandi
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testate nazionali, inchieste come quella di Report sulla città
(muta a proposito del Palazzo di Giustizia) e libri come “La Supercasta”
di Livaidotti o come la “Storia della mafia” di Lupo,
nonché grandi soggetti della società civile, come Libera, seriamente
dediti a prevenire ed a spegnere la risonanza di un franco
intervento catanese negli Stati Generali dell’Antimafia; e persino
la Giustizia, mandando sotto processo, a querela di magistrati
della Procura, giornalisti (Travaglio, Giustolisi, Flores) che abbiano
rotto il silenzio: per non dire della proprietà di giornali e
gruppi di giornali, col suo pretendere dai giornalisti, autori di
ineccepibili articoli, ma querelati e rinviati a giudizio come diffamatori,
accettazione di querele.
E adesso, in quest’anno 2011, vacante di nuovo il posto di Procuratore
della Repubblica, sui fatti del “caso Catania”, avvolti
nel silenzio, viene calato, perchè nessuno ne scorga la massa, un
sipario figurato, dalle forti vampe cromatiche, come se ne vedono,
in piccolo, sui carretti siciliani : arcangelo antimafia, sul destriero
rampante, vi campeggia il magistrato Gennaro, e di fronte
a lui, incalzati senza remissione, l’infedele e la turba infinita dei
suoi dannati accoliti; in toga ed occhiali, emerso dagli inferi, un
emissario del maligno, loico e sottile, che infrena la spada ultrice.
Senza entrare in una vicenda che è aperta, come tutti sanno, a
disparate ricostruzioni, tiriamo sù, energicamente, sino al soffitto,
l’impedimento di quella tenda dagli accesi disegni, perchè si
offrano alla percezione e al giudizio, nudi, gli avvenimenti e
comportamenti dei tre decenni, durante i quali si è consumato,
nell’indifferenza di troppi suoi figli, il sacrificio di una insigne
città.