Questa è la storia di Lorenzo Pinto, fratello di Luigi, una delle otto vittime di piazza della Loggia. Lorenzo Pinto è morto all’inizio di questo nuovo anno a Roma, era un ferroviere, un macchinista dei “Frecciarossa”, per tutta la vita aveva cercato giustizia per quella strage orrenda che è costata la vita ora anche a lui stroncato da un infarto. Tre anni fa l’aveva preceduto la vedova di suo fratello Luigi. Ho aspettato un po’ a scriverne, l’avevo incontrato in dicembre quando le associazioni dei familiari delle vittime di strage – reduci dall’appello che è stato lanciato in dicembre contro le decretazioni e per l’apertura degli archivi – erano state sentite presso il Copasir. Dopo l’audizione avevamo organizzato una conferenza stampa a Montecitorio. Lorenzo Pinto era lì a rappresentare Brescia e la Casa della Memoria, di cui era vicepresidente, visto che Manlio Milani era stato obbligato ad andare a Trento per un vecchio impegno preso con gli studenti a cui non voleva sottrarsi. Conb lui Ianacci. Pinto aveva preferito lasciare la parola ai numerosi altri che come lui sono stati colpiti così brutalmente dallo stragismo. E così quel giorno hanno parlato Paolo Bolognesi, Daria Bonfietti, Rosa Villecco Calipari, Giovanna Maggiani Chelli, Antonio Celardo.. o Poi in questi giorni Giovanni Fasanella e altri hanno pubblicato questo scritto di Lorenzo. E’ un testo che riassume il succo di tanto dolore, questo è il modo giusto di ricordarlo. Ecco chi era Lorenzo Pinto. Aveva solo 17 anni quando esplose la bomba…
“Sono nato a Foggia nel 1957. La nostra era una famiglia numerosa: mamma, papà e quattro figli. Mamma morì nel 1962, quando avevo solo cinque anni. Papà si risposò ed ebbe un quinto figlio dalla nuova compagna, che ebbe il coraggio e la forza di crescere tutti noi. Era ferroviere anche lui, se ne andò nel 1988, stroncato dalla leucemia. Non si era mai ripreso dal dolore per la morte di Luigi.
Aveva venticinque anni, Luigi, quando esplose la bomba. Conservo una sua fotografia scattata proprio in Piazza della Loggia un mese mese prima della strage, durante una manifestazione di protesta: il suo viso preoccupato, come se presagisse qualcosa, un cartello appeso al collo: «No alla scuola di classe, no alla selezione: corsi abilitanti, occupazione». Era un insegnante di educazione tecnica. Prima però aveva lavorato in uno zuccherificio in Puglia e poi come tecnico alla Sir di Porto Torres, in Sardegna. Ma la scuola, per una sua naturale inclinazione a stare in contatto con i giovani, era la sua vera passione. Rientrato dalla Sardegna, si era sposato e, dopo una breve parentesi come insegnante a Rovigo e Ostiglia, si era trasferito a Brescia, perché lì aveva maggiori possibilità di inserimento.
Ci vedevamo spesso, soprattutto durante le vacanze. Andavo a trovarlo in treno. L’ultima volta fu per la Pasqua del 1974, proprio un mese prima della strage, stava mettendo su casa con Ada, sua moglie (lei ci ha lasciato per sempre nel luglio del 2005). Avevano ancora pochissimi mobili e passammo il tempo a disporli in casa, a ridere e a mangiare tutti insieme. Eravamo molto legati. Sapete, quando viene a mancare una mamma, tra i figli si crea una sintonia sottile. Ci si confronta, ci si protegge, ci si aiuta a vicenda.
Nei giorni in cui ero a Brescia da lui, venne a salutarlo una sindacalista, Giulietta Banzi in Bazoli, una sua collega della Cgil –scuola. Gino, perché così noi chiamavamo Luigi, militava in Avanguardia Operaia, un gruppo della sinistra extraparlamentare: il circolo a cui era iscritto aveva preso il nome da un giornale fondato da Lenin, “Iskra”, scintilla. C’erano diversi insegnanti, tutti della Cgil-scuola. Mio fratello però era un moderato, come si dice oggi, un pragmatico che imparava più dall’esperienza concreta che dalle teorie, uno abituato sempre a sdrammatizzare, magari con una battuta. Aveva un sorriso che ti faceva stare subito bene. La loro era una compagnia simpatica, un gruppo vivace, nelle discussioni si parlava di scuola, di lavoro, e le serate erano lunghe, fumose e impegnate. Ricordo anche una gita al paese della moglie, San Benedetto Po. Era la prima volta che vedevo il Po, ero abituato al mare, non al paesaggio con un fiume e la montagna alle spalle. Ecco, questi sono alcuni degli ultimi ricordi che ho di lui vivo.
Ci salutammo alla stazione, separarsi è sempre stato complicato in famiglia. Gino aveva gli occhi grandi, profondi, un po’ lucidi per l’emozione. Mi disse, protettivo come sempre: “Stai attento”. Frequentavo la Federazione giovanile comunista, erano tempi duri e io avevo solo 17 anni.
Quel 28 maggio, il pomeriggio, ero proprio a una riunione della Fgci a Foggia, quando mi diedero la notizia. La bomba era scoppiata poco dopo le 10 del mattino, ma non avevamo saputo nulla. Eravamo lì a discutere di lavoro minorile, quando arrivò di corsa un mio carissimo amico che urlava: “Lorenzo, la pioggia! Lorenzo, la pioggia!”. La pioggia? Non capivo. Non capivo perché urlasse, perché urlasse il mio nome. E che c’entrava la pioggia? Poi si calmò e mi disse, balbettando: “Tuo fratello…. I fascisti…. La bomba…”
Tornai di corsa a casa. Papà sapeva tutto e stava già partendo per Brescia con i suoi fratelli. Io li raggiunsi il giorno dopo, accompagnato da due miei insegnanti, in macchina. Arrivai tesissimo, tanto che dovettero farmi delle iniezioni di calmanti. Mio fratello era ancora vivo, ma non volevano farmelo vedere, perché ero ancora troppo agitato, continuavo a tremare e a piangere.
La mattina del 28 maggio pioveva, mi dissero. E Gino, che non aveva l’ombrello, era andato a ripararsi sotto il porticato, proprio vicino al cestino in cui avevano deposto la bomba. Davanti poco distante, c’era un gruppo di suoi colleghi, tra cui Giulietta Bazoli.
Giulietta morì subito con altre cinque persone; un altro, gravemente ferito, aveva resistito soltanto qualche giorno.
Le condizioni di mio fratello erano molto critiche, aveva riportato ferite talmente serie che, se si fosse salvato, sarebbe comunque vissuto su una sedia a a rotelle. Mia sorella Nunzia e suo marito Giovanni riuscirono a vederlo. Gino, che era ancora cosciente, li riconobbe e fece anche un cenno con gli occhi, accompagnandolo con un lieve sorriso. Morì alle 21 del primo giugno, per una crisi polmonare.
I funerali si svolsero a Brescia, c’era un mare di gente. Poi partimmo per la Puglia. Ricordo quel viaggio di ritorno, e come potrei dimenticarlo? Davanti, di scorta, i poliziotti in motocicletta; poi, il carro funebre con la bara; e, dietro, l’auto con noi a bordo, io, mio padre Michele e Mario, il marito dell’altra mia sorella, Giovanna. Per tutto il tragitto da Brescia a Foggia, non riuscimmo a pronunciare neppure una parola. Avevamo tutti gli occhi fissi su quella bara color noce. Ed era come se ognuno di noi viaggiasse solo con Gino, e volesse ritagliarsi ancora qualche momento di intimità con lui. Io non facevo altro che pensare alle ultime ore, trascorse insieme, al giorno del nostro ultimo saluto, alla stazione di Brescia. Non potevo accettare l’idea della sua morte, perciò la mia mente continuava a mandare quegli ultimi fotogrammi scattati sul marciapiede del binario, prima che andassi a sedermi nel mio vagone e il treno iniziasse a correre. Ancora oggi è così, quando penso a Gino, lo vedo come in quel momento: gli occhi grandi, profondi, un po’ lucidi di emozione, mentre mi dice: “Stai attento”. E’ come se il tempo si fosse fermato quel giorno, davanti a un treno fermo nella stazione di Brescia.
Per mio padre, quello era il secondo lutto. Aveva già perso la moglie, in circostanze drammatiche. E adesso il figlio, in quel modo ancora più tragico. Non poteva più rimanere a casa, non voleva ricevere telefonate o vedere persone, e andò a lavorare a Lecce. Preferiva rimanere solo con se stesso e il suo dolore.
Quando iniziò il processo, voleva seguirlo e si trasferì a Brescia. Ma sin dalle prime udienze, cominciò a crescere dentro di lui il tarlo della diffidenza e della sfiducia. Verso le istituzioni, innanzitutto perché non gli sembravano in grado di accertare la verità. O, ai suoi occhi, non volevano farlo. Non riusciva ad accettare che, fuori dall’aula, militanti neofascisti accogliessero i familiari delle vittime della strage col saluto romano. E ancor meno poteva tollerare l’atteggiamento, dietro le sbarre, dell’imputato Ermanno Buzzi, il suo sorriso beffardo e le svastische tatuate sulle braccia. La sua amarezza era così grande che maturò ben presto diffidenza e sfiducia anche nei confronti delle persone e persino verso la sua famiglia.
Per molto tempo, anch’io ho reagito chiudendomi in me stesso e rifiutandomi sistematicamente di affrontare l’argomento. Poi con l’aiuto di Manlio Milani, presidente dell’Associazione vittime di Brescia, ho iniziato a interessarmi, a leggere, a capire. Ma sempre senza mai trasformarmi in un professionista della memoria. Non mi piace che la gente mi ascolti perché sono il fratello di… Non mi piace che scatti un meccanismo di pietà, di pena, spesso di ipocrisia.
Ho passato dieci anni a cercare di dimenticare, dieci anni di rimozione. Poi mi sono deciso a chiamare Manlio, perché avevo bisogno di condividere il dolore con qualcuno che lo aveva provato come me. In lui ho sentito la vera solidarietà, la sensibilità di una persona che ti è accanto ma con una presenza discreta e, insieme, profonda. Avevamo vissuto entrambi lo stesso dramma, c’è un minimo comun denominatore tra le persone che vivono queste epserienze estreme, che hanno avuto un parente ammazzato dalle Br o dai neofascisti o dalla mafia. C’è una solidarietà d’intenti. Sentivo crescere dentro di me il bisogno di sapere, e con Manlio parlavo molto della strage, senza alcun problema o pudore, poco dei miei sogni e della mia vita.
La mia opinione iniziale era che Piazza della Loggia fosse un atto di violenza, di guerra, di cui però non si percepiva ancora il disegno complessivo. Pensavo che i fascisti avessero ammazzato delle persone perché erano antifasciste, perché avevano partecipato a una manifestazione politica. Poi, in realtà, mi sono reso conto che ditro c’era un disegno eversivo, che è proseguito con altre forme e altri protagonisti negli anni successivi.
Anch’io, come mio padre, cominciai a interessarmi ai processi. Seguendo le varie inchieste che si sono susseguite, man mano che mi addentravo nei fatti, sentivo crescere l’ipocrisia, le contraddizioni e i conflitti nel collegio legale dei familiari delle vittime, che non mostravano nessuna unità d’intenti. Erano troppi gli avvocati interessati solo alla carriera. Fino alla clamorosa spaccatura, quando alcuni sostennero la tesi secondo cui la strage era opera soltanto di alcuni neofascisti locali; e altri, quella di un disegno più complesso che partiva da Piazza Fontana. Due punti di vista diversi, due diverse chiavi di lettura. Si percepivano in ogni modo, delle stranezze. Si avvertivano pressioni sui magistrati e persino dei ricatti, come l’arresto del figlio neofascista del giudice titolare dell’inchiesta, Giovanni Arcai. C’erano forze, insomma, che agivano per impedire che le indagini e i processi battessero piste che non dovevano essere battute. Circoscrivere la strage di Brescia a un fatto locale avrebbe aiutato a stendere un velo protettivo intorno alle complicità negli apparati dello Stato.
Io, intanto, continuavo ad assimilare informazioni, leggevo i giornali ma poi provavo una sensazione di rigetto, perché molte notizie mi ferivano o mi irritavano, e subito rimuovevo, cancellavo. Avevo vere e proprie reazioni di rifiuto, ma subito dopo mi veniva di nuovo la voglia di leggere e di sapere. Ho vissuto per molti anni questo conflitto tra la voglia di sapere e quella di cancellare tutto.
Poi, a un certo punto, ho deciso di iscrivermi alla facoltà di sociologia, alla Sapienza di Roma. E quando è arrivato il momento della tesi, mi sono reso conto che sullo stragismo si sapeva pochissimo. Ho cominciato a studiarmi gli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta, quella presieduta da Giovanni Pellegrino. E mentre cercavo tra quegli archivi, mi sono imbattuto in due studenti americani che provavano anche loro a capirci qualcosa. Sapevano tutto dell’attentato di Peteano, e in particolare la loro attenzione era concentrata su tutti quegli elementi che provavano in qualche modo i legami dell’America con la strategia della tensione. Mi sembrava incredibile che le università americane studiassero la nostra storia, mentre in Italia si sapeva ancora così poco. E così, nel 1998, ventiquattro anni dopo Piazza della Loggia, ho scritto una tesi sulle stragi impunite. Allora, nonostante fossimo già alla quinta istruttoria su Brescia, mancavano ancora molte informazioni, non si conoscevano i nomi di molti personaggi coinvolti. Tuttavia, si intuiva che c’era un filo che legava fra loro molti tragici avvenimenti tra il 1969 e il 1974. E quel filo, ripercorrendolo a ritroso, portava fino alla strage di Portella della Ginestra, nell’immediato dopoguerra in Sicilia, quando il bandito Giuliano sparò contro i lavoratori che manifestavano.
Sì, forse è vero. La mia ricerca per la tesi di laurea aveva motivazioni più profonde e non ho problemi a dirlo: si è trattato quasi di un percorso terapeutico che avevo bisogno di compiere per vincere la ritrosia ad affrontare quel tema. Attraverso la tesi potevo finalmente fare i conti con quella esperienza, studiavo i fatti e al tempo stesso analizzavo le mie reazioni. E man mano che ricostruivo il contesto della strage di Brescia avvertivo che il mio animo si stava riaprendo. Crescevo, insomma. Crescendo, riuscivo a mettere sempre più a fuoco la causa delle mie rimozioni: avevo, senza saperlo, la sindrome del sopravvissuto, non mi ero perdonato di non essere morto al posto di mio fratello. E cercando la verità, attenuavo il mio senso di colpa, perché era come dire a mio fratello:”Gino, vedi che non ti ho abbandonato?”.
Sono ancora oggi convinto che piazza Fontana, Brescia e tutte le altre stragi non furono episodi indecifrabili, destinati a rimanere per sempre nell’oscurità. A patto che vengano inquadrati nel loro giusto contesto e che non si cerchi di utilizzarli come armi di lotta politica. Se molte cose non sono state chiarite, purtroppo la responsabilità è anche dei partiti. In tutti questi anni, il loro atteggiamento ha oscillato tra il silenzio a volte anche omertoso e la propaganda politica. Nei loro archivi c’è un pezzo do verità, ma non li aprono completamente, lesinano le informazioni, lasciando nel frattempo che la memoria, quando non viene cancellata, si trasformi in uno strumento di divisione. Il danno che, così facendo, continuano provocare è enorme. Da Giovanni Pellegrino è venuto invece un contributo serio. I due libri-intervista “Segreto di Stato” e “La guerra civile” contengono elementi preziosi per capire la storia italiana del dopoguerra e il quadro in cui collocare lo stragismo. Ho ritrovato, in quei due libri, molti elementi che avevano nutrito anche la mia tesi di laurea.
Subito dopo averla presentata e discussa, mi sono tolto dal collo la catenina d’oro di mio fratello e l’ho regalata a mia sorella. A Gino avevo dato con amore tutto quello che potevo. A quel punto sentivo che dovevo separarmi da lui. Avevo ripagato un mio debito di verità nei suoi confronti. Certo, una verità relativa, parziale, ma era comunque qualcosa, un risultato che mi era costato molto anche in termini personali. Per raggiungerlo, avevo sacrificato la mia famiglia, la famiglia che stavo costruendo a fatica con mia moglie. Le levatacce, la mattina presto, i turni di lavoro, il viaggiare continuo e poi lo studio all’Università e gli incontri con l’Associazione dei familiari delle vittime…Era troppo, non abbiamo retto e ci siamo separati. Certo, non fu solo quello a provocare la crisi del nostro rapporto. C’era troppo dolore, troppa stanchezza, troppa fatica, quando tornavo a casa dopo aver affrontato un convegno sulle stragi ero esausto, privo di energie intellettuali e nervose. Anche perché percepivo che qualcosa non andava persino intorno alle nostre Associazioni, sentivo tanta ipocrisia, vedevo che tanti avevano un atteggiamento utilitaristico…Leonardo Sciascia parlava di un professionismo dell’antimafia, ho scoperto che c’è anche un professionismo della memoria e che alcuni tendono a strumentalizzare la propria condizione di vittime o di familiari di vittime per ottenere qualche vantaggio…E’ triste dirlo, ma mi sono imbattuto anche in questo. E la sera, quando tornavo a casa, ero avvilito, intrattabile. La bomba è scoppiata anche nella mia anima. Mi dispiace anche per la mia ex moglie.
Il dolore inaridisce, rende egoisti. Io avevo perso mia madre, mio fratello, mio padre, mi sentivo continuamente in colpa per essere sopravissuto a loro: perciò dovevo anch’io pagare un prezzo, rovinarmi l’esistenza separandomi, cioè con un atto che mi avrebbe fatto vivere l’esperienza di un lutto, di una perdita, di un’assenza. Dovevo separarmi da mia moglie per pagare anch’io il mio tributo di infelicità. Dovevo infliggermi un’autopunizione: per avere la sensazione di un qualche benessere, dovevo autoprocurarmi situazioni di sofferenza. Questo meccanismo l’ho capito anche con l’aiuto di una persona che mi è stata particolarmente vicina e dopo parecchie sedute di analisi. Anni in cui ero ossessionato dalla colpa e maledicevo la tesi, la strategia della tensione, le associazioni delle vittime…Di nuovo non volevo saperne più nulla. Poi ho compreso che non si può pesare il dolore: quello che gli altri vivono per le cause più diverse non è un dolore a metà, il mio dolore non è superiore a quello di un altro essere che perde un proprio caro in un incidente stradale o per una malattia. C’era una presunzione nel mio dolore.
In questi anni di riflessione ho imparato a vedere le cose da punti di vista diversi, ho capito che la realtà è fatta di tante sfaccettature, non è mai tutto bianco o tutto nero. E così ho ammorbidito anche certi giudizi liquidatori sulle inchieste e sul ruolo dello Stato. C’erano magistrati competenti, altri che hanno utilizzato il processo per costruire carriere, e altri ancora che hanno creduto a tesi precostituite o a falsi pentimenti. Lo Stato, inteso come consenso espresso mediante libere istituzioni, nonostante i ritardi nell’approvazione delle leggi per le vittime e per i loro familiari, tutto sommato lo abbiamo avuto dalla nostra parte.
Anch’io, come Giovanni Pellegrino, mi sento di dire che nel complesso il saldo è positivo: se si tiene conto della gravità degli episodi che abbiamo vissuto, avremmo potuto ritrovarci sotto un governo militare, nel mezzo di una guerra civile dichiarata, e invece viviamo ancora in un paese democratico. Certo, il tributo è stato altissimo, sulla strada sono caduti poliziotti, carabinieri, magistrati e tanti cittadini, l’Italia – dopo la Colombia –ha il maggior numero di vittime, più di quattrocento morti e oltre mille feriti. Ma siamo ancora liberi, più liberi di prima.
Adesso resta ancora un attto da compiere, un atto che aiuti a ricomporre l’intero quadro aggiungendo i pezzi di verità mancanti e, al tempo stesso, porti a una riconciliazione. Per raggiungere questo doppio obiettivo, qualcuno ha proposto di adottare uno strumento simile a quello che i sudafricani hanno utilizzato per uscire dall’apartheid: la commissione, appunto, per la verità e la riconciliazione. In sostanza, come qualcuno ha detto, impunità in cambio di verità. Sono d’accordo. Chi sa deve parlare, deve dire tutto, fino in fondo, senza reticenze, qualunque sia oggi il suo ruolo: uomo di Stato, ex terrorista, dirigente dei servizi segreti, parlamentare, intellettuale, giornalista… Racconti tutto con sincerità. E lo Stato sia clemente, neutralizzi gli effetti penali delle confessioni. Chissà, oggi questo forse è l’unico modo… E’ vero, su tutti quegli anni, noi oggi non abbiamo una verità completa e soddisfacente. Perché molti delitti non hanno ancora un colpevole e non sono del tutto chiariti i livelli delle complicità, interne e internazionali. Ma dubito che, a tanti anni di distanza dai fatti, la riapertura delle inchieste possa portare a dei risultati: molte prove sono state cancellate, molti testimoni sono scomparsi o sono stati eliminati e chi sa non parla per paura di coinvolgere persone rimaste sempre nell’ombra. Perciò continuare a chiedere che la verità debba essere accertata per via giudiziaria, come fanno le associazioni delle vittime e dei loro familiari, mi sembra un esercizio inutile. E alla fine anche controproducente. Perché trasforma la mancata giustizia in un alibi per i professionisti della memoria, senza portare alla verità.
Personalmente, nel mio piccolo, sto già sperimentando il “modello sudafricano” attraverso un intenso rapporto epistolare con Vincenzo Vinciguerra, militante di Ordine Nuovo all’epoca di Piazza della Loggia. Si è autodefinito autore di un “atto di guerra contro lo Stato”, la strage di Peteano, in cui persero la vita tre carabinieri. L’ho conosciuto tramite un mio amico, che lo aveva intervistato nel carcere milanese di Opera per un film documentario sulla strage di Piazza della Loggia. Dopo quell’esperienza, gli ho scritto. Lui mi ha risposto: le sue lettere sono molto oneste.
Vinciguerra è l’unico ad essersi assunto la responsabilità di aver compiuto un attentato. Così, oggi, fra tutti “gli atti di guerra” contro lo Stato, come li definisce lui, quello di Peteano è l’unico ad avere una paternità certa. Lui ha deposto davanti ai magistrati e ha detto tutto quello che sapeva sulle complicità. Mi ha aiutato a capire. Lo rispetto. E ho la speranza che esca dal carcere. Fuori ce ne sono tanti altri che sanno e non parlano, che hanno commesso reati o hanno aiutato a commetterli o hanno protetto i colpevoli. Ma di loro non sapremo mai nulla, se lo Stato, con la sua clemenza, non li aiuterà a venire allo scoperto. Il perdono come mezzo per conoscere la verità, e la verità come condizione del perdono. Altrimenti, fra un secolo, saremo ancora qui, a interrogarci e a dividerci sui veleni di quegli anni. Io invece un giorno vorrei poter dire a mio fratello: “Gino, hai visto? Ho fatto come mi dicesti il giorno del nostro ultimo incontro sul binario alla stazione di Brescia: sono stato attento, sono stato attento. Ho usato la mia intelligenza per capire, e poi per riappacificarmi con il prossimo. Ora riposiamoci, se vuoi”.