Interessante approfondimento, oggi, su Repubblica degli affari russi di Berlusconi. In questo articolo di Peppe D’Avanzo anche il ruolo chiave di Antonio Fallico (vedi sul banchiere di Banca Intesa e il suo ruolo il mio post del 30 novembre):
“VALENTINO Valentini, fino a qualche anno fa, non parlava il russo: diciamo che lo balbettava…”, ricorda chi glielo ha sentito parlare a Villa Abamelek, la residenza dell’ambasciata russa a Roma. “Era il russo di un bambino ai primi anni della scuola elementare”. Eppure, nelle rivelazioni di WikiLeaks, sarebbe lui la shadowy figure, l’uomo ombra indicato dall’ambasciatore Spogli come intermediario d’affari di Silvio Berlusconi in Russia. Allevato da Publitalia, assistente del Cavaliere al parlamento europeo, deputato dal 2001, oggi segretario particolare del premier, Valentini si autodefinisce “consigliere speciale per le relazioni estere e tutor delle imprese italiane in Russia”. Ci hanno detto, appunto: “Per la conoscenza di quella lingua”. Che però – almeno fino al 2005 – non conosce.
Infatti, a palazzo Chigi ha lavorato in pianta stabile (in attesa che le performance di Valentini migliorassero) un interprete, l’armeno Ivan Melkumian, sempre presente negli incontri pubblici e privati del Cavaliere. C’è un primo arcano da sbrogliare, allora: perché, con una noiosa cerimonia a Villa Abamelek, Valentini è stato insignito proprio nel 2005 del prestigiosissimo ordine di Lomonosov con motivazioni che non sono mai state rese note? Quali sono i meriti che egli ha raccolto per la Russia di Putin? La domanda è intrigante anche perché è difficile trovare un capitano d’impresa attivo in Russia che abbia incontrato per motivi concretamente professionali Valentini o abbia soltanto avuto
eco delle sue attività a vantaggio delle imprese italiane. Alcuni italiani a Mosca – per dimostrare l’assoluta estraneità del segretario particolare del premier agli interessi della comunità italiana – raccontano come si svolgono le sue visite nella città degli zar. “Valentini sbarca in uno degli aeroporti di Mosca. Lo attende un’auto messa a disposizione da Antonio Fallico. E’ il presidente di Zao Banca Intesa (sussidiaria del gruppo Intesa San Paolo) e cugino di Marcello Dell’Utri o almeno così va dicendo da decenni. Valentini raggiunge l’albergo – il Metropol di fronte al Bolshoi in Teatralny Proiezd – o, in alternativa, direttamente il Cremlino da dove riemerge qualche ora o qualche giorno dopo per ripartire verso l’Italia. Nessuno lo vede. Nessuno lo incontra. Nessuno sa che cosa sia venuto a fare”. Tra quanti non lo sanno, ci sono anche gli americani. L’ambasciatore a Roma, Ronald Spogli, il 26 gennaio 2009, si chiede chi fosse davvero “l’uomo chiave di Berlusconi in Russia, che viaggia senza staff né segreteria diverse volte al mese. Non è chiaro cosa vada a fare a Mosca, ma ci sono pesanti indiscrezioni sul fatto che presidi gli interessi di Berlusconi in Russia”. Bisogna dunque seguire il filo dei soggiorni moscoviti di Valentini per saperne di più. E’ utile perché s’incontra un altro personaggio chiave degli imperscrutabili rapporti tra l’Italia di Berlusconi e la Russia di Putin: Antonio Fallico, una volta comunista, dal 1974 a Mosca dove lo chiamano “il professore” (titolo non usurpato, ha insegnato Letteratura barocca all’Università di Verona), anch’egli onorato il 21 aprile del 2008 da Putin con l'”Ordine dell’Amicizia dei Popoli”, la più alta decorazione statale russa riservata ai cittadini stranieri.
Fallico può essere raccontato in modo speculare a Valentini. Se Valentini è l’uomo di Berlusconi a Mosca, Fallico è l’uomo di Putin in Italia. Cura gli interessi economici della Russia e quindi soprattutto gli affari energetici che rappresentano il 70% delle esportazioni verso l’Italia. La Zao Banca Intesa, che presiede, ha il mandato di advisory della Gazprom, il colosso energetico controllato direttamente dallo Stato, per tutta l’attività italiana, dalla vendita di gas al progetto di metanodotto South Stream. “Il professore” ha rapporti diretti con il Cremlino, con il premierato di Putin, con la presidenza di Dmitri Medvedev. E’ console onorario della Russia a Verona (gli è stata concessa anche la possibilità di rilasciare visti). A Verona ha voluto che fosse inaugurata presto la sede della rappresentanza italiana della Gazprom. E’ l’italiano più potente di Mosca.
Se si riuscisse a rendere trasparenti – di Fallico – le attività e – di Valentini – le missioni al Cremlino si potrebbe comprendere presto quanto siano legittimi o scorretti i sospetti di Hillary Clinton sulla natura affaristica delle convergenze politiche tra Berlusconi e Putin. Non è l’unico enigma di questa storia, protetta quasi in ogni angolo e increspatura dal segreto. Segreto di Stato sono in Russia gli affari energetici (per chi sgarra c’è la pena di morte). Misteriosi sono gli effettivi proprietari della Centrex Group, società che vende in Europa occidentale il gas russo, la cui catena azionaria finisce in una palazzina di tre piani al 199 di via Arcivescovo Makarios III a Limassol, Cipro, senza una targa né una buca delle lettere. Commercial secret è il prezzo del metano che Eni corrisponde a Gazprom. Segreti i documenti dei giacimenti di Karachaganakh e Kashagan che Eni si rifiuta di esibire anche quando è chiamata a risponderne in tribunale. Impenetrabile è il segreto che protegge gli incontri di Berlusconi e Putin lungo il lago tra le colline di Valdai in Novgorod Oblast o a Punta Lada a Porto Rotondo, in Sardegna.
Se si vuole quindi verificare quanto “le scelte economiche e politiche dei due premier siano il frutto di comuni investimenti personali”, come chiede il segretario di Stato americano ai suoi ambasciatori, bisogna esaminare se le decisioni politiche siano state deformate da privatissimi interessi economici. C’è troppa gente in giro – nelle cancellerie, nei quartieri generali della finanza, nella comunità economica – che avverte nelle scelte di politica energetica dell’Italia un’alterazione equivoca. Eni era autonoma dal governo nazionale quasi fino all’arroganza. Oggi appare sottomessa al presidente del Consiglio. Agiva con aggressività e libertà sui mercati internazionali. Oggi mostra di subire vincoli a favore di Putin. E’ la prima deformazione. Ce n’è una seconda: Berlusconi trascura le relazioni europee e la tradizionale alleanza con Washington per rinchiudersi nell’eccentrica associazione con la Mosca di Vladimir Putin e la Tripoli di Mu’ammar Gheddafi. I “cable” del dipartimento di Stato sostengono che questo riposizionamento non abbia nulla di politico, ma sia soltanto business. “L’ambasciatore della Georgia a Roma – scrive Spogli – ci ha riferito che il suo governo ritiene che Putin abbia promesso a Berlusconi una percentuale su ogni pipeline sviluppata da Gazprom in coordinamento con l’Eni”. E ancora: “In Italia i partiti di opposizione e alcuni esponenti dello stesso Pdl credono che Berlusconi e i suoi intimi stiano approfittando personalmente e a mani basse dei molti accordi sull’energia con la Russia”.
Dunque Washington non crede a un’alternativa trasparente che innova la tradizionale politica estera del nostro paese. Dubita che, al fondo della storia, ci siano soltanto gli affari personali di Silvio Berlusconi. L’accusa è gravissima e non è stata provata. E’ un fatto che lo stato delle cose è custodito in un labirinto di segreti. Con l’aiuto di qualche persona informata dei fatti e alcuni testimoni diretti degli eventi, si può documentare però qualche coincidenza e più di un’incoerenza che dovrebbero convincere Berlusconi ed Eni a rompere il silenzio e a dare luce alle zone d’ombra. Ci sono perlomeno tre “casi” in cui si intravede, tra le opacità, una metamorfosi degli interessi nazionali.
1. Il biglietto del Cavaliere, dove si capisce a vantaggio di chi Berlusconi chiede un favore a Putin.
2. La “spartizione della refurtiva”, dove questa volta è Putin a chiedere un “aiutino” a Berlusconi che non rimarrà a mani vuote.
3. I misteri di Karachaganakh, dove si scopre che Eni rinuncia a una parte dei suoi profitti, non si sa a vantaggio di chi.
Sono “casi” che anticipano, come vedremo, un sorprendente finale e non riescono a nascondere una contraddizione: tutti gli affari che rendono sospettosa l’amministrazione di Washington sono stati approvati dal secondo governo Prodi. Tra il maggio 2006 e il maggio 2008, il governo di centrosinistra sottoscrive l’accordo che disciplina la fornitura di gas e le future collaborazioni nei giacimenti in Russia (14 novembre 2006); l’impegno per il gasdotto South Stream (23 giugno 2007); la disponibilità a “spogliare” la Yukos dei suoi asset (4 aprile 2007); i contratti per lo sfruttamento del giacimento di Karachaganakh (1 giugno 2007). Una stupefacente inabilità che oggi, col senno del poi, solleva qualche mugugno tra gli uomini del centrosinistra e la sensazione che alcuni risvolti si sarebbero dovuti curare in modo diverso. Meglio. Dice Pier Luigi Bersani, segretario del Pd e allora ministro dello Sviluppo Economico: “Premesso che dall’approvvigionamento del gas russo l’Italia non può prescindere, il governo Prodi adottò la strategia di spostare il quadro degli accordi energetici con la Russia in una dimensione europea. La differenza fondamentale tra il nostro approccio e quello di Berlusconi nei rapporti con Mosca è che noi operavamo sulla base di meccanismi trasparenti, non dei personalismi, delle relazioni particolari o della filosofia tipo ghe pensi mi”.
Il biglietto del Cavaliere
(dove si apprende come e a vantaggio di chi Berlusconi chiede un favore a Putin)
Prima che questo signore, Bruno Mentasti Granelli, settantenne finanziere lombardo, apparisse in scena soltanto uomini vicini a Silvio Berlusconi si erano messi in testa di lucrare larghi utili dalla commercializzazione in Italia del metano russo. Se si esclude il tentativo del figlio di un mafioso (Ciancimino), un primo progetto era stato preparato da Ubaldo Livolsi, consulente del premier, nel 1991 direttore finanziario e nel 1996 amministratore delegato di Fininvest Spa, consigliere d’amministrazione di Mediaset, Mondadori, Medusa…. Per farla corta, un berlusconiano di stretta osservanza. Inutile dire quanto berlusconiano sia Marcello Dell’Utri l’uomo che gli commissiona il piano e trova il tempo per scaldare l’attesa presentando, alla Casa dell’Amicizia di Mosca, Effetto Berlusconi, un libro confezionato in esclusiva per il mercato russo.
Con l’Eni di Mincato ancora autonoma dal governo, l’iniziativa di Livolsi e Dell’Utri va per aria. Dopo il fallimento del primo approccio berlusconiano al problema, compare dal nulla Bruno Mentasti già socio di Berlusconi nella pay-tv Telepiù e in quell’anno, 2003, un rentier dopo aver venduto alla Nestlé la San Pellegrino per trecento miliardi di vecchie lire.
Il nome di Mentasti salta fuori nella sera del 30 ottobre del 2003. Al Westin Palace di Milano c’è una cena di lavoro. E’ quasi un appuntamento di routine. Quattro persone intorno al tavolo: tre uomini di Eni e un alto dirigente di Gazprom. Si confrontano due ambizioni: Eni vuole prolungare di 25/30 anni i suoi contratti gas che scadono nel 2012; Gazprom aspira a fare utili non solo “a monte” producendo metano, ma anche “a valle” vendendolo e chiede di avere l’opportunità di commercializzarne in Italia attraverso una propria joint venture. L’Eni dovrebbe cedere 2-3 miliardi di metri cubi di metano all’anno dalle sue importazioni. “Abbiamo già un socio italiano, ecco il suo nome…”, dice il russo. Dalla tasca, l’alto dirigente di Gazprom estrae un fogliettino come se fosse una santa icona che da sola avrebbe spazzato via ogni dubbio profano. Sopra c’è scritto: “Mentasti”. Gli italiani cadono dalle nuvole. Quel nome non l’hanno mai sentito. Chi è? Il russo spiega: “Ma come non conoscete il patron della San Pellegrino?”. Gli italiani sorridono: “Anche se gassata, l’acqua ha poco a che fare con il gas, bisogna che qualcuno glielo spieghi a questo Mentasti…”. Il russo non ride, agita ancora il foglietto e dice: “Druzia, amici, ma davvero non riconoscete la grafia del vostro capo di governo?”. Quelli di Eni fingono di non capire e chiedono: “… ma questo biglietto con questa grafia chi te l’ha dato?”. Risposta: “Da dove volete che venga, dal Cremlino!”. A conferma che la faccenda è molto seria perché molto voluta da Putin, gli uomini di Eni vengono invitati a stringere le sedie intorno al tavolo per far posto a un altro convitato che attende un cenno nell’albergo dall’altra parte di piazza della Repubblica, il Principe di Savoia. L’uomo si chiama Alexander Ivanovic Medvedev, è un amico d’affari del professor Fallico, è stato come Vladimir Putin un colonnello del Kgb, oggi è il numero due di Gazprom. Che bisogno c’è di un intermediario se non per creare comode rendite finanziarie a oscuri fortunati? Dietro questa volontà di lucrare gli utili di un’intermediazione superflua e molto favorevole (la Centrex di Mentasti e soci misteriosi avrebbe guadagnato una somma stimata in 280-320 milioni di dollari l’anno per 15-20 anni) si scorgono nell’ordine: un comando di Putin; la volontà di Berlusconi; l’obbedienza “militare” dei gasisti russi; gli amici di Berlusconi in sospetto di essere soltanto prestanomi come Bruno Mentasti o addirittura di essere la testa d’ariete di Berlusconi, se è vero che quel foglietto (che potrebbe essere attualmente nelle mani di un uomo dell’Eni) è stato scritto di suo pugno dal Cavaliere.
Questo caso sollecita qualche domanda: Berlusconi ha discusso con Putin – e concesso a Mosca – l’ingresso di Gazprom nel mercato italiano? In cambio di che cosa? Perché Berlusconi individua Mentasti come uomo adatto per la nascente partnership? Qual era l’interesse nazionale che, in questo caso, il capo del governo ha rappresentato al Cremlino?
(1. continua) (08 dicembre 2010)