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Anna Foa al Congresso Ucei: l’Italia ha faticato a riconoscere gli ebrei

Al Congresso dell’Unione delle comunità ebraiche in Italia che si è aperto a Roma (5-8 dicembre 2010) Anna Foa dell’Università La Sapienza ha fatto il “punto” con questa sua bella relazione sulla presenza degli ebrei nella storia italiana dal Risorgimento ad oggi. Ricordando tra l’altro che  in questa Italia del dopoguerra, nonostante i grandi sacrifici subiti, non è successo che “l’appartenenza nazionale degli ebrei abbia trovato un rapido riconoscimento…”.

Anna Foa ha fatto questa prolusione , subito dopo il saluto del presidente Renzo Gattegna, di fronte al Presidente della repubblica Giorgio Napolitano:

“Che forte e intensa sia stata l’identificazione della minoranza ebraica

italiana con il processo di costruzione dello Stato unitario, è cosa nota.

Consapevoli che ogni speranza di emancipazione, negata loro

ostinatamente dai governi dell’antico regime, poteva venire solo dai

“novatori”, gli ebrei italiani partecipano all’attività cospirativa mazziniana,

ai moti del 1820-21 e del 1830-31, alla Repubblica romana del 1848, per

la cui difesa versano il sangue, alle guerre del Risorgimento, alla presa di

Roma il 20 settembre 1870, in cui fu, com’è noto, un ufficiale ebreo

piemontese a dare l’ordine di aprire il fuoco. Ma l’emancipazione,

ottenuta insieme con i valdesi dagli ebrei piemontesi nel 1848, e poi dagli

ebrei degli altri Stati italiani man mano che si compiva il processo di

unificazione, non fu soltanto una svolta radicale nel percorso delle

comunità ebraiche che popolavano la penisola. Essa fu anche e

soprattutto un momento qualificante della costruzione del nuovo Stato

italiano, e lungi dal rappresentarne una sorta di conseguenza marginale,

ne segnò profondamente il percorso, divenendone, con il connesso

principio della tolleranza di tutti i culti religiosi e poi con quello

dell’uguaglianza dei culti di fronte alla legge, uno dei pilastri basilari. Non

è un caso che in quei decenni al Risorgimento italiano guardassero gli

ebrei d’Europa, come Moses Hess che nel 1861 dalla Germania, nel suo

Roma e Gerusalemme, si ispirava alla costruzione nazionale italiana per

elaborare il progetto di un Risorgimento ebraico. Nello stesso spirito, nel

1918, Dante Lattes avrebbe definito l’irredentismo il sionismo d’Italia e il

sionismo l’irredentismo d’Israele. L’accento di entrambi è sulla

caratterizzazione del processo di emancipazione ebraica come adesione

alla patria italiana. Una vera e propria “nazionalizzazione parallela” degli

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ebrei e degli altri italiani, come dirà Arnaldo Momigliano in una pagina

famosa del 1933: “la formazione della coscienza nazionale italiana negli

ebrei è parallela alla formazione della coscienza nazionale nei piemontesi

o nei napoletani o nei siciliani: è un momento dello stesso percorso e vale

a caratterizzarlo”.

Molteplici e complesse sono le origini di questo stretto intreccio tra i due

movimenti e dell’identificazione degli ebrei con lo Stato italiano. Una di

esse, la più remota e di lungo periodo, è certamente il profondo

radicamento del mondo ebraico italiano, il fatto che dall’antichità romana

in poi gli ebrei d’Italia, o almeno una gran parte di essi, restassero “cives

romani”, sia pure di seconda categoria. In una notevole parte dell’Italia, in

sostanza quella che non ricade sotto l’orbita spagnola, gli ebrei

continuano ad esser presenti nei secoli della prima età moderna, e questo

proprio nel momento in cui sono invece stati cacciati da quasi tutti gli

Stati europei ansiosi di legittimare con l’uniformità religiosa quella

politica e nazionale. Un processo di stabilizzazione questo che si realizza

in Italia, di cui in questi secoli e ancora fino alla secolarizzazione

settecentesca la Chiesa, lungi dall’essere estranea, è parte promotrice ed

integrante: la presenza ebraica non è mai rimessa in discussione, sia pur

nei limiti di una presenza sminuita e discriminata, e a partire dal

Cinquecento rinchiusa nello spazio controllato e separato del ghetto.

Un’altra motivazione è più vicina e immediata, e risiede nella natura

stessa del Risorgimento italiano e della cultura che lo permea: lontana,

almeno nei primi decenni, dalle chiusure nazionalistiche che

caratterizzano paesi come la Francia o la Germania, aperta ad una visione

più ampia e cosmopolita, di impronta mazziniana, ostile alla Chiesa per

motivi sia politici, il suo essere ostacolo primo al processo unitario, che

ideologici, il rifiuto da parte della Chiesa della tolleranza religiosa, della

modernità, della pluralità dei culti, su cui invece si costruisce, a partire dal

1848, la giovane nazione italiana. Per questo l’assimilazione degli ebrei

italiani in questo momento storico, fu un’assimilazione “ad un sistema di

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valori, piuttosto che ad un popolo, ad una nazione fisicamente costituita,

ad una lingua”, come ben è stato detto da Francesca Sofia. Un sistema di

valori che consentiva al mondo ebraico, intriso in questo momento di

istanze liberali universalistiche, di potersi identificare con la nazione senza

dover rinunciare ai propri valori , o almeno senza dover cedere troppo di

essi nell’incontro con l’esterno. Così, un rabbino mantovano di questi

anni, Marco Mortara, poteva nel 1873 collegare le idee di nazionalità

politica, e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo in cui ne coglieva l’origine,

alle dottrine bibliche conservate dall’ebraismo nei secoli e alle aspirazioni

messianiche del mondo ebraico. Un’intima assonanza culturale ed ideale,

insomma, fra ebrei e unità d’Italia.

E dopo il 1870 un’integrazione sostanzialmente rapida, segnata solo da

pochi, insignificanti episodi di “antisemitismo liberale”, mentre

l’antisemitismo politico prendeva piede negli altri paesi europei, in

Francia, in Germania, in Austria, ostacolando l’integrazione del mondo

ebraico. Un’assenza di antisemitismo, da parte del nuovo Stato uscito dal

Risorgimento, fondata anche nella nuova ostilità antiebraica della Chiesa

dopo la perdita dello Stato temporale, che spinge il mondo politico

italiano a stringersi a difesa delle libertà delle sue minoranze e a

caratterizzare decisamente in senso liberale la sua politica religiosa.

Questa armoniosa integrazione fra valori ebraici e italiani che caratterizza

la storia del nostro paese fra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del

Novecento è destinata tuttavia a mutare a partire dagli anni della guerra

di Libia, con l’affermarsi di un nazionalismo sempre più aggressivo. La

prima guerra mondiale e ancor più l’avvento del fascismo trasformano in

profondità la natura dello Stato risorgimentale e rimettono in discussione

il senso che gli ebrei italiani conferiscono alla loro identificazione

nazionale. Per gli ebrei italiani, si tratta ora non più di condividere i valori

e le idealità del processo di costruzione nazionale, ma di compensare con

il sangue e il patriottismo la concessione dell’uguaglianza. Di ribadire, di

fatto, l’appartenenza alla nazione, di mostrarsi italiani. Di conseguenza,

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nel momento in cui per gli italiani, e fra loro anche per gli ebrei italiani,

l’adesione alla patria si identifica ormai con quella al regime fascista, gli

ebrei italiani diventano fascisti. Come gli altri italiani, nella stessa

proporzione degli altri italiani.

Certo, il quadro del consenso ebraico al regime presenta incrinature non

da poco. La prima, è determinata dal fatto che nel 1931, all’imposizione

del giuramento di fedeltà al fascismo ai docenti universitari, ben sei dei

quattordici professori ordinari che rifiutarono il giuramento erano ebrei,

una proporzione enorme rispetto al numero degli ebrei italiani e anche

rispetto alla proporzione di ebrei fra i docenti universitari. Inoltre, forte fu

la presenza di ebrei nel movimento antifascista. Non a caso, il primo

attacco del regime agli ebrei in quanto antifascisti, ma con una notevole

enfasi sull’ebraicità, si manifestò dopo i primi arresti di Giustizia e Libertà,

nel 1934 e poi ancora nel 1935, che colpirono moltissimi ebrei torinesi,

tutti impegnati nell’attività antifascista clandestina. E ancora, non

dobbiamo dimenticare che, a rendere difficile il rapporto tra il fascismo e

l’ebraismo italiano venne nel 1937 la campagna antisionista iniziata dal

regime, con l’identificazione fra sionismo ed antifascismo, che aprì la

strada a persecuzioni e vessazioni contro il piccolo gruppo di sionisti

italiani. Ostile in egual misura all’antifascismo e al sionismo fu fra l’altro,

non possiamo tacerlo, il gruppo fascista torinese guidato da Ettore

Ovazza, il creatore del giornale ebraico fascista, La Nostra Bandiera e

l’ideatore, nel 1938, dell’attacco squadristico alla rivista “Israel”, a

Firenze.

A rompere drammaticamente l’identificazione ebraica con l’Italia fascista

furono le leggi razziste del 1938, che non rappresentarono soltanto l’inizio

della persecuzione della piccola minoranza ebraica – uno su mille – ma

anche e soprattutto una rottura fortissima nella continuità dello Stato

italiano, l’introduzione, per la prima volta nella sua sia pur breve storia, di

una discriminazione tra cittadini che segnava la fine dei principi base dello

Stato nato nel processo unitario. Le leggi razziste, insomma, portarono a

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compimento quello che anche la svolta del 1925, con l’abolizione della

democrazia parlamentare, non aveva portato a termine, la distruzione del

progetto risorgimentale. “Il regime, scrive Michele Sarfatti, incise sulla

cronologia storica dell’Italia unita, determinando, dopo la cessazione della

democrazia, la cessazione dell’intera vicenda storico-nazionale avviatasi

con il Risorgimento”.

Una rottura radicale, di cui la maggior parte degli ebrei che avevano

aderito al fascismo non riuscirono allora – e come avrebbero potuto? – a

cogliere l’origine e il senso, come dimostrano, reperto straziante, le

medaglie al valor militare guadagnate nella prima guerra mondiale e i

ritratti dei caduti che molti ebrei deportati portano con sé nei campi, ora

in mostra nella vetrina dedicata agli ebrei italiani a Yad Vashem a

Gerusalemme.

Ma le leggi razziste non rappresentarono la fine di quel lungo processo

iniziato con l’uguaglianza introdotta dall’esercito napoleonico. Gli ebrei

italiani furono fortemente presenti nella Resistenza, un’adesione tanto

più significativa se si pensa che essi erano in quel momento alla macchia,

braccati da nazisti e fascisti di Salò, vittime di un processo di sterminio

senza precedenti. Come non fare il nome del più giovane partigiano

d’Italia, Franco Cesana, caduto in combattimento a quattordici anni, o

quello di Emanuele Artom, torturato ed assassinato a Torino? E come non

ricordare il piccolo gruppo di giovani unitisi alla lotta partigiana in Val

d’Aosta, e poi deportati ad Auschwitz, dopo aver deciso di

autodenunciarsi ai loro carcerieri come ebrei per sfuggire alla fucilazione

immediata come partigiani, un gruppo a cui è ora dedicata una mostra al

Quirinale da Lei, Presidente Napolitano, recentemente visitata. Fra loro,

Primo Levi, colui che più di ogni altro ha saputo nei suoi scritti ricordare e

trasmettere alle generazioni la memoria della Shoah. E quella adesione

alla Resistenza aveva forse anche il significato di riannodare il legame

interrotto con il Risorgimento, riaffermare la propria appartenenza allo

Stato italiano, contribuendo a trasformare quello Stato e a riportarlo alle

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sue radici ideali. Uno spirito in cui il richiamo al Risorgimento è intimo e

stretto, certo non occasionale.

Nella nuova Italia del dopoguerra, tuttavia, non si ha l’impressione che il

senso di questa lotta, di questa adesione ad una patria rinnovata e

trasformata, sia stato recepito e compreso immediatamente, che

l’appartenenza nazionale degli ebrei abbia trovato un rapido

riconoscimento. Molte, troppe testimonianze ci riportano, dopo il 1945,

ad un’immagine del mondo ebraico italiano come sostanzialmente

estraneo alla nazione e alla sua storia, mostrando che la propaganda

razzista del 1938 aveva agito più in profondità di quanto non pensiamo, di

quanto coloro stessi che ne erano suggestionati non credessero. Certo, il

contesto culturale e politico di quegli anni, in cui il paese era ancora

percorso dai profughi, da quelle displaced persons che si imbarcavano

dall’Italia verso la terra di Israele, la stessa nascita di una Patria degli ebrei

diversa da quella italiana, a cui non pochi ebrei italiani si volsero, e a cui

tutti si ispirarono, possono aver contribuito a questo fraintendimento. La

mancata comprensione, cioè, dello stretto nesso esistente, fin dalle

origini, fra la nascita dell’Italia unita, i suoi principi ispiratori liberali e

democratici, e la presenza di minoranze e in particolare di una minoranza

piccola ma altamente significativa quale quella ebraica. Solo dopo molti

decenni, e dopo l’inizio di una riflessione autentica sulle leggi del 1938 e

sul loro senso per l’Italia tutta, si sarebbe potuto nuovamente riconoscere

il ruolo fondante per la patria italiana di quegli ebrei che da duemila anni

di quella Italia, unita o spezzettata che fosse, sono stati parte integrante

e costitutiva, al cui patrimonio ideale e culturale hanno dato un apporto

essenziale e ininterrotto”.

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