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Terzo giorno sulla gru per Harun, Rachid e gli altri quattro immigrati di Brescia

Harun, Rachid e gli altri quattro immigrati. In cima a una gru del cantiere della metropolitana a Brescia, a 35 metri di altezza. Alle 16 di oggi martedì sono tre giorni che sono  lì. Alle 23 padre TOffari annuncia che la Prefettura manderà un rappresentante. Ma la protesta prosegjue. Dall’alto la voce di Arun dice: “Noi andiamo fin o in fonfdo”.

Nel semidisingteresse generale, in una città che vangta un v icesindaco leghista, la protesta è iniziata con nove immigrati, poi per ragioni di spazio e di salute, il gruppo si è ridotto a cinque, infine è ridsalito a sei: due pachistani, un  indiano,un  senegalese,  un egiziano e un marocchino. V

Vogliono ottenere i permessi di soggiorno, la protesta è seguita a livello nazionale – nopnostanyte la sostanziale latitanza dei media – da migliaia di immigrati con lo stesso problema. Un tam tam.

A sostegno si è registrato un intervento della Curia bresciana, che ha precisato: “«Siamo contrari — è scritto in una nota della Curia — ad azioni fuori legge. Detto questo, ci sono elementi per garantire a questi immigrati un riascolto istituzionale. Chi lavorava in nero non ha potuto che piegarsi al ricatto di chi, bresciani ed extracomunitari, dietro pagamento, ha dichiarato false assunzioni per la sanatoria».

«Da qui non scendiamo più e inizia lo sciopero della fame». La protesta va avanti nel cantiere della metropolitana di via San Faustino. Sotto un presidio permanente di altri immigrati. Vogliono essere regolarizzati perché ritengono «d’essere stati fregati» e ieri sera hanno annunciato l’intenzione di rinunciare al cibo. «Non abbiamo più nulla da perdere, ci hanno già fregato tutto», ha detto Harun, pachistano, 24 anni, uno dei 5 della gru. E per l’intera giornata lui e gli altri si erano cibati solo di qualche dattero, un po’ di caffè, null’altro. «Non possono non mangiare in quelle condizioni», dicono i volontari di “Diritti per tutti”, l’associazione che sostiene la protesta. E l’intenzione era quindi quella di convincerli a desistere. Ma loro: «Vogliamo il permesso. Non possiamo curarci in ospedale — ha detto Harun al cellulare —, non possiamo tornare a casa perché non ci lascerebbero rientrare in Italia. Non scendiamo finché non ce lo danno».

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