Cile e dintorni. Pubblico questa appassionata segnalazione di appassionate recensioni del film “Post mortem” fatta da Alessandro Smerilli e pubblicata su Facewbook.
Mentre a Brescia, tra il disinteresse generale, è alle ultime battute il processo per la strage del 28 maggio 1974, che Adriano Sofri ha definito autopsia di uno Stato, gira semiignorato per le sale cinematografiche (poche), un film capolavoro di un giovane regista cileno che descrive un’altra autopsia, quella del Cile post 11 settembre 1973.
Qui sotto l’appassionata recensione di Stefano Zenni :
http://www.comingsoon.it/Film/Scheda/Video/?key=48222
Post mortem, di Pablo Larrain (Cile, 2010), 5 v.o. con sott. ita. Bologna, Cinema Odeon, sala D
Sentite questa. Vivo nella civile Toscana, ma in tutta questa enorme regione, con centinaia di migliaia di abitanti, non c’è *un* solo cinema che abbia in programmazione uno dei film più importanti dell’anno, vincitore morale di Venezia 2010, 4 stelle sul Sole 24 Ore, film della settimana anche per il sito mainstream e conformista Trovacinema. Ho scritto al distributore, la meritoria Archibald, e mi hanno confermato che non hanno trovato uno straccio di sala in tutta la regione. Io e Marzia abbiamo dovuto prendere il treno, 1h20′ di viaggio e andare nell’unico cinema di Bologna. E lì sono rimasto impietrito davanti a questo capolavoro. Per inciso, viva la Archibald che, puntando a un pubblico di nicchia, ha lasciato il film in originale con i sottotitoli.
Chi ha visto “Tony Manero” di Larrain non avrà dimenticato lo sguardo impietoso e crudele di questo giovane regista cileno. Qui andiamo oltre: qui si entra nel corpo morto. Mario è un funzionario dell’obitorio. Un uomo piccolo e squallido – ancora il memorabile Alfredo Castro – un piccolo borghese nella Santiago primi anni Settanta, a pochi giorni dal golpe. Si innamora di una vicina, e si ritrova nel mezzo dell’autopsia di un intero paese, che verrà murato vivo in un finale sconvolgente, che ha la forza di una installazione di arte povera virata verso la crudeltà.La cosa sconvolgente è che Larrain ha girato in 16 millimetri e poi ha stragonfiato le immagini, o forse addirittura in super8. Il film è così avvolto da una insostenibile nebbia di pixel, una grana che trasforma tutti in fantasmi, in morti viventi. Mario è un pesciolino squallido e crudele, un uomo che è al tempo stesso integrato nel sistema e però fuori da esso, destinato a essere l’ultimo (cfr la macchina da scrivere elettrica). E come tutti i “conformisti”, va oltre sé stesso, si supera nell’incredibile finale, per rimanere nel sistema. Egli trascrive referti autoptici e si trova a proprio agio tra le montagne, spaventose, di cadaveri del golpe. Lui è il carretto fantasma (il capolavoro di Sjostrom del 1917), lui è forse un camaleonte sociale – guardatelo come scivola dietro le quinte del teatro, all’inizio, in una sequenza che toglie il fiato; o come affronta il piccolo pappone del teatro; o come piange con Nancy. Già, Nancy, come posso parlarvene senza rovinarvi la visione? C’è una donna, ci sono delle uova, c’è una scena di pianto e una di sesso. La scena di pianto è una delle più pazzesche che abbia mai visto: la perfezione e al tempo stesso l’inesplicabile perché. Perché anche lui piange? ne ha motivo forse, ma piange per legarsi a lei. Sembra di vedere la chimica al lavoro, e quando fa sesso, sembra di vedere l’anatomopatologo al lavoro su un dettaglio, il collo.Larrain sporca l’immagine ma ha un occhio pazzesco: quando Mario arriva nel camerino del teatro, il primo piano di Nancy è degno di Dreyer; la sequenza al ristorante cinese potrebbe averla girata De Oliveir; e solo Bunel avrebbe potuto concentrarsi su quell’uovo fritto. E mano a mano che il film affonda nell’orrore le simmetrie di sfaldano, l’ordine visivo si sgretola fino al caos degli oggetti con la macchina fissa. Intanto la sceneggiatura tesse richiami, simmetrie, allusioni a cui ci aggrappiamo nello smarrimento morale e esistenziale.Un film immenso, con attori immensi (Alfredo Castro e Antonia Zegers non vinceranno mai un Oscar). Mi chiedo se non sia un bene che nessuno l’abbia premiato. Tarantino ha una vision troppo ludica del cinema per toccare anche solo con le pinze questo affondo nel cadavere, che sia di una donna o di una nazione. perché Larrain racconta di come un paese si è gettato nella morte a occhi aperti, di come si sia consegnato alla carneficina e per amore ne sia diventato complice. Suicidandosi dietro a una montagna di oggetti abbandonati per poter reiterare all’infinito l’autopsia di sé stessi. Che questo film sia stato girato nel 2010 lo rende paurosamente inquietante.Stefano
P.S. Vedendolo ho pensato a Pasolini, per la capacità profetica, per la capacità unica di raccontare destini individuali e sociali, per la superiore bellezza artistica, che mozza il fiato, della visione (e ho pensato anche a un Fassbinder di oggi). Visione che qui non è atto di redenzione artistica, ma testimonianza palpabile della morte. Esci dal cinema con un macigno sul petto: post mortem siamo noi. Inseguite *al cinema* questo capolavoro dove possibile.