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I campi di Mussolini. L’intervento di Pavia al convegno contro il revisionismo storico

Oggi all’Urban Center di via Niccolò Odero, a Garbatella, dalle 17 in poi, nel convegno contro il revisionismo storico Aldo Pavia dell’Aned proporrà una ricerca significativa sulle responsabilità del fascismo, quella sui campi di internamento, smistamento e di deportazione che furono allestiti in Italia sotto Mussolini. Un centinaio di strutture, è la risposta della ricerca molto documentata. Una cifra davvero consistente che mostra la capillarità della persecuzione nazifascista.

Anticipiamo qui una sintesi dell’intervento di Aldo Pavia:

Quanti campi di concentramento ci sono stati in Italia sotto il fascismo? Chi ricorda più che a Roma, dentro Cinecittà, ne fu allestito uno di raccolta in cui furono portati i rastrellati del Quadraro?
In genere quando si citano i campi di concentramento e di smistamento si ricordano quelli di Fossoli (Modena) o di Bolzano, di transito, o tutt’al più quello di Ferramonti di Tarsia in Calabria.
In realtà i campi di concentramento furono in Italia oltre un centinaio e cominciarono ad operare dal 1939, quando a Pisticci in Basilicata fu istituito il primo con questa precisa denominazione. Fino ad allora gli oppositori erano stati inviati al confino, una misura inaugurata nel 1926.
Nel 1939 venne messo in funzione il primo campo di concentramento, definito tale, a Pisticci (Matera), ove venne internato il principe Filippo Doria Pamphili, primo sindaco di Roma dopo la liberazione. Secondo quanto testimoniato dal capo dell’Ovra, Guido Leto, era nelle intenzioni di Mussolini fare di Pisticci una colonia tesa al recupero degli antifascisti attraverso il lavoro. E’ da notare l’analogia con quanto veniva sostenuto dai nazisti che definivano i loro lager luoghi di riabilitazione attraverso il lavoro. D’altro canto, nell’aprile 1936, il commissario di pubblica sicurezza Tommaso Petrillo aveva visitato il campo di concentramento nazista di Dachau e nel 1938 Guido Landra e Lino Businco, responsabili dell’Ufficio studi sulla Razza erano stati al KL Sachsenhausen. Sarà nel giugno 1940 che Reinhard Heydrich, responsabile della sicurezza del Reich, farà avere al capo della polizia italiana, Arturo Bocchini, il “regolamento” dei campi nazisti, offrendosi anche di ricevere una delegazione italiana, per una serie di contatti “tecnici”.
Al momento dell’entrata in guerra anche l’Italia ricorse definitivamente a misure di internamento, istituendo campi di concentramento, seppure con definizioni di mascheramento, destinati a “ebrei stranieri” ed a altri stranieri, a vario titolo reclusi.
Gestiti dal Ministero degli interni, dovevano, come in precedenza i luoghi di confino, essere situati in edifici abbandonati o non utilizzati, lontani da zone militari e dai porti, dalle strade importanti e dalle linee ferroviarie, dagli aeroporti e dalle fabbriche di armamenti. Furono di fatto insediati in edifici fatiscenti e degradati, per la maggior parte senza locali per lavarsi e gabinetti, infestati da parassiti e topi. Il riscaldamento spesso inesistente, scarsa o mancante l’acqua potabile, debole l’illuminazione e l’erogazione di energia elettrica. Ad ogni internato, in situazioni di perdurante affollamento, veniva dato in dotazione: una branda, un sottile materasso, un cuscino con federa, due lenzuoli e un massimo di due coperte. Una sedia o uno sgabello, una gruccia per gli abiti, due asciugamani, una bacinella, una bottiglia ed un bicchiere. Tutto ciò nei primi tempi. Poi tutto andò peggiorando, con il peggiorare degli eventi bellici, in situazioni sempre più assolutamente umilianti.
Nei campi furono rinchiusi inglesi, sloveni, anglo-libici, tedeschi,austriaci, cecoslovacchi, ebrei fiumani, polacchi, greci, francesi, jugoslavi, sovietici, apolidi, zingari, italiani e persino marinai e commercianti cinesi, in osservanza delle leggi razziste del 1938 e per altri “motivi di sicurezza”.
Vennero istituiti “campi esclusivamente femminili: Pollenza, Treia, Petriolo (Macerata); Casacalenda, Vinchiaturo (Campobasso); Lanciano (Chieti); Solofra (Avellino). Verso la fine del 1940 risultavano recluse circa 260 donne, tra le quali 62 ebree straniere.
Furono “campi di concentramento maschili: Fabriano, Sassoferrato (Ancona); Ariano Irpino, Monteforte Irpino, Campagna (Salerno); Civitella del Tronto, Corropoli, Isola del Gran Sasso, Notaresco, Tortoreto, Tossicia, Neretto, Tollo (Teramo); Agnone,  Bioano, Isernia (Campobasso); Casoli, Lama dei Peligni, Istonio (Chieti); Alberobello, Gioia del Colle (Bari); Manfredonia, Tremiti (Foggia); Urbisaglia (Macerata); Civitella della Chiana (Arezzo); Bagno a Ripoli, Montalbano (Firenze); Farfa Sabina (Rieti); Scipione di Salsomaggiore, Montechiarugolo (Parma); Lanciano (Chieti) dal febbraio 1942, Colfiorito di Foligno (Perugia), Castel di Guido (Roma), Fraschette di Alatri (Frosinone), Città Sant’Angelo (Pescara), Pisticci (Matera), Ferramonti di Tarsia (Cosenza), Lipari (Messina), Ustica (Palermo), Fertilia (Sassari).
Alcuni di questi campi – situati nel Centro-Nord – vennero riaperti nell’ottobre 1943 ed utilizzati, con altri, come “campi di raccolta provinciali per gli ebrei italiani” fino al gennaio 1944. Oltre a quelli sopra citati: Aosta, Calvari di Chiavari, Ferrara, Forlì, Roccatederighi (Grosseto), Vo’ Vecchio (Padova), Sondrio, Verona, Piani di Tonezza (Vicenza), Ponticelli Terme (Parma), Servigliano (Ascoli Piceno), Bagni di Lucca (Lucca), Sforzacosta.
Vi erano anche luoghi deputati al cosiddetto “internamento libero”, ovvero al soggiorno obbligato con una notevole limitazione della libertà personale, che prevedeva la proibizione di ogni contatto con gli abitanti del luogo di internamento e l’obbligo di presentarsi giornalmente alla stazione di polizia o dei carabinieri. Pochi sono i dati disponibili, tuttavia si è a conoscenza che da questa forma di internamento furono interessati i comuni e le province di: Vicenza, Bergamo; Belluno; Lucca, L’Aquila, Grosseto, Viterbo, Treviso, Asti, Aosta, Parma, Modena, Chieti, Novara, Pavia, Potenza, Sondrio. Nel marzo 1941 risultavano in internamento, in quanto “stranieri nemici”: 414 inglesi, 316 francesi, 136 greci. Altri stranieri erano stati avviati nei campi di concentramento. Nel maggio 1943 risultavano ristrette in internamento libero circa 1.800 persone: donne, bambini, uomini.
Altri campi vennero ubicati in Italia, ovvero quelli per gli “ex jugoslavi”, i civili abitanti i territori occupati militarmente dall’Esercito italiano e annessi all’It
alia.
Questi campi vennero aperti soprattutto nella Venezia Giulia (Cighino, Gonars, Visco), nel Veneto (Monigo di Treviso, Chiesanuova, in provincia di Padova), in Toscana ( Renicci di Anghiari), in Umbria (Colfiorito). Tutti alle dipendenze del Ministero dell’interno. Campi di lavoro furono organizzati a Fossalon (Venezia Giulia), Pietrafitta e Ruscio (Umbria), Fertilia (Sassari).
Furono attivati anche appositi campi per gli “allogeni”, ovvero per gli appartenenti a  minoranze etniche o/e linguistiche presenti sul territorio italiano dopo le annessioni successive alla Prima guerra mondiale, quasi totalmente presenti nella Venezia Giulia e nel Sud Tirolo. Si trattava di minoranze – complessivamente circa il 2% della popolazione italiana – composte da: albanesi, francesi, sloveni, tedeschi, croati, catalani, ladini.  Per loro i campi furono istituiti a Cairo Montenotte (Savona), Fossalon (Gorizia), Poggio Terzarmata (Gorizia).
Il campo di Cairo Montenotte fu utilizzato, dopo essere stato svuotato dai prigionieri di guerra nel febbraio 1943, per internarvi sloveni e croati divenuti, per “annessione”,  cittadini italiani. Dall’Istria e dalle province di Udine, Gorizia, Trieste, Fiume e Pola arrivarono, in breve tempo, circa 1.400 deportati e fino al settembre 1943 furono 20 i trasporti che raggiunsero Cairo Montenotte. Il primo partì da Trieste il 28 febbraio 1943, con 150 uomini e 44 donne. Alcuni prigionieri vennero impiegati nella realizzazione dei canali di scolo della fabbrica della Montecatini, situata nelle vicinanze del campo. Altri lavorarono come operai nella fabbrica stessa. L’8 settembre 1943, il comandante del campo non liberò subito i 1.260 prigionieri e ciò permise ai nazisti di impadronirsene. L’8 ottobre organizzarono un trasporto di 30 carri bestiame e deportarono quasi tutti i prigionieri, che arrivarono al KL Mauthausen il 12 ottobre, poi, il giorno successivo, inviati nell’AussenKommando di Gusen. Dove 990 furono immatricolati, tutti come italiani.
Infine, vennero costituiti campi di concentramento nei territori jugoslavi occupati in seguito all’aggressione nazifascista del 6 aprile 1941. In questi territori l’esercito italiano mise in atto azioni repressive e intimidatorie di particolare violenza, come l’incendio di interi villaggi, la fucilazione di ostaggi civili e la deportazione in appositi campi di concentramento per slavi, gestiti per la maggior parte dal Regio Esercito.[1] Ove, in condizioni spesso disumane, trovarono la morte alcune migliaia di persone, tra cui moltissimi bambini. A Melada (Zara) in Dalmazia, il 29 giugno 1942 arrivò il primo trasporto, composto da 76 uomini, 103 donne e 44 bambini. In breve, le presenze nel campo salirono a 1.320 persone. In data 15 agosto 1942 erano rinchiusi nel campo 1.021 donne, 866 uomini e 450 bambini, di cui 10 nati nel campo. Molti dei prigionieri vennero via via trasferiti in Italia, alle Fraschette di Alatri in particolare. Il maggior numero di presenze si registrò, al netto dei trasferimenti, il 29 dicembre 1942 con 2.400 prigionieri. Il campo cessò la sua attività il 9 settembre ‘43. Le stime dei ricercatori e degli storici valutano in circa 10.000 il totale dei prigionieri passati per Melada.  Altri campi a Mamula e Prevlaka, nel Cattaro, a Zlarino (Zara) e ad  Arbe (Rab).

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