Riprendo da alcuni resoconti di Bresciaoggi, unico quotidiano italiano che segue con costanza il processo, alcune delle più importanti udienze passate. Riguardano il capitano Delfino, gli estremisti di destra Fumagalli, Esposti, Buzzi…
LA STRAGE. Dopo la pausa estiva domani tornano davanti alla corte d’assise i cinque imputati accusati dell’attentato del 28 maggio 1974 costato la vita a otto persone
Piazza Loggia, riprende il processo
Wilma Petenzi
In aula Carlo Fumagalli del Mar, l’ex partigiano che voleva «liberare» l’Italia armando la Valtellina
· Mercoledì 16 Settembre 2009
· CRONACA,
· pagina 9
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Il procuratore Roberto Di Martino (da sinistra), il pm Francesco Piantoni e il presidente Enrico …
Riprende domani, terminata la pausa estiva, il processo per la strage di piazza della Loggia. A rispondere dell’attentato del 28 maggio 1974 che costò la vita a otto persone, davanti alla corte d’assise presieduta da Enrico Fischetti (a latere Antonio Minervini), ci sono cinque imputati. Rispondono di concorso in strage Delfo Zorzi, ordinovista veneto che vive in Giappone, Carlo Maria Maggi, medico mestrino con funzioni organizzative e direttive in Ordine Nuovo, Maurizio Tramonte, collaboratore dei servizi segreti, noto come «Fonte Tritone»,collaboratore pentito, Francesco Delfino, ex generale dei carabinieri e Pino Rauti, padre storico di Ordine Nuovo. Gli imputati si sono ridotti a cinque a luglio, dopo la morte di Gianni Maifredi, l’uomo di Delfino, infiltrato nel Mar di Carlo Fumagalli.
IL PROCESSO, inziato il 25 novembre dello scorso anno, riprende dopo 52 udienze e l’audizione di centinaia di testi chiamati dall’accusa, il procuratore Roberto Di Martino e il sostituto procuratore.
Il processo riprende con l’escussione proprio di Carlo Fumagalli, l’ex partigiano che voleva liberare l’Italia partendo dalla Valtellina. Fumagalli dovrebbe essere in aula domani mattina. Già processato per il Mar, Fumagalli potrà raccontare dei suoi eventuali rapporti con Maifredi, del legame con i giovani Giorgio Spedini e Kim Borromeo, già sentiti nel corso del processo, arrestati il 19 marzo del 1974 a Sonico con cinquanta chili di esplosivo nel baule di una Fiat 128. Per i due l’arresto fu una trappola tesa da Delfino, mentre l’esplosivo, secondo l’accusa non c’è alcun dubbio, venne procurato da Maifredi.
NELL’UDIENZA di domani verranno prodotti anche i verbali di quattrodici persone decedute, oltre ai verbali di altri cinque testimoni per cui c’è stato il consenso di tutte le parti.
Sono già state fissate le udienze fino alla fine del mese: oltre a domani la corte si riunisce il 22, 24 e 29 settembre. Nell’ultimo giorno del mese comparirà davanti ai giudici anche Febo Conti, il noto personaggio televisivo che riempiva i pomeriggi dei ragazzi negli anni Settanta con la trasmissione «Chissà chi lo sa». I pm vogliono sentirlo per chiarire una situazione segnalata da un testimone: Maifredi, dopo la strage, su consiglio di Delfino lasciò la città (i figli vennero prelevati da un aiutante dell’allora capitano) e con la compagna Clara si rifugiò sul lago di Garda dove sarebbe rimasto su un motoscafo ch
e aveva acquistato dal presentatore.
Il processo è destinato a durare ancora a lungo. A giugno il procedimento avrebbe fatto il primo giro di boa con l’escussione di un terzo dei testi dell’accusa, compresi i feriti e le parti civili. I testimoni da sentire sono quasi duemila. Al termine dei testi chiamati dall’accusa saranno sentiti gli imputati: hanno acconsentito tutti all’esame tranne Zorzi, se torna in Italia finisce in cella.
IL PROCESSO, inziato il 25 novembre dello scorso anno, riprende dopo 52 udienze e l’audizione di centinaia di testi chiamati dall’accusa, il procuratore Roberto Di Martino e il sostituto procuratore.
Il processo riprende con l’escussione proprio di Carlo Fumagalli, l’ex partigiano che voleva liberare l’Italia partendo dalla Valtellina. Fumagalli dovrebbe essere in aula domani mattina. Già processato per il Mar, Fumagalli potrà raccontare dei suoi eventuali rapporti con Maifredi, del legame con i giovani Giorgio Spedini e Kim Borromeo, già sentiti nel corso del processo, arrestati il 19 marzo del 1974 a Sonico con cinquanta chili di esplosivo nel baule di una Fiat 128. Per i due l’arresto fu una trappola tesa da Delfino, mentre l’esplosivo, secondo l’accusa non c’è alcun dubbio, venne procurato da Maifredi.
NELL’UDIENZA di domani verranno prodotti anche i verbali di quattrodici persone decedute, oltre ai verbali di altri cinque testimoni per cui c’è stato il consenso di tutte le parti.
Sono già state fissate le udienze fino alla fine del mese: oltre a domani la corte si riunisce il 22, 24 e 29 settembre. Nell’ultimo giorno del mese comparirà davanti ai giudici anche Febo Conti, il noto personaggio televisivo che riempiva i pomeriggi dei ragazzi negli anni Settanta con la trasmissione «Chissà chi lo sa». I pm vogliono sentirlo per chiarire una situazione segnalata da un testimone: Maifredi, dopo la strage, su consiglio di Delfino lasciò la città (i figli vennero prelevati da un aiutante dell’allora capitano) e con la compagna Clara si rifugiò sul lago di Garda dove sarebbe rimasto su un motoscafo ch
e aveva acquistato dal presentatore.
Il processo è destinato a durare ancora a lungo. A giugno il procedimento avrebbe fatto il primo giro di boa con l’escussione di un terzo dei testi dell’accusa, compresi i feriti e le parti civili. I testimoni da sentire sono quasi duemila. Al termine dei testi chiamati dall’accusa saranno sentiti gli imputati: hanno acconsentito tutti all’esame tranne Zorzi, se torna in Italia finisce in cella.
«L’esplosivo usato?
Era quello di Sonico»
· Venerdì 18 Settembre 2009
· CRONACA,
· pagina 13
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Il pm Francesco Piantoni
I sette etti di esplosivo che si innescarono alle 10.12 del 28 maggio 1974 non vengono da lontano. Facevano parte dell’esplosivo sequestrato dai carabinieri, dall’allora capitano Francesco Delfino, a Giorgio Spedini e Kim Borromeo a Sonico il 19 marzo del 1974, due mesi prima della strage. Ne è assolutamente convinto Carlo Fumagalli, ex partigiano, condannato a 24 anni per il Mar, che l’esplosivo portato da Spedini e Borromeo l’ha pure visto.
Fumagalli finito in carcere perchè voleva liberare l’Italia partendo dalla Valtellina e che aspettava un segnale – che non ci fu – dei carabinieri per il colpo di Stato («dovevano darci le armi e dire quando» ha ricordato ieri in aula) ha definito Spedini e Borromeo «due miei uomini».
DUE GIOVANI «che pendevano dalle labbra di Gianni Maifredi», il sesto imputato del processo scomparso a luglio. Fumagalli ha confermato che Spedini e Borromeo trovarono l’esplosivo grazie a Maifredi.
«Io cercavo armi – racconta Fumagalli – e Spedini e Borromeo arrivarono con Maifredi nella mia officina a Milano con una cassa di esplosivo. Io non lo avevo chiesto, non volevo esplosivo e li mandai al diavolo, ma mi dissero che avevano la possibilità di scambiare l’esplosivo con le armi».
Fumagalli, ex partigiano, si intendeva di esplosivo e diede un’occhiata al contenuto della cassa.
«Si trattava di candelotti di dinamite commerciale, in buone condizioni, non trasudava, non c’era alcun pericolo. L’unico rischio poteva derivare da due candelotti tagliati, che presi e gettai nel Lambro. Il giorno dopo i due sono andati verso la Valtellina e in Valcamonica sono stati fermati».
Ad attirare l’attenzione di Funagalli fu un contenitore nel baule della Fiat 128 di Spedini: «C’era un sacchetto con del materiale strano. Mi dissero che si trattava di un esplosivo sintetico, tipo Anfo».
Fumagalli ha ammesso di aver avuto tempo in carcere per pensare, per ascoltare i discorsi degli altri detenuti, informarsi.
«Sono giunto alla conclusione che quell’esplosivo sintetico sequestrato in Valcamonica non è stato fatto esplodere, come la dinamite, ma che è finito nel cestino della piazza». Per Fumagalli nella vicenda ha avuto un ruolo di rilievo Delfino: «È una mia convinzione, non ho prove e non mi so spiegare neppure il motivo» ha ammesso. Tanti dubbi, ma una convinzione: l’esplosivo è lo stesso.W.P.
Fumagalli finito in carcere perchè voleva liberare l’Italia partendo dalla Valtellina e che aspettava un segnale – che non ci fu – dei carabinieri per il colpo di Stato («dovevano darci le armi e dire quando» ha ricordato ieri in aula) ha definito Spedini e Borromeo «due miei uomini».
DUE GIOVANI «che pendevano dalle labbra di Gianni Maifredi», il sesto imputato del processo scomparso a luglio. Fumagalli ha confermato che Spedini e Borromeo trovarono l’esplosivo grazie a Maifredi.
«Io cercavo armi – racconta Fumagalli – e Spedini e Borromeo arrivarono con Maifredi nella mia officina a Milano con una cassa di esplosivo. Io non lo avevo chiesto, non volevo esplosivo e li mandai al diavolo, ma mi dissero che avevano la possibilità di scambiare l’esplosivo con le armi».
Fumagalli, ex partigiano, si intendeva di esplosivo e diede un’occhiata al contenuto della cassa.
«Si trattava di candelotti di dinamite commerciale, in buone condizioni, non trasudava, non c’era alcun pericolo. L’unico rischio poteva derivare da due candelotti tagliati, che presi e gettai nel Lambro. Il giorno dopo i due sono andati verso la Valtellina e in Valcamonica sono stati fermati».
Ad attirare l’attenzione di Funagalli fu un contenitore nel baule della Fiat 128 di Spedini: «C’era un sacchetto con del materiale strano. Mi dissero che si trattava di un esplosivo sintetico, tipo Anfo».
Fumagalli ha ammesso di aver avuto tempo in carcere per pensare, per ascoltare i discorsi degli altri detenuti, informarsi.
«Sono giunto alla conclusione che quell’esplosivo sintetico sequestrato in Valcamonica non è stato fatto esplodere, come la dinamite, ma che è finito nel cestino della piazza». Per Fumagalli nella vicenda ha avuto un ruolo di rilievo Delfino: «È una mia convinzione, non ho prove e non mi so spiegare neppure il motivo» ha ammesso. Tanti dubbi, ma una convinzione: l’esplosivo è lo stesso.W.P.
N AULA. L’attenzione dell’accusa ancora concentrata sulla morte del milanese a Pian del Rascino e sulle «devianze» alla divisione Pastrengo dei carabinieri
Mori: «Esposti?
Fu giustiziato»
Wilma Petenzi
Il detenuto avrebbe ricevuto le confidenze di Danieletti: «Giancarlo fu fatto inginocchiare e gli spararono in testa»
· Venerdì 17 Aprile 2009
· CRONACA,
· pagina 8
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Marzio Mori, attualmente detenuto a S. Vittore, è stato sentito ieri dai giudici della corte …
Una rivelazione inedita al processo per la strage di piazza della Loggia. Il racconto di un detenuto che avvalorerebbe la ricostruzione dell’accusa su alcune «deviazioni» presenti all’interno della Divisione Pastrengo dei carabinieri a Milano, sul ruolo avuto dai servizi segreti deviati grazie alla collaborazione con gli estremisti di destra sia nella strage di Brescia che nella morte di Giancarlo Esposti a Pian del Rascino, due giorni dopo l’esplosione della bomba in piazza della Loggia.
Due eventi che per la procura di Brescia sono strettamente collegati: senza l’esplosione della bomba nel cestino di piazza Loggia non sarebbe scorso sangue nemmeno a Pian del Rascino.
LA RIVELAZIONE inedita è opera di Marzio Mori, 63enne, milanese, detenuto a San Vittore per rapina, amico di Giancarlo Esposti e di altri esponenti della destra, già sentito ampiamente dai carabinieri del Ros, su delega della procura di Brescia, tra giugno e agosto del 2001. Nei precedenti verbali Mori si era limitato a raccontare di aver accompagnato Esposti in una caserma a Milano, probabilmente dei carabinieri, visto che «Giancarlo era un loro informatore». Negli interrogatori Mori aveva anche accennato a collaborazioni con i carabinieri che avvisavano in anticipo di retate e perquisizioni e sulla certezza che a Pian del Rascino ci fossero anche carabinieri inviati da Milano.
MA IERI, davanti ai giudici della corte d’assise chiamati a giudicare per strage Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte, Giovanni Maifredi, Pino Rauti e Francesco Delfino, ex generale dei carabinieri, i ricordi di Mori sono andati ben oltre.
Il teste ha ricordato una confidenza ricevuta in carcere da Alessandro Danieletti, presente a Pian del Rascino e arrestato insieme a Alessandro D’Intino.
«Danieletti in carcere mi ha raccontato che i carabinieri a Pian del Rascino potevano evitare di sparare, che tutti e tre erano già stati fermati, ma Esposti venne fatto inginocchiare e gli spararono in testa». Mori ha sostenuto, incalzato dai pm Roberto Di Martino e Francesco Piantoni e dagli avvocati difensori, di aver ricevuto la confidenza da Danieletti a San Vittore, qualche anno dopo la morte di Esposti. Danieletti, ancora in vita, è citato tra i testi del processo e potrà confermare o smentire davanti ai giudici quanto rivelato ieri da Mori. Sarà una testimonianza importante, anche perchè, secondo i pm, i verbali sulla vicenda sono scarni, le risposte paiono quasi «guidate».
«I CARABINIERI di Milano sapevano che Esposti andava a Pian del Rascino, dovevo andare anch’io, ma poi cambiai idea all’ultimo minuto – ha aggiunto Mori nella sua testimonianza – e mi risulta che dopo la sparatoria ci fossero anche i carabinieri di Milano».
Per Marzio Mori una esecuzione inspiegabile perchè era risaputo che Esposti era collaboratore dei carabinieri. Vivida nella mente del detenuto anche il nome del carabiniere vicino alla destra milanese: «Il capitano Delfino era considerato un camerata puro, sempre disposto ad aiutarci disinteressatamente. C’erano molti ufficiali dei carabinieri di destra, era risaputo che Delfino fosse dalla nostra parte».
Lo stesso Mori sarebbe stato aiutato da un amico carabiniere: «Era stato spiccato un mandato di cattura nei miei confronti e anticipai di qualche giorno un viaggio a Caracas che avevo già organizzato con mia moglie per prendere il largo e non essere arrestato. Non voglio fare il nome del carabiniere che mi avvisò, eravamo amici fin da ragazzi, non voglio creargli problemi».
In carcere e nell’ambiente di destra Mori sostiene di aver raccolto voci anche sulla strage di piazza della Loggia. «So che la bomba non è stata messa dai fascisti, ma è stata messa dai servizi deviati. È come per tutte le altre bombe scoppiate in Italia, come per tutti gli altri attentati: i responsabili sono gli apparati deviati dello Stato».
Le voci raccolte da Mori coincidono in parte, dunque, con la ricostruzione dei due procuratori che per anni hanno indagato sulla strage e che dal 25 novembre sono in aula a sostenere le loro accuse. Ma per i pm i servizi deviati dello Stato non hanno fatto tutto da soli, ma si sono appoggiati a un gruppetto di est
remisti di destra legati a Ordine Nuovo.
Due eventi che per la procura di Brescia sono strettamente collegati: senza l’esplosione della bomba nel cestino di piazza Loggia non sarebbe scorso sangue nemmeno a Pian del Rascino.
LA RIVELAZIONE inedita è opera di Marzio Mori, 63enne, milanese, detenuto a San Vittore per rapina, amico di Giancarlo Esposti e di altri esponenti della destra, già sentito ampiamente dai carabinieri del Ros, su delega della procura di Brescia, tra giugno e agosto del 2001. Nei precedenti verbali Mori si era limitato a raccontare di aver accompagnato Esposti in una caserma a Milano, probabilmente dei carabinieri, visto che «Giancarlo era un loro informatore». Negli interrogatori Mori aveva anche accennato a collaborazioni con i carabinieri che avvisavano in anticipo di retate e perquisizioni e sulla certezza che a Pian del Rascino ci fossero anche carabinieri inviati da Milano.
MA IERI, davanti ai giudici della corte d’assise chiamati a giudicare per strage Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte, Giovanni Maifredi, Pino Rauti e Francesco Delfino, ex generale dei carabinieri, i ricordi di Mori sono andati ben oltre.
Il teste ha ricordato una confidenza ricevuta in carcere da Alessandro Danieletti, presente a Pian del Rascino e arrestato insieme a Alessandro D’Intino.
«Danieletti in carcere mi ha raccontato che i carabinieri a Pian del Rascino potevano evitare di sparare, che tutti e tre erano già stati fermati, ma Esposti venne fatto inginocchiare e gli spararono in testa». Mori ha sostenuto, incalzato dai pm Roberto Di Martino e Francesco Piantoni e dagli avvocati difensori, di aver ricevuto la confidenza da Danieletti a San Vittore, qualche anno dopo la morte di Esposti. Danieletti, ancora in vita, è citato tra i testi del processo e potrà confermare o smentire davanti ai giudici quanto rivelato ieri da Mori. Sarà una testimonianza importante, anche perchè, secondo i pm, i verbali sulla vicenda sono scarni, le risposte paiono quasi «guidate».
«I CARABINIERI di Milano sapevano che Esposti andava a Pian del Rascino, dovevo andare anch’io, ma poi cambiai idea all’ultimo minuto – ha aggiunto Mori nella sua testimonianza – e mi risulta che dopo la sparatoria ci fossero anche i carabinieri di Milano».
Per Marzio Mori una esecuzione inspiegabile perchè era risaputo che Esposti era collaboratore dei carabinieri. Vivida nella mente del detenuto anche il nome del carabiniere vicino alla destra milanese: «Il capitano Delfino era considerato un camerata puro, sempre disposto ad aiutarci disinteressatamente. C’erano molti ufficiali dei carabinieri di destra, era risaputo che Delfino fosse dalla nostra parte».
Lo stesso Mori sarebbe stato aiutato da un amico carabiniere: «Era stato spiccato un mandato di cattura nei miei confronti e anticipai di qualche giorno un viaggio a Caracas che avevo già organizzato con mia moglie per prendere il largo e non essere arrestato. Non voglio fare il nome del carabiniere che mi avvisò, eravamo amici fin da ragazzi, non voglio creargli problemi».
In carcere e nell’ambiente di destra Mori sostiene di aver raccolto voci anche sulla strage di piazza della Loggia. «So che la bomba non è stata messa dai fascisti, ma è stata messa dai servizi deviati. È come per tutte le altre bombe scoppiate in Italia, come per tutti gli altri attentati: i responsabili sono gli apparati deviati dello Stato».
Le voci raccolte da Mori coincidono in parte, dunque, con la ricostruzione dei due procuratori che per anni hanno indagato sulla strage e che dal 25 novembre sono in aula a sostenere le loro accuse. Ma per i pm i servizi deviati dello Stato non hanno fatto tutto da soli, ma si sono appoggiati a un gruppetto di est
remisti di destra legati a Ordine Nuovo.
L TESTE. L’ex direttore amministrativo dell’Idra rievoca il ruolo di Maifredi all’interno dell’azienda nel ’74
«Presentai io Delfino a Gianni»
Paola Castriota
Bonardi: «Era preoccupato sapeva di un attentato»
· Mercoledì 22 Aprile 2009
· CRONACA,
· pagina 7
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Giovanni Bonardi, ieri in aula
Giovanni Maifredi e l’allora capitano Francesco Delfino sapevano che era in programma un attentato a Brescia, che lo strumento da utilizzare era l’esplosivo e che uno dei potenziali bersagli avrebbe anche potuto essere una scuola materna. A rivelarlo è Giovanni Bonardi, ufficiale in congedo dell’Arma dei Carabinieri (fu militare di complemento) e vice direttore amministrativo all’Idra di Adamo Pasotti dal 1 maggio 1972 alla fine dell’ottobre 1985.
[FIRMA]IN QUEL PERIODO anche Giovanni Maifredi (per i pm Roberto Di Martino e Francesco Piantoni infiltrato nel Mar di Carlo Fumagalli dal capitano Francesco Delfino) è alle dipendenze della stessa azienda con la mansione di vice caposervizio nel ramo dei trasporti.
«Conoscevo Maifredi – ricorda Bonardi -. Faceva parte di un gruppo di simpatizzanti di destra. Lo consideravo come una specie di guarda spalle dell’ingegner Adamo Pasotti, il titolare dell’azienda. Aveva un debole per le armi e si vantava di possederne ma non le portava in fabbrica. Non lo avrei permesso».
Un rapporto puramente professionale lega Bonardi a Maifredi nella quotidianità del lavoro all’Idra. Solo qualche carta da firmare, scambi di veloci battute e accenni ai figli.
Tutto nella norma insomma, almeno fino al dicembre 1973 quando Maifredi si rivolge a Bonardi per una questione un po’ «particolare», che esula dai normali discorsi.
«Alcuni amici sono in possesso di materiale esplosivo e vogliono fare un attentato», riferisce con una certa preoccupazione Giovanni Maifredi. Una rivelazione che piomba addosso a Bonardi come un macigno dal peso così insopportabile da portarlo alle lacrime a distanza di trentacinque anni.
«Gli consigliai di allontanarsi da quel giro di amici e di rivolgersi ai carabinieri con prove concrete in mano» ha rivissuto Bonardi.
SUBITO dopo le vacanze di Natale, Maifredi torna nell’ufficio di Bonardi e nemmeno questa volta lo fa per espletare le solite formalità. Anzi, getta benzina sul fuoco. «Questi fanno sul serio, vogliono coinvolgermi e colpire anche scuole materne. Nel tempo di fare denuncia e di avviare le indagini, io ci rimetto la pelle – dice Maifredi -. Lei ha i gradi di tenente, faccia qualcosa».
Un dubbio lacera l’animo di Bonardi che però prende una decisione precisa: contattare i carabinieri. La telefonata al centralino dell’Arma e l’incontro fissato con il comandante, il colonnello Morelli. «Ci sediamo alla sua scrivania e lui chiama al telefono un certo Francesco – ricorda il testimone -. Poco dopo entra un ragazzo molto alto che si presenta come capitano Delfino».
Bonardi racconta tutto ai due ufficiali e organizza l’incontro con Maifredi per il giorno successivo. All’Idra si presentano Delfino e il maresciallo Siddi. «Dopo aver avvertito Maifredi, li lasciai soli a parlare. Io non partecipai alla conversazione».
Nulla si sa dunque delle parole scambiate in una delle salette di attesa dell’Idra, ma dopo qualche settimana Bonardi apprende dalla stampa che in Vallecamonica è avvenuto l’arresto di due ragazzi (Kim Borromeo e Giorgio Spedini) che portavano esplosivo. Delle due macchine inseguite dalla pattuglia del capitano Delfino, solo la seconda viene fermata. La prima invece, un veicolo bianco come quello i
n possesso di Maifredi, riesce a fuggire. Bonardi perde completamente le tracce dell’ex dipendente dell’Idra, sospettatoo inoltre di aver sottratto denaro all’azienda.
«ALCUNI ANNI FA ho letto il libro “Strage a Brescia, potere a Roma”. Tuttora mi domando se io sia stato realmente il tramite della conoscenza tra Maifredi e Delfino o se in realtà i due già si conoscessero e il mio ruolo sia stato da loro strumentalizzato per dare una data certa della loro reciproca conoscenza».
[FIRMA]IN QUEL PERIODO anche Giovanni Maifredi (per i pm Roberto Di Martino e Francesco Piantoni infiltrato nel Mar di Carlo Fumagalli dal capitano Francesco Delfino) è alle dipendenze della stessa azienda con la mansione di vice caposervizio nel ramo dei trasporti.
«Conoscevo Maifredi – ricorda Bonardi -. Faceva parte di un gruppo di simpatizzanti di destra. Lo consideravo come una specie di guarda spalle dell’ingegner Adamo Pasotti, il titolare dell’azienda. Aveva un debole per le armi e si vantava di possederne ma non le portava in fabbrica. Non lo avrei permesso».
Un rapporto puramente professionale lega Bonardi a Maifredi nella quotidianità del lavoro all’Idra. Solo qualche carta da firmare, scambi di veloci battute e accenni ai figli.
Tutto nella norma insomma, almeno fino al dicembre 1973 quando Maifredi si rivolge a Bonardi per una questione un po’ «particolare», che esula dai normali discorsi.
«Alcuni amici sono in possesso di materiale esplosivo e vogliono fare un attentato», riferisce con una certa preoccupazione Giovanni Maifredi. Una rivelazione che piomba addosso a Bonardi come un macigno dal peso così insopportabile da portarlo alle lacrime a distanza di trentacinque anni.
«Gli consigliai di allontanarsi da quel giro di amici e di rivolgersi ai carabinieri con prove concrete in mano» ha rivissuto Bonardi.
SUBITO dopo le vacanze di Natale, Maifredi torna nell’ufficio di Bonardi e nemmeno questa volta lo fa per espletare le solite formalità. Anzi, getta benzina sul fuoco. «Questi fanno sul serio, vogliono coinvolgermi e colpire anche scuole materne. Nel tempo di fare denuncia e di avviare le indagini, io ci rimetto la pelle – dice Maifredi -. Lei ha i gradi di tenente, faccia qualcosa».
Un dubbio lacera l’animo di Bonardi che però prende una decisione precisa: contattare i carabinieri. La telefonata al centralino dell’Arma e l’incontro fissato con il comandante, il colonnello Morelli. «Ci sediamo alla sua scrivania e lui chiama al telefono un certo Francesco – ricorda il testimone -. Poco dopo entra un ragazzo molto alto che si presenta come capitano Delfino».
Bonardi racconta tutto ai due ufficiali e organizza l’incontro con Maifredi per il giorno successivo. All’Idra si presentano Delfino e il maresciallo Siddi. «Dopo aver avvertito Maifredi, li lasciai soli a parlare. Io non partecipai alla conversazione».
Nulla si sa dunque delle parole scambiate in una delle salette di attesa dell’Idra, ma dopo qualche settimana Bonardi apprende dalla stampa che in Vallecamonica è avvenuto l’arresto di due ragazzi (Kim Borromeo e Giorgio Spedini) che portavano esplosivo. Delle due macchine inseguite dalla pattuglia del capitano Delfino, solo la seconda viene fermata. La prima invece, un veicolo bianco come quello i
n possesso di Maifredi, riesce a fuggire. Bonardi perde completamente le tracce dell’ex dipendente dell’Idra, sospettatoo inoltre di aver sottratto denaro all’azienda.
«ALCUNI ANNI FA ho letto il libro “Strage a Brescia, potere a Roma”. Tuttora mi domando se io sia stato realmente il tramite della conoscenza tra Maifredi e Delfino o se in realtà i due già si conoscessero e il mio ruolo sia stato da loro strumentalizzato per dare una data certa della loro reciproca conoscenza».
LA BOMBA DI PIAZZA LOGGIA. A 35 anni di distanza dalla sera del loro fermo a Sonico, Kim Borromeo e Giorgio Spedini hanno ricostruito i piani di Carlo Fumagalli
«L’arresto? Una trappola di Delfino»
Wilma Petenzi
Ricordi contrastanti sul luogo in cui venne preso l’esplosivo. L’unica certezza: «Fummo traditi da Gianni “Genovese”»
· Venerdì 24 Aprile 2009
· CRONACA,
· pagina 15
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Giorgio Spedini ha rivissuto ieri il suo arresto a Sonico
Trentacinque anni fa vennero arrestati a Sonico, nel baule di una Fiat 128 avevano una cinquantina di chili di esplosivo. Ieri Giorgio Spedini e Kim Borromeo si sono reincontarti in aula, ma ancora, nonostante siano già stati condannati per la detenzione dell’esplosivo con il processo al Mar di Carlo Fumagalli e nonostante sia trascorso un tempo quasi infinito, non è emerso il tragitto esatto compiuto dall’esplosivo sequestrato dai carabinieri e fatto brillare poche ore dopo, in gran fretta, dal capitano dei carabinieri Francesco Delfino.
LE VERSIONI di Spedini e di Borromeo sono contrastanti sia sul luogo dell’approvigionamento che sulla quantità dell’esplosivo. Ma per i due c’è un’unica certezza: l’arresto il 9 marzo 1974 fu una trappola, architetta da Giovanni Maifredi, Gianni “Genovese” come veniva chiamato nel gruppo dell’ingegnere Ezio Tartaglia il magazzinere dell’Idra che vantava rapporti con i servizi segreti e millantava la «possibilità di potere avere tutte le armi che voleva».
«Dovevamo capire che si trattava di una trappola – ha detto Spedini – anche perchè Clara Tonoli, la convivente di Maifredi cercò di metterci in guardia». E per Borromeo la regia della trappola è da attribuire all’ex generale dei carabinieri Francesco Delfino, imputato nel processo per la strage di piazza Loggia insieme a Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte e Pino Rauti.
Per Spedini Maifredi era la soluzione alle esigenze di Carlo Fumagalli, l’ex partigiano che voleva «liberare l’Italia facendo insorgere la Valtellina». Ma per il disegno di Fumagalli servivano armi e Spedini pensò a Maifredi. Identico ragionamento anche per Borromeo: servono armi, Maifredi è la persona giusta. Maifredi si disse disponibile, trovò le armi, ma chi le poteva fornire, come ricordato ieri in aula, chiedeva in cambio esplosivo.
«Solo una banda di deficienti – ha detto Borromeo – poteva pensare che si trattasse di un accordo normale. È evidente che era una trappola congegnata da Maifredi e Delfino».
Spedini ricorda un solo cartone pieno di esplosivo, infilato nel baule della sua 128, mentre per Borromeo i cartoni erano più di due. Due, risultano, i cartoni sequestrati dai carabinieri per un peso di 50 chili, insieme a uno zainetto con cinque milioni, di cui Spedini non ha alcun ricordo.
Spedini dice di aver preso l’esplosivo a casa di Maifredi e di averlo portato il giorno successivo a Milano, da Fumagalli e poi il 9 marzo portato in Valcamonica. Per Borromeo, invece, l’esplosivo venne preso in una cava a Rovereto (così ricorda anche Clara Tonoli nel memoriale di Arcai): «Andai io, non ricordo con chi, non mi pare sia s
tato Maifredi a indicare il luogo». Le versioni precedenti di Borromeo contrastano con quanto dichiarato ieri: in più di un’occasione ha indicato Maifredi come la persona che fornì l’esplosivo. Per l’accusa non può che essere stato Maifredi a far avere l’esplosivo ai due giovani. E lui era legato a filo doppio con Delfino, fin dal ’73 secondo Tonoli. E proprio da quel legame nacque l’operazione «Basilico», che fece finire in cella Spedini e Borromeo. I due viaggiavano dietro a Maifredi che riuscì a evitare il posto di blocco: non per fortuna, ma perchè d’accordo con Delfino al ristorante Le Palafitte di Iseo, lasciò in una pianta di basilico un pacchetto di sigarette vuoto (la Tonoli sostiene di aver dato lei a Gianni le Muratti) su cui era scritta la targa della Fiat 128. All’accusa ora il compito di dimostrare il grado di «tradimento» di Delfino: tradì tutti i camerati, o solo Spedini e Borromeo.
LE VERSIONI di Spedini e di Borromeo sono contrastanti sia sul luogo dell’approvigionamento che sulla quantità dell’esplosivo. Ma per i due c’è un’unica certezza: l’arresto il 9 marzo 1974 fu una trappola, architetta da Giovanni Maifredi, Gianni “Genovese” come veniva chiamato nel gruppo dell’ingegnere Ezio Tartaglia il magazzinere dell’Idra che vantava rapporti con i servizi segreti e millantava la «possibilità di potere avere tutte le armi che voleva».
«Dovevamo capire che si trattava di una trappola – ha detto Spedini – anche perchè Clara Tonoli, la convivente di Maifredi cercò di metterci in guardia». E per Borromeo la regia della trappola è da attribuire all’ex generale dei carabinieri Francesco Delfino, imputato nel processo per la strage di piazza Loggia insieme a Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte e Pino Rauti.
Per Spedini Maifredi era la soluzione alle esigenze di Carlo Fumagalli, l’ex partigiano che voleva «liberare l’Italia facendo insorgere la Valtellina». Ma per il disegno di Fumagalli servivano armi e Spedini pensò a Maifredi. Identico ragionamento anche per Borromeo: servono armi, Maifredi è la persona giusta. Maifredi si disse disponibile, trovò le armi, ma chi le poteva fornire, come ricordato ieri in aula, chiedeva in cambio esplosivo.
«Solo una banda di deficienti – ha detto Borromeo – poteva pensare che si trattasse di un accordo normale. È evidente che era una trappola congegnata da Maifredi e Delfino».
Spedini ricorda un solo cartone pieno di esplosivo, infilato nel baule della sua 128, mentre per Borromeo i cartoni erano più di due. Due, risultano, i cartoni sequestrati dai carabinieri per un peso di 50 chili, insieme a uno zainetto con cinque milioni, di cui Spedini non ha alcun ricordo.
Spedini dice di aver preso l’esplosivo a casa di Maifredi e di averlo portato il giorno successivo a Milano, da Fumagalli e poi il 9 marzo portato in Valcamonica. Per Borromeo, invece, l’esplosivo venne preso in una cava a Rovereto (così ricorda anche Clara Tonoli nel memoriale di Arcai): «Andai io, non ricordo con chi, non mi pare sia s
tato Maifredi a indicare il luogo». Le versioni precedenti di Borromeo contrastano con quanto dichiarato ieri: in più di un’occasione ha indicato Maifredi come la persona che fornì l’esplosivo. Per l’accusa non può che essere stato Maifredi a far avere l’esplosivo ai due giovani. E lui era legato a filo doppio con Delfino, fin dal ’73 secondo Tonoli. E proprio da quel legame nacque l’operazione «Basilico», che fece finire in cella Spedini e Borromeo. I due viaggiavano dietro a Maifredi che riuscì a evitare il posto di blocco: non per fortuna, ma perchè d’accordo con Delfino al ristorante Le Palafitte di Iseo, lasciò in una pianta di basilico un pacchetto di sigarette vuoto (la Tonoli sostiene di aver dato lei a Gianni le Muratti) su cui era scritta la targa della Fiat 128. All’accusa ora il compito di dimostrare il grado di «tradimento» di Delfino: tradì tutti i camerati, o solo Spedini e Borromeo.
«A Pian
del Rascino
volevano
ucciderci»
· Venerdì 24 Aprile 2009
· CRONACA,
· pagina 15
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Il presidente Enrico Fischetti
A Pian del Rascino i morti potevano essere tre. Oltre a Giancarlo Esposti avrebbero potuto morire anche Alessandro Danieletti e Alessandro D’Intino. E’ la confidenza ricevuta da Giorgio Spedini in carcere dagli stessi Danieletti e D’Intino e raccontata ieri in aula ai giudici della corte d’assise di Brescia. Spedini ha raccontato, aiutato anche dalle dichiarazioni rilasciate nei precedenti interrogatori, sollecitato dai pm Roberto Di Martino e Francesco Piantoni.
«IN CARCERE D’INTINO e Danieletti mi dissero – ha raccontato il teste – che a Pian del Rascino se non ci fossero stati gli agenti della Guardia Forestale i carabinieri avrebbero ucciso anche loro». Ma grazie alle confidenze dei due detenuti il ricordo di Spedini è andato anche oltre: «Mi dissero che i carabinieri avrebbero anche tagliato la barba a Giancarlo Esposti, in modo che potesse corrispondere pienamente all’identikit distribuito il 30 maggio su un giovane sospettato della strage di piazza della Loggia. I carabinieri non sapevano che da alcuni mesi Esposti aveva deciso di non radersi e rimasero spiazzati, non si aspettavano di trovare un giovane che non corrispondeva alla foto usata come base per tracciare l’identikit».
Una nuova testimonianza che avvalora la tesi dell’accusa sulla morte di Esposti, sul suo legame da confidente con l’Arma dei carabinieri, con alcuni uomini della Divisione Pastrengo di Milano comandata dal generale Palumbo e in particolare con il capitano «Palinuro», che per i pm bresciani altri non era che il capitano Delfino.W.P.
«IN CARCERE D’INTINO e Danieletti mi dissero – ha raccontato il teste – che a Pian del Rascino se non ci fossero stati gli agenti della Guardia Forestale i carabinieri avrebbero ucciso anche loro». Ma grazie alle confidenze dei due detenuti il ricordo di Spedini è andato anche oltre: «Mi dissero che i carabinieri avrebbero anche tagliato la barba a Giancarlo Esposti, in modo che potesse corrispondere pienamente all’identikit distribuito il 30 maggio su un giovane sospettato della strage di piazza della Loggia. I carabinieri non sapevano che da alcuni mesi Esposti aveva deciso di non radersi e rimasero spiazzati, non si aspettavano di trovare un giovane che non corrispondeva alla foto usata come base per tracciare l’identikit».
Una nuova testimonianza che avvalora la tesi dell’accusa sulla morte di Esposti, sul suo legame da confidente con l’Arma dei carabinieri, con alcuni uomini della Divisione Pastrengo di Milano comandata dal generale Palumbo e in particolare con il capitano «Palinuro», che per i pm bresciani altri non era che il capitano Delfino.W.P.