Oggi Estela e Claudia Carlotto, la presidentessa delle abuelas de la plaza de Mayo e la figlia che è capo della Comision nacional del derecho a la identitad in Argentina, parrteciperanno alle 14 al “Master in diritti umani” , secondo livello, a Roma Tre (via Ostiense 236, alle 19 al Bibliocaffè (via Osatiense 95) alla presentazione del libro “Identità alla prova. La controversa storia del Dna tra crimini, misteri e battaglie legali” di Alice Andreoli (Sironi editore). Poi alle 21 alla Casa internazionale delle donne (via della Lungara 19) intervengono a “Memoria, identità e democrazia”. Su questi stessi temi si è tenuta ieri sera un incontro all’Auditorium di via Ciro il Grande all’Eur, dove l’associazione Mirando al Sur ha presentato il proprio intervento a favore dei bambini del Chaco argentino e l’associazione Lodelsur, con Monica Bellanova, ha riproposto il proprio lavoro anche qui in Italia per offrire un riferimento alla ricerca di identità per i figli “rubati” dai militari argentini ai loro genitori naturali che sono stati poi elinminati. Questo lavoro su cui si concentra oggi il grande sforzo delle donne de la plaza de Mayo ha permesso il recupero delle proprie origini a 101 nietos, nipoti. Uno di loro, Manuel Goncalvez, ha partecipato all’incontro spiegando l’importanza di questa riappropriuazione seppur traumatica della propria identità. Sul tema è intervenuto anche lo psicanalista argentino di origine italiana Jorge Corrente, con un importante contributo di cui qui riportiamo i passaggi più importanti. Prima operò rficordiamo a tutti che al Primo piano del palazzo B del Tribunale di Roma continua ilo processo all’ammiraglio zargentino Emilio Massera, torturatore e assassino della giunta golpista, davanti alla I Corte d’assise. Le prossime udienze sono il 25 e il 27 maggio.
La vita fisica e mentale può essere sconvolta da un’esperienza traumatica, come ben sappiamo un trauma può avere origine nel mondo interno, a volte invece sono gli eventi del mondo esterno a determinarlo.
Dipenderà dalla capacità di risposta di ognuno di fronte a questo tipo di esperienze a determinare la sua trasformazione in trauma, cosi anche la sua intensità. Per questo non possiamo pensare che le risposte saranno simili davanti ad uno stesso evento scatenante, ad esempio una catastrofe naturale, un incidente, una guerra, una dittatura, un lutto ecc… e neanche a ciò che può sembrarci simile rispetto a catastrofi del tutto interne.
Il trauma organizza o meglio dis-organizza la propria vita mentale e molto spesso anche quella degli altri più vicini. Il trauma si espande nella nostra vita affettiva irradiando internamente ed esternamente piccole e grandi catrastrofi che determinano complesse e purtroppo a volte impossibili vie di uscita.
Le esperienze traumatiche causate dalla guerra, le dittature, la tortura, l’esilio, irrompono nella vita delle persone creando una sorta di… “anestesia emotiva, un’incapacità a vivere sentimenti. E’ come se nella loro vita avessero attraversato un terreno cosi minato, così doloroso, così sconvolgente da essere costretti alla chiusura, all’allontanamento nell’indifferenza e nella solitudine”… (T. Cancrini, 2005), o anche il suo contrario e cioè che l’allontanamento e la solitudine possono essere il prodotto di una sensibilità eccessiva a qualsiasi manifestazione affettiva giacché lo stato di regressione e dipendenza diventano al limite della sopportazione: un vero e proprio attentato alla dignità personale, dando spazio a stati di persecutorietà e depersonalizazione.
Abbiamo osservato, in alcuni sopravissuti ai campi di sterminio nazisti, nella ex Jugoslavia, in Argentina, questo tipo di vissuto difensivo patologico, e molto spesso l’abbiamo ritrovata nei loro figli, o nel gruppo vicino circostante. In questi casi le funzioni mentali che promuovono la personalità, sembrano deficitarie o mese fuori uso. La devastazione non permette una differenziazione tra esterno ed interno, le difese saltano, e il proprio Sé e con esso la sfera dell’identità vengono colpiti a volte in modo irreparabile.
Se la situazione traumatica non viene in qualche modo trattata, modificata, trasformata, se non c’è un transito nello stato d’animo dell’ individuo che attraverso le sue ‘cicatrici’ fisiche ed mentali gli permettano di intraprendere una via di cambiamento anziché di ripetizione e di chiusura il quadro non si modifica e il trauma può essere incapsulato, tramandato o disseminato (Corrente, 2005), con un grave pericolo per il singolo e per il gruppo vicino circostante. Tutto ciò può provocare un danno nell’ sociale. Una società non può progredire nella misura in cui non fa una riparazione adeguata dei danni che essa stessa o parte di essa hanno prodotto.
Ho l’impressione, però ,che questo tipo di sofferenza debba venire più volte accolta e bonificata, non solo nell’analisi ma anche, nel sociale, nei gruppi, dalle istituzioni, forse in situazioni come questa che oggi stiamo vivendo, con la speranza che sicuramente sarà di utilità non solo per chi ha sofferto certe esperienze, ma anche per tutti gli altri. Sono convinto che solo il sociale più allargato può in definitiva “curare” queste ferite cosi profonde generate nel sociale e forse essere anche esso a sua volta “curato”.
In Argentina al “terrore senza nome” imposto dalla dittatura militare che la società portava nell’suo seno come un segreto da nascondere, la paralizzava nell’suo sviluppo culturale, scientifico, economico ecc…bisognava nominarlo, questo terrore, denunciarlo, giudicarlo, nel suo sinistro disegno, così come le persone che lo avevano prodotto. Da un’altra parte e nello stesso tempo bisognava ricordare gli avvenimenti, le persone i movimenti che pensavano ad un cambiamento sociale per migliorare la vita culturale, spirituale ed economica al quale molti di noi, la maggioranza di noi in Argentina aspiravamo.
Intendo separare chiaramente ciò che possiamo fare ad esempio in una terapia, che certo non è poco, ma si rivela del tutto insufficiente per affrontare e solo in parte risolvere questo particolare tipo di trauma. E’ solo il sociale che può restituire ed riparare, infondere di nuovo la speranza.
E’ ciò che ha fatto il gruppo delle madri e delle nonne di Plaza de Mayo, che cercando prima i propri figli e poi i nipoti ha creato uno spartiacque di recupero etico tra la dittatura e le deboli democrazie, finché le cose non furono chiare per tutti. Un piccolo gruppo capace di operare una trasformazione e cambiamento nella società Argentina, che ha finito per trascendere le frontiere di quel paese essendo oggi e un esempio di lotta in favore dei diritti umani e di civiltà per tutto il mondo.
Nell’incontro di Palermo con Estela ed altri compagni oggi qui presenti una mia collega finiva il suo intervento con queste parole: “Il furto di identità consumato nei confronti dei bambini delle donne uccise è molto difficile da riparare ; esso non potrà essere risarcito per il solo fatto di conoscere la verità”. Sono d’accordo, ma aggiungerei che senza la verità non c’è trasformazione possibile.
Cambiare non e lo stesso che conoscere, ma senza conoscere non si può avviare un processo di cambiamento nel senso profondo del termine, e questo vale sia per gli individui che per i popoli.
E’ un diritto umano inalienabile conoscere le proprie origini: Si può andare da qualche parte se si è consapevole da dove si viene, in questo senso credo ch
e possiamo collegare meglio memoria-futuro-identità.
L’ultima questione della quale vorrei trattare, se pure come le altre in modo estremamente sintetico, riguarda una idea che da qualche tempo dico solo nei corridoi tra pochi amici alcuni psicoanalisti o militanti di un tempo,e alla quale bisogna le dia un corso pubblico.
Non credo che l’idea dei militari assassini fosse quella di ammazzare le madri e tenersi i bambini per educarli in famiglie diverse annullando cosi futuri possibili militanti “rivoluzionari”. Questo forse era ciò che loro stessi dicevano tra di loro e quello che poi anno voluto che tutti noi credessimo. Penso che ad un livello più profondo, inconscio (anche gli assassini hanno un inconscio), pensassero che tenendosi i bambini vivi, avrebbero controllato meglio i fantasmi dei genitori morti, come una sorta di ricatto dell’al di qua verso al di là, che gli garantisse il contenimento della colpa e della persecutorietà. I bambini vivi come garanzia e salvaguarda della loro vita. Altrimenti credo che li avrebbero uccisi.
Questa terribile perversione va denunciata, e il lavoro delle madri e delle nonne nell’ ritrovamento di questi bambini, oggi giovani uomini, è l’antidoto più efficace contro questa perversione.
Siamo grati proprio per questo e personalmente sono convinto che non c’è ricostruzione, riparazione possibile per la società argentina, anche per tutti noi oggi al estero, senza questa esperienza straordinaria di lotta e di coraggio delle madri prima poi delle nonne, oggi in compagnia dei nipoti ritrovati, alla quale tutti noi siamo invitati a partecipare attivamente se vogliamo un futuro per i nostri figli che meriti di essere vissuto. Grazie.
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