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Fanon e le maschere: liberare i neri dai loro falsi se stessi (Isis compreso…)

Ripubblicato “Pelle nera, maschere bianche” di Frantz Fanon. Nuova traduzione (Silvia Chiletti) e nuovo inquadramento (Vinzia Fiorino) per il primo testo rilevante dell’autore de “I dannati della terra”, lo psichiatra, filosofo, scrittore martinicano scomparso nel 1961 a soli 36 anni.

L’edizione è  Ets, di Pisa, e segue di una decina di anni quella di Marco Tropea, Milano.

Se ne parla a Pisa il 9 dicembre alle 17 al Palazzo dei Dodici in piazza dei Cavalieri.

Mi è stato chiesto di coordinare, lo faccio volentieri anche perché a Fanon, proprio a Pisa, ho dedicato un po’ di tempo anni fa quando con Guelfo Guelfi aprimmo nel 1967 una piccola libreria a piazza Dante, la Libreria internazionalista Frantz Fanon, che come succedeva a quei tempi – intorno al ’68 – rimase aperta solo per un paio di anni. Il tempo però per permettere a parecchi lettori di avvicinarsi al Fanon tradotto da Giovanni Pirelli e alle istanze del Terzo Mondo. Stavolta ne discutiamo con Liana Borghi, Adriano Prosperi, Sergio Bontempelli e Alfonso Maurizio Iacono, presenti Vinzia Fiorino e Silvia Chiletti.,

Torna dunque il pensiero di Fanon che a 27 anni anni di età – il testo è del 1952, Fanon si è appena laureato, l’anno successivo sbarcherà a Bilda in Algeria per dirigere l’ospedale psichiatrico  -, al cospetto di quanto ribolliva nel secondo dopoguerra con Sartre soprattutto e la “negritudine” lanciata al mondo dai poeti Léopold Senghor ed Aimé Cesaire, si pone il problema su quale rotta di liberazione si debbano avventurare i negri, come venivano allora chiamate le persone di colore. Essendo Fanon un bel nero martinicano, non ha ancora accumulato la grande esperienza psichiatrica che farà nel “manicomio” algerino di Bilda, occupandosi dal 1953 in poi dei danni prodotti dal colonialismo su quei poveri ricoverati, affronta un nodo esenziale: non ci si può liberare restando speculari alla visione che i bianchi hanno dei neri e che i neri riflettono dentro di sé restando subalterni al modello colonizzatore-colonizzato.

Il nero “va tirato fuori da lì”, scrive Fanon in un testo assai febbrile dove gli spunti autobiografici (“toh, è un negro…”) fanno spesso da filo conduttore.

Liberare, insomma, l’uomo di colore da se stesso.

Liberarlo da quel narcisismo che chiude i neri in un universo “morboso”, quello in cui devono assomigliare ai bianchi.

Fanon affronta l’attualità del suo momento, cerca di aprire un varco liberatorio dai complessi germinati dal colonialismo, non ultimo quello della moda della lattificazione (sbiancarsi un po’…).

Affianca questa riflessione agli spunti offerti da Jean Paul Sartre che in “Riflessioni sulla questione ebraica” aveva scavato nella condotta degli ebrei che spesso per timore della rappresentanza altrui del mondo ebraico finiscono per essere subalterni a quelle visioni. Il vantaggio, scrive Fanon, è che a differenza del nero però l’ebreo può passare anche a volte inosservato.

Fanon affronta questo terreno pensando alla psicanalisi, constatando he né Freud né Adler né Jung hanno pensato ai neri.

Il nero, dice, rischia di essere schiavo del passato. “Io sono il mio proprio fondamento” è invece la rilevazione che Fanon fa della questione. Quasi un “dasein” heideggeriuano, l’esserci.

Lo fa dentro uno schema concettuale che rinvia in ultima istanza alla lotta di massa, che ha come punto cardine il rifiuto dell’asservimento dell’uomo.

“Si tratta di liberare l’uomo”, è la sua conclusione in questo contesto abbastanza classico post-marxista.

In più però, e in questo il nero Fanon anticipa il femminismo, si pone la necessità del “riconoscimento” che conduce all’autocoscienza.

”Per cominciare a liberarsi bisogna già essere liberi”, chiosava Francis Jeanson nella prefazione del testo alla sua uscita allora.

Fanon non cita mai Georgy Lukcas, la sua elaborazione della ”falsa coscienza” in Storia e coscienza di classe” non gli è presente, nonostante sia un testo degli anni ‘20. Eppure il capitolo sulla “falsa coscienza” da cui il proletariato deve affrancarsi se vuole attingere a un livello libero di liberazione ha notevole pertinenza con quanto sostiene.

Lukacs si batte contro la reificazione e una concezione positivistica dell’esistente, una realtà data. Denuncia la capacità del capitalismo di estendere il suo dominio sull’intera società, di amministrarla, perpetuando il potere insito nella sua astratta e alienata razionalità attraverso le coscienze deformate e conformate all’ordine esistente. Insomma attraverso la falsa coscienza indotta nel proletariato.

Questo passo è in fin dei conti lo stesso che Fanon, psichiatra, affronta per liberare i neri dai loro modelli deformati.

Resta da chiedersi cosa penserebbe e scriverebbe Fanon – stroncato giovanissimo da una feroce leucemia – nel tempo dell’Isis.

Di quale modello sono subalterni gli accecati assassini che ci ritroviamo di fronte? A che cosa attinge la loro falsa coscienza? Da dove nasce la reificazione che li rende strumenti del terrore?

L’occasione è di allargare allora il concetto di subalternità dal mondo del colonialismo bianco a quello del nuovo colonialismo (califfato nero) in un gioco degli specchi in cui la matrice imperialistica, qualunque sia la sua origine, fa da collante.

Sono certo che Fanon cercherebbe di contrastare, con i suoi strumenti intellettuali e scientifici, questa novità nell’asservimento dell’uomo di colore, oggi.

E’ importante tutto ciò alla luce dei grandi flussi di migrazione umana che appartengono a questa fase dell’umanità?

Che cosa portano con sé i richiedenti asilo e i rifugiati, oltre alla loro miseria e alle barbare condizioni di vita in cui si imbattono nel prospero occidente?

C’è un enorme vuoto culturale tra queste masse di persone e l’occidente. Nessuno al momento (o perlomeno assai pochi e non a livello istituzionale) si occupa di riempire di reale confronto e scambio questo incontro che quando va male – e spesso va male – finisce nell’imbuto delle banlieues, riproponendo là nella solitudine e nel degrado i modelli di subalternità del presente compresa la figura nerissima di Al Baghdadi.

Di questo bisognerebbe occuparsi e se Fanon scrivesse ora forse il suo titolo sarebbe “Pelle nera, maschere bianche e anche nere”…

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