Due articoli sugli eritrei in Libia e sulle bugie del governo italiano. Da Cecina il racconto degli immigrati che hanno conosciuto i lager di Gheddafi.
Carceri libiche, i racconti terribili dei migranti al Festival antirazzista Arci -> «Tre giorni di viaggio nel deserto, 60 in un pulmino… L’inferno»
«Nel lager di Kufra lavori forzati, botte Cibo e acqua solo a pagamento»
l’Unità, 13-07-2010
Testimonianze di scampati, somali ed eritrei, dai lager libici: ecco cos’era l’inferno… Sono loro i protagonisti del meeting antirazzista dell’Arci a Cecina. Le violenze dei carcerieri e quelli dei trafficanti.
Cosa sia l’inferno in terra lo racconta A.H.Y, somalo, 26 anni. L’inferno di un lager libico. Dove A.H.Y. è stato segregato. Un lager come quello in cui sono finiti, per otto giorni almeno, 245 eritrei, diversi dei quali respinti dall’Italia. A.H.Y è uno degli ospiti del meeting antirazzista dell’Arci a Cecina. A.H.Y racconta la sua odissea: 300km, molti dei quali in pieno deserto, su camion container, pagando trafficanti diversi per arrivare a Kufra, con la promessa di poter raggiungere Tripoli e di lì l’Italia. Ma a Kufra ha trovato la polizia che lo ha incarcerato insieme ai suoi compagni di viaggio. «Parlare di carcere in Libia – dice A.H.Y. – è un eufemismo», in realtà sono veri e propri lager, stanze di pochi metri quadri in cui sono stipati in 50, senza servizi igienici, senza possibilità di lavarsi, senza cibo e acqua. E in Libia tutto ha un prezzo: se vuoi lavarti o mangiare devi pagare. Anche per essere liberato devi pagare, e se non puoi farlo devi lavorare: tutto ciò che gli aguzzini pretendono fino a che non ritengono che il lavoro cui ti hanno costretto sia sufficiente per comprarti la libertà».
IN MANO AGLI AGUZZINI
A.M.M ha 20 anni, è somalo e ha ottenuto in Italia la protezione sussidiaria circa un anno fa: proveniva dalla Libia, dove a causa delle violenze subite, ha perso la memoria. A.M.M. racconta della segregazione e della violenza subita dai trafficanti che lo hanno rinchiuso in un deposito fino a quando non sono arrivati i soldi della famiglia per la liberazione. Ma anziché raggiungere Tripoli è finito in mano ad altri trafficanti. Ha tentato di fuggire ed è stato picchiato a sangue fino a fargli perdere la memoria. Quando la riacquista, capisce di essere in carcere. Poi, dopo giorni di lavoro la libertà. Oggi sono in Italia, vivono a Caltagirone. I loro racconti, come quello di T.D. (eritreo, 18 anni), anche lui ospite del meeting dell’Arci, conferma quanto «da tempo l’Arci denuncia sulla costante violazione dei diritti umani in Libia, con cui il Governo italiano ha stretto un accordo di cooperazione in materia di immigrazione” afferma l’organizzazione in una nota.
STORIE DI ORRORE
Presente e passato s’intrecciano nel denunciare l’inferno dei lager libici. Racconta (maggio 2009) Fatawhit, una donna eritrea: «Avevamo già lasciato le coste libiche da tre giorni, quando siamo arrivati all’altezza delle piattaforme petrolifere. D’un tratto in mezzo al mare sorgono delle piattaforme immense da cui escono lingue di fuoco. Proprio da là è uscita una nave che ci ha accostato. Non so di quale paese fosse, credo che l’equipaggio fosse per metà libico e per metà italiano. E stata quella barca che ci ha scortato fino alle coste libiche e ci ha lasciato nelle mani della polizia. Siamo stati prima portati per due mesi alla prigione di Djuazat, un mese a Misratah e otto mesi a Kufra. Il trasferimento da una prigione all’altra si effettuava con un pulmino dove erano ammassate 90 persone. Il viaggio è durato tre giorni e tre notti, non c’erano finestre e non avevamo niente da bere. Ho visto bere l’urina… A Misratah ho visto delle persone morire. A Kufra le condizioni di vita erano molto dure, in tutto c’erano 250 persone, 60 per stanza. Dormivamo al suolo, senza neanche un materasso, c’era un solo bagno per tutti e 60, ma si trovava all’interno della stanza dove regnava un odore perenne di scarico. Era quasi impossibile lavarsi, per questo molte persone prendevano le malattie…♦
Ecco il video dei respinti
il manifesto, 13-07-2010
Stefano Liberti
Un video smentisce le bugie dette dal Viminale sui rifugiati eritrei detenuti in Libia. Il filmato, arrivato al manifesto da Tripoli mostra una motovedetta della Marina militare italiana affiancare un’imbarcazione carica di immigrati per respingerla in Libia. A bordo ci sono alcuni degli eritrei oggi rinchiusi a Braq
L’ immagine è nitida. Alcune decine di ragazzi su una barca, tutti muniti di giubbotto salvagente. Hanno lo sguardo sorridente, quasi sollevato. Festeggiano e gridano: «Italia, Italia». Poco dopo, spunta sullo schermo una grande nave della nostra marina militare. È grigia e sul fianco ha la sigla P410. Si muove verso la barca con a bordo i ragazzi. I loro volti continuano a esprimere gioia. Un gommone con la scritta «marina militare» si stacca e si avvicina al natante in difficoltà. A bordo alcuni italiani in uniforme lanciano bottiglie d’acqua alle persone a bordo. Poi il video dissolve. L’epilogo non si vede, ma ce lo hanno raccontato nei dettagli molti di quei ragazzi. Come già scritto sul manifesto del 6 luglio scorso, i passeggeri della barca sono stati inizialmente trasbordati sulla nave grande per essere rifocillati. E poi sono stati riportati al punto di partenza, nella città costiera di Zuwarah. Un viaggio a ritroso tanto più beffardo in quanto è stato condotto con l’inganno: «Ci hanno detto che ci stavamo dirigendo in Italia, che saremmo potuti arrivare a Roma o Milano, invece hanno fatto rotta verso sud», ci ha raccontato più di uno dei partecipanti a quel viaggio.
La barca era a 30 miglia da Lampedusa, cioè molto vicina alle acque territoriali italiane. Ma, in virtù della nuova politica inaugurata nel maggio del 2009, i viaggiatori sono stati riportati in Libia, senza preoccuparsi di capire se sullo scafo ci fossero potenziali richiedenti asilo. La traversata in senso inverso si è conclusa malamente più di 12 ore dopo, quando la barca P410 ha consegnato il suo carico umano a una motovedetta libica al limitare delle acque territoriali della Jamahirìya. La nave libica è poi approdata al porto di Zuwarah, sulla costa della Tripolitania, e gli 82 viaggiatori- 76 eritrei, tre etiopi e tre egiziani – sono stati portati in due diversi centri di detenzione.
E video – che ci è stato recapitato attraverso internet da uno degli sventurati partecipanti a quel viaggio, oggi a Tripoli dopo aver trascorso diversi mesi nel centro di prigionia Misratah – è la prova che smentisce il nostro governo. «Non è dimostrabile che i ragazzi chiusi a Braq sono stati respinti dall’Italia», ha detto nei giorni scorsi il ministro degli interni Roberto Maroni. Noi sappiamo che 11 dei reclusi di Braq hanno partecipato a quel viaggio. Abbiamo i loro nomi e i loro cognomi. Le loro storie sono state registrate sia nel campo di Misratah, dove sono stati portati un mese dopo il respingimento, sia nell’ufficio di Tripoli dell’Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati (Unhcr). Adesso ci sono anche i loro volti. Se il governo volesse, potrebbe fare le opportune verifiche incrociate. E scoprire che gli 82 viaggiato¬ri, tra cui nove donne e tre bambini, sono tutti ancora in Libia. Undici sono nel gruppo dei 205 eritrei che il 30 giugno scorso sono stati trasportati a Braq come «punizione» per essersi rifiutati di riempire dei formulari in tigrino, temendo di venire deportati in Eritrea. Alcuni altri sono riusciti a uscire dal centro di Misratah e vivono oggi a Tripoli nascosti, temendo un nuovo arresto. Altri ancora sono in altri centri di detenzione nella Jamahirìya.
Ma quello del 1° luglio non è il solo respingimento che riguarda da vicino i 205 ragazzi eritrei rinchiusi da ormai quasi due settimane nel carcere di Braq. Un altro è avvenuto l’8 settembre. Un’altra nave
italiana, questa volta più vicina alle coste della Libia. Li ha raccolti e consegnati alle autorità di Tripoli. Quarantotto di quei respinti sono oggi nel centro di detenzione nel sud della Libia. Il 21 novembre, un’altra operazione. Questa volta fatta in maniera diversa: una barca carica di 86 persone – tutti eritrei e somali – è alla deriva in acque intemazionali. Sono a circa 60 miglia da Lampedusa, nelle cosiddette acque Sar (ricerca e soccorso) di competenza maltese. Solo il giorno precedente un’altra imbarcazione era riuscita ad approdare a Pozzallo, in provincia di Ragusa, con a bordo circa 200 eritrei. Troppi per un governo che ha fatto della cancellazione degli sbarchi una priorità. Così, questa volta gli italiani decidono di non intervenire. Chiamano i libici e dicono loro di venirsi a riprendere il carico di viaggiatori, nonostante la barca si trovi a 120 miglia dalle coste della Jamahirìya Dopo diverse ore arriva una motovedetta libica (la Zwara) e riporta nel paese arabo tutti i migranti. Quarantaquattro di loro sono oggi nel carcere di Braq. A quanto ha scritto all’epoca il quotidiano della Valletta Times of Malta, «le autorità di soccorso di Messina e Palermo hanno coordinato l’operazione con le autorità libiche, e mantenuto il contatto con il Centro di coordinamento del soccorso delle forze armate maltesi». Il che vuol dire che gli italiani (e i maltesi) non hanno solo violato la Convenzione di Ginevra, che vieta di respingere verso paesi non sicuri potenziali richiedenti asilo, ma anche le regole del diritto marittimo, dal momento che non hanno prestato soccorso a una barca in difficoltà e l’hanno esposta a ulteriori rischi durante l’attesa dell’intervento della motovedetta libica.
Secondo il sito Fortress Europe, osservatorio sulle vittime dell’emigrazione, sarebbero 1409 i «respinti» nel canale di Sicilia dal maggio 2009. Di questi -le cifre sono state fornite dallo stesso governo libico – 245 erano eritrei. A Braq, secondo le cifre in nostro possesso, ce ne sono 103, vittime dei tre respingimenti sopra citati.
Non avendo firmato la Convenzione di Ginevra del 1951, la Libia non riconosce il diritto d’asilo. Tanto che, coerentemente, non definisce i cittadini eritrei «richiedenti asilo», ma «immigrati illegali». L’Italia, che invece ha firmato la Convenzione di Ginevra, li respinge in mare. E continuerà a farlo: nella finanziaria appena approvata sono previsti 2 milioni di euro «per la proroga della partecipazione di personale del Corpo della guardia di finanza alla missione in Libia in esecuzione degli accordi di cooperazione sottoscritti tra la Repubblica italiana e la Grande Giamahiria araba libica popolare socialista per fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione clandestina e della tratta degli esseri umani».