Lettera aperta a Benedetto XVI
(e a tutti coloro che amano definire il celibato obbligatorio un “valore sacro”)
Questa lettera è firmata da Antonella Carisio, Maria Grazia Filippucci, Stefania Salomone … insieme alle altre … anche a nome di tutti coloro che stanno soffrendo a causa di questa legge ingiusta
Chi scrive è un gruppo di donne, di ogni parte d’Italia, che ha vissuto o vive tutt’ora l’esperienza di una relazione con un prete o religioso. Siamo abituate a vivere nell’anonimato quei pochi momenti che il prete riesce a concedere e viviamo giornalmente i dubbi, le paure e le insicurezze dei nostri uomini, supplendo alle loro carenze affettive e subendo le conseguenze dell’obbligo al celibato.
E’ una voce, la nostra, che non può essere ignorata, dal momento che vi ascoltiamo riaffermare la sacralità di ciò che sacro non è, una legge, ignorando al contempo i diritti fondamentali delle persone. Ci ferisce
il disprezzo con cui nei secoli e nelle recenti dichiarazioni si cerca di mettere a tacere il grido di uomini e donne che patiscono nell’ormai lacerato sudario del celibato obbligatorio.
Intendiamo ribadire – nonostante ormai molta parte dei cristiani lo sappia – che questa disciplina non ha niente a che vedere né con le scritture in genere, Vangeli in particolare, né con Gesù, che non ne ha mai parlato.
Anzi, per quanto ne sappiamo, egli amava circondarsi di discepoli, quasi tutti sposati, e di donne. Ci direte che anche Gesù ha vissuto da celibe e il prete semplicemente si conforma alla sua scelta. Ecco, appunto, una scelta. Ma una norma non può essere una scelta, se non forzandone il senso. Se poi lo si definisce carisma, non può dunque essere imposto né richiesto, tanto meno al Signore, il quale ci ha voluto liberi, perché amore è libertà, da sempre.
E’ quindi verosimile pensare che intendesse negarne determinate espressioni ad alcuni dei suoi discepoli, al di là di ogni supposta opportunità?
Sono risapute le ragioni che, a suo tempo, hanno spinto la gerarchia ecclesiastica a inserire questa disciplina nel proprio ordinamento giuridico: interesse e convenienza economica. Poi il tutto nei secoli è stato condito con una certa dose di misoginia e ostilità verso il corpo, la psiche e le loro esigenze primarie.
E’, dunque, una legge “umana”, nel senso lato del termine. E’ da qui che bisogna partire, affinché ci si interroghi se, come tutte le leggi umane, ad un certo punto, in un certo momento storico, non sia il caso di ridiscuterla e modificarla o addirittura, come auspichiamo, eliminarla.
Per far questo, occorre molta umiltà, molto coraggio, quello di discostarsi dalle logiche di potere per scendere con lealtà nel mondo degli uomini al quale, piaccia o no, anche il prete appartiene.
Citando Eugen Drewermann (“Funzionari di Dio – psicodramma di un ideale, Raetia, 1995), “Secondo l’ideologia teologica la persona del singolo chierico assomiglia a un secchio d’acqua: bisogna svuotarlo completamente del suo contenuto per riempirlo fino all’orlo con tutto ciò che ai superiori ecclesiastici sembra desiderabile. In questo modo si neutralizza tutta la sfera dei sentimenti umani a favore del decisionismo del potere. Di tutta la gamma dei possibili rapporti umani sopravvive solamente un tipo di rapporto: la corrispondenza fra l’ordine e la sottomissione, il rituale di padrone e servo, l’astrazione e la riduzione della vita al formalismo del rispetto di determinate direttive”.
Non è una questione di avere più tempo da dedicare agli altri, come recita la più gettonata tra le innumerevoli frasi fatte utilizzate da coloro che ritengono che il chierico non debba e non possa avere un compagna, ma piuttosto un rifiuto dell’idea che gli sia consentito di godere di una presenza sentimentale più intima e personale, a volte addirittura delle stesse amicizie.
Infatti, prosegue Drewermann, “L’identificazione obbligatoria con il ruolo professionale non gli permette di vivere se stesso come persona, e quindi non ha altra possibilità che fingere il calore umano, la vicinanza emotiva, la comprensione pastorale, l’empatia, facendo smancerie, invece di vivere in modo autentico”.
Secondo questa visione istituzionalizzata, il prete si realizza nel suo ministero, attraverso l’ordine sacro, solo da celibe e per tutta la vita. Ma la decisione presumibilmente libera di un giovane ragazzo, entusiasta di una grande proposta che pensa di aver ricevuto, non presuppone che la sua profonda adesione al messaggio di Gesù non possa crescere, maturare, cambiare e magari meglio esprimersi, ad un certo punto, attraverso un presbiterato uxorato. E’ semplicemente questo che accade, quello che non si è in grado di vedere o di valutare a pieno.
Una scelta di questo tipo non può essere immutabile, e non si tratta né di un tradimento né tanto meno di una caduta o di una trasgressione perché l’amore non trasgredisce l’amore. E il prete, come ogni essere umano, ha bisogno di vivere con i suoi simili, di provare dei sentimenti, di amare e di essere amato e anche di confrontarsi profondamente con l’altro, cosa che, difficilmente è disposto a fare per paura di esporsi ad un pericolo.
Dietro alla cortina del detto e non-detto, questo è ciò che viviamo. E’ come se questo sistema ecclesiastico, con le sue norme, riuscisse ad imprigionare la parte più sana di tutti noi.
Cosa accade, di fatto, se il prete si innamora? Può scegliere:
1. Di immolare le proprie esigenze e i propri sentimenti, nonché quelli della donna, a vantaggio di un “bene più grande” (quale?)
2. Di viversi la storia di nascosto, con l’aiuto e la complicità dei superiori, basta che non si venga a sapere e che non si lascino tracce (leggi figli)
3. Di “gettare la tonaca alle ortiche”, espressione consueta che definisce la scelta di qualcuno che non ce l’ha fatta, cioè di un traditore.
Ciascuna di queste opzioni provoca un dolore grande alle persone coinvolte che, comunque vada, hanno molto da perdere.
E quali sono le scelte per la donna?
1. Immolare le proprie esigenze ed i propri sentimenti a vantaggio di “un bene più grande” (in questo caso il bene del prete)
2. Di accettare di vivere la storia di nascosto, passando il resto della sua vita nell’attesa che il prete possa dedicarle alcuni ritagli del suo tempo, attimi rubati, sacrificando il sogno di una storia accanto ad un uomo “normale”
3. Portare il peso di colei che ha costretto il prete “a gettare la tonaca alle ortiche”, oltre a condividere il peso del suo presunto “fallimento”.
Un prete che lascia è comunque considerato “colui che non è riuscito a portare avanti la grande necessaria rinuncia”, e quindi in qualche modo viene isolato. E questa è una cosa difficile da sopportare, per chi è convinto di essere “un prescelto, uno che ha ricevuto una chiamata speciale”, l’Alter Christus, che con un solo gesto delle mani consacra, trasforma la natura delle cose … che perdona, che salva!
E’ possibile rinunciare a tutto questo? E per che cosa?
Per una normale vita di coppia,
che suona perfino banale al confronto delle potenzialità che il “funzionario di Dio” può esercitare attraverso l’ordine sacro.
che suona perfino banale al confronto delle potenzialità che il “funzionario di Dio” può esercitare attraverso l’ordine sacro.
Eppure, una delle frasi ricorrenti detta dai preti alle loro “compagne” , si riassume in poche parole “ho bisogno di te per essere quello che sono”, cioè , un prete.
Non stupitevi! Per riuscire ad essere testimoni efficaci dell’amore hanno bisogno di incarnarlo e viverlo pienamente, così come la loro natura esige. E’ una natura malata? Trasgressiva?
A ben leggere, questa espressione tradisce invece l’urgenza di essere anche parte di un mondo a due, di poter esercitare quel diritto naturale e fondamentale di cui spesso la chiesa istituzionale parla nelle ufficialissime e latine encicliche, riservato evidentemente ai soli laici, e negato ai chierici, che diventano così esseri soprannaturali, talmente separati da tutti gli altri, da non riuscire più a distinguerne i contorni.
Ma è possibile che non riusciate a vedere che il prete è dolorosamente solo? Ha un sacco di cose da fare, che gli riempiono la giornata ma gli svuotano il cuore. Spesso neanche se ne accorge, preso com’è dalle liturgie e dalle incombenze del suo ufficio.
E può capitare che tra le conoscenti ve ne sia una speciale che sembri, già a un primo sguardo, fatta apposta per scaldargli il cuore, completando ed arricchendo anche il ministero. E’ questo che accade, molto semplicemente.
Ma la disciplina ecclesiastica dice “No, tu sei stato scelto per qualcosa di più grande”. E si sente mancare, perché non riesce ad immaginare qualcosa di più grande di ciò che sta provando. Ma si fida dell’obbedienza che ha promesso, pensando che rappresenti la volontà di Dio, il suo piano per lui e per quelli come lui. Il celibe eroe torna quindi alla ribalta di un’istituzione che lo pretende così e magari ha già pronta una promozione in cambio della necessaria separazione.
E tutto questo scempio in nome di quale amore?
Quello che fa nascondere, che fa rinunciare, quello che fa male. Non è l’amore del Padre. Citando una conclusione di Drewermann, “Il Dio di cui parlava Gesù vuole proprio ciò che la chiesa cattolica oggi teme più di ogni altra cosa: una vita umana libera, felice e matura, che non nasce dall’angoscia, ma dalla fiducia obbediente e che è liberata dalle costrizioni della tradizionale tirannia di una teologia che preferisce cercare la verità di Dio in sacre scritture anziché nella santità della vita umana”.
Antonella Carisio
Maria Grazia Filippucci
Stefania Salomone
… insieme alle altre … anche a nome di tutti coloro che stanno soffrendo a causa di questa legge ingiusta
A cura della Redazione del sito www.ildialogo.org